𝟭𝟱. 𝗖𝗢𝗥𝗥𝗜, 𝗖𝗢𝗥𝗥𝗜, 𝗖𝗢𝗥𝗥𝗜
Un colpo secco mi fece aprire gli occhi. Attraverso il vetro infranto del finestrino, il volto corrucciato di una donna, dall'espressione severa, mi fissava.
Puntò la torcia su di me e, la luce intensa mi costrinse a strizzare gli occhi, rifugiando il viso sotto il caldo manto della coperta. Continuò a fissarmi in modo strano, quasi arcigno, facendo scorrere la torcia sui sedili posteriori, per poi riportarla su di me.
«Qui siamo vicino a una zona residenziale. Non puoi restare qui. Lo sai, vero?»
Scossi la testa.
I suoi occhi si abbassarono e seguii il rumore del vetro calpestato dai suoi stivali. «Che è successo qui?» Abbassò la torcia, spegnendo la luce con un click secco.
Il suo atteggiamento era quello di chi aveva il controllo, ma c'era anche un certo distacco.
Sbattei le palpebre, il gesto lento che tentava di metterla a fuoco.
La donna annaspò, facendo apparire delle rughe, sulla fronte, più profonde. Fissando il pickup, fece un passo indietro e si toccò la spalla destra.
Mi mossi nervosamente sul sedile, intravedendo in penombra uno spillo che scintillava sotto alla luce dei fari della macchina parcheggiata dietro al pickup, sulla parte destra del torace.
«10.0 Centrale, agente Langford. Abbiamo raggiunto il punto segnalato. Un pickup nero, modello Ford Ranger, abbandonato lungo il margine della strada residenziale. C'è una ragazza a bordo.»
Era un agente di polizia. Avrei dovuto essere più previdente e capirlo subito. Nei tanti anni in cui avevo vagato sulla terra, avevo incontrato innumerevoli tipi di persone: doppiogiochisti, allegri, rabbiosi, imparziali, conformisti.
Doveva sembrarmi un gioco da ragazzi, ma era stato l'ultimo dei pensieri. Le reazioni che quel corpo suscitava in me erano stizzose: la temperatura saliva e scendeva, il cuore accelerava ogni volta che udivo un rumore secco provenire dal colabrodo fuori dal veicolo.
La donna mi lanciò un'occhiata indecifrabile, mentre dal trasmettitore giungeva una voce femminile, fredda e metallica.
«Qual è il nome della ragazza? È ferita? Vi serve un'ambulanza sul posto?»
Dallo specchietto del pickup, seguii in controluce la sagoma di un uomo robusto che avanzava. Il tintinnio metallico delle catene rimbombava nelle mie orecchie a ogni passo pesante sull'asfalto. L'uomo si sporse in avanti, portando il busto verso il finestrino del veicolo per sbirciarvi dentro; i suoi occhi, assenti ma allo stesso tempo calmi e distanti, incontrarono i miei.
Ripulì i frammenti di vetro dallo spiraglio del finestrino, appoggiandoci sopra le braccia. Incrociò le dita e notai che portava la fede sull'anulare destro.
Strano.
Ma ne compresi il senso solo quando vidi che il suo anulare sinistro era ricoperto da una guaina.
«Non presenta ferite visibili. Io e l'agente Robinson la portiamo in centrale. Inviate un'altra pattuglia per verificare il pickup e il numero di targa.»
Non appena l'agente concluse la comunicazione, i suoi occhi vigili ripresero a fissarmi, inesorabili.
Ero schiacciata contro un muro, preda di cacciatori in cerca della carne più tenera.
Essere un topolino nelle grinfie di un gatto, mi lasciava due opzioni: la prima; accettare la volontà degli agenti, comportarmi in modo civile e rispettare le leggi umane.
E poi, la seconda possibilità: correre.
«Come ti chiami?» domandò l'agente donna, ma rimasi in silenzio, incapace di rispondere.
Il poliziotto robusto sollevò un sopracciglio e mi scrutò il viso. I suoi occhi azzurri brillavano sotto la luce dei fari, poi sbuffò, visibilmente irritato.
«Fuori dal pickup.» La voce di lui fu secca, priva di esitazioni.
Sfilai la coperta dalle spalle e aprii lo sportello dal lato del passeggero. Mentre scivolavo con i piedi sull'asfalto, avevo la sensazione di camminare su un pendio spigoloso, fatto di lastre di ferro.
Con un gesto rapido, richiusi lo sportello e, camminando lentamente davanti al pickup, i fari abbaglianti della volante parcheggiata a pochi metri, accecarono la mia figura, in piena carreggiata.
Una brezza gelida mi costrinse a stringermi le spalle e a incrociare le braccia attorno al busto. Sebbene il vestito fosse ormai completamente asciutto, l'umidità penetrava nelle ossa, facendole dolere.
«Aspetta! Cos'è quello?» fece l'ufficiale donna, indicando le mie mani.
Abbassando lo sguardo, al di là delle nocche irritate e macchiate di sangue, notai che persino le unghie erano morsicate e, nelle pieghe, contenevano tracce di sangue rappreso. Le ginocchia degli arti inferiori erano bucherellate e il vestitino bianco macchiato di schizzi rossi sull'orlo della gonna. L'ufficiale si avvicinò, mantenendo una distanza misurata, la mano sull'impugnatura della pistola nel fodero.
Feci un passo indietro.
«Non muoverti!»
Indipendentemente da quello che avessi fatto, la mia via di fuga era ormai inevitabile.
Voltai il busto di scatto e corsi nella direzione opposta.
Ogni passo era più faticoso del precedente, le gambe tremavano sotto il mio peso, mentre la vista si annebbiava con ogni respiro affannoso. L'adrenalina che mi scorreva per le vene era l'unica cosa che mi teneva in piedi, la determinazione a non farmi ingabbiare, a non restare prigioniera, a non appartenere a un mondo dove la libertà era solo un miraggio irraggiungibile.
Alle mie spalle, il tintinnio dei passi pesanti risuonava sull'asfalto bagnato, e il grido del poliziotto mi perforò le orecchie, ordinando a squarciagola di fermarmi. Il suo ultimatum mi costrinse a correre ancora più veloce; gli occhi fissi nel vuoto, pieni di frenesia e adrenalina.
«Fermati!»
Lanciai uno sguardo rapido alle mie spalle: se avessi rallentato, anche solo per un attimo, mi avrebbe subito raggiunta.
Strinsi i denti, costringendo ogni fibra di questo corpo a reagire, a non cedere.
Inciampai sulle dita dei piedi che si piegarono sull'asfalto bagnato. Le ginocchia colpirono il terreno ruvido in un impatto sordo e, un gemito di dolore, mi strappò la gola.
Feci leva sui palmi, cercando di alzarmi, ma avvertii il corpo più pesante, come se la forza mi stesse abbandonando, un passo dopo l'altro.
Ma, all'improvviso, delle mani mi afferrarono dalle braccia.
«Lasciami!» urlai, scagliandomi contro l'agente che mi aveva afferrato da dietro. Scalciai furiosamente all'aria, cercando di liberarmi con ogni fibra del mio corpo, ma lui era troppo forte, troppo robusto, e mi sovrastava in ogni modo.
Mi trattenne i polsi sottili con una mano, imponendo la sua forza. Da lontano, la collega ci raggiunse.
L'agente pressò il ginocchio contro il mio osso sacro, causandomi la contrattura lombare e, obbligandomi a flettermi sull'asfalto, torreggiava sulla mia schiena.
«Centrale, abbiamo un 10.95 in corso» comunicò in via radio. Le manette mi bloccarono i polsi, rendendo la pelle bollente per la pressione. Un lamento di pena sfuggì senza che potessi contenerlo. «Soggetto in delirio. Ha cercato di scappare.»
«10.4. Vi aspettiamo in centrale.»
༒
I due agenti mi avevano ammanettata alla scrivania, costringendomi sotto il peso del metallo che mi stringeva i polsi. Intorno a me, diversi agenti si muovevano freneticamente con cartelline sotto il braccio e tazze di caffè che ronzavano tra le mani. Il rumore dei passi affrettati e delle conversazioni concitate riempiva la stanza, ma nessuno sembrava notare la mia presenza. Rimasi lì, silenziosa e ignorata, come un'ombra tra le ombre.
A un certo punto, il suono secco di alcune schede sbattute sulla scrivania, mi fece sussultare.
Incontrai lo sguardo incomprensibile di un uomo che sembrava stranamente tranquillo e stanco.
«Non sei scappata.»
Stringendo le labbra in una linea sottile, sollevai di scatto i polsi e le catene cantarono, un suono che ricordava chiaramente che non potevo neanche alzarmi.
Sospirò, scostando la sedia e lasciandosi cadere su di essa, come un peso morto. Chiuse gli occhi, rilassandosi contro lo schienale. «Hai fatto correre l'agente Robinson per duecento metri buoni. Non era felice.»
L'uomo aprì un occhio, esaminandomi con uno sguardo visibilmente intorpidito, segnato dalle sacche sotto gli occhi e dall'apatia dipinta sul volto.
«Sei di poche parole» disse, portando il busto in avanti e intrecciando le dita sui fascicoli sparpagliati. «Come ti chiami?»
«Tu come ti chiami» ribattei, sulla difensiva.
Le sue sopracciglia si alzarono di colpo. «Quindi, non hai perso l'uso della lingua...» Un angolo della bocca si sollevò in un sorriso sardonico. «Sono il detective Rogers.»
Esaminai il suo volto, mordendomi il labbro; distolsi lo sguardo, puntandolo sulle manette. Tirò un sospiro. «Se non vuoi dirmi il tuo nome, almeno dimmi perché ti trovavi lì.»
Scossi la testa.
«Sei in una centrale di polizia perché, oltre a trovarti in un'area privata senza autorizzazione, hai prestato resistenza a un pubblico ufficiale» spiegò con voce calma, ma ferma. «Hai cercato di scappare. Perché?»
Schiusi le labbra impastate.
«Detective Rogers!»
La poliziotta che mi aveva arrestata si avvicinò rapidamente alla scrivania. Alle sue spalle, vidi un ragazzo irascibile trattenuto dall'agente Robinson, gli occhi sfuggenti e i capelli scarmigliati.
Il detective Rogers si alzò lentamente, lanciando un'occhiata curiosa verso il ragazzo.
«Chi è lui? Un testimone?»
«No, detective.» Rispose l'agente Langford. «È Oliver Wallace. Suo fratello.» Poi, guardò me.
༒
Alla radio, una canzonetta country suonava a volume moderato, riempiendo il silenzio tra noi.
Picchiettava le dita sul volante a ritmo di musica, sussurrando le liriche di quella canzone sconosciuta. Muoveva la testa seguendo il flusso della melodia e, a me, sembrò di camminare su dei frammenti di cristallo.
«Dove stiamo andando?»
«Al dormitorio» rispose, lanciandomi un'occhiata prima di ritornare a concentrarsi sulla strada.
Sospirai. «Non hai fatto domande.»
Oliver strinse gli occhi, ma non per intimidire. Sembrava piuttosto riflettere.
«Anche se te le facessi, mi risponderesti?» Puntò gli occhi color cioccolato nei miei, facendomi risalire un rigurgito di bile in gola.
Questo ragazzo amava essere onesto con gli occhi.
Distolsi lo sguardo.
«È stata una bravata. Poteva capitare a chiunque.»
Per scetticismo, spostai lo sguardo sulla strada che scorreva al margine del finestrino. L'aria era scura e i rami degli alberi proiettavano ombre così grandi che sembravano esagerazioni di una realtà che non avevo mai notato prima. Eppure, neanche tanto tempo fa, anche io ero un'ombra come loro.
«Puoi fermarti? Devo usare il bagno.»
Oliver mi lanciò un'occhiata rapida. «C'è una stazione di servizio a ottocento metri. Posso fermarmi lì.»
La spirale mi pizzicò e, per istinto, la grattai.
Due minuti dopo, svoltò a destra, entrando nell'area di servizio. Parcheggiò davanti all'ingresso del market.
«Faccio benzina e prendo qualcosa da mangiare. Hai fame?» Tirò fuori il portafoglio non appena scendemmo dal veicolo. Scrollai le spalle, serrando gambe e braccia per contrastare il freddo. Un'altra debolezza degli esseri umani: il bisogno di cibo.
La giacca che mi aveva dato Oliver mi stava un po' larga, ma era calda e confortevole, così la chiusi con la cerniera.
«Va bene qualsiasi cosa.»
Entrai nel negozio, seguita da Oliver. Il piccolo campanello sulla porta tintinnò, annunciando la nostra presenza a chi stava lavorando.
Oliver fece un cenno con la testa, indicandomi la direzione degli scaffali per prendere da mangiare.
Nel frattempo, non sapendo dove fosse il bagno, mi avviai verso la cassa. Dietro di essa, c'era un ragazzo che leggeva una rivista, con un cappellino da baseball indossato al contrario.
«Dove si trova il bagno?» La mia voce mancava di obiettività, un miscuglio di giovinezza e infantilismo che mi irritava. Mi schiarii la gola. Non mi sarei abituata facilmente.
Il commesso sollevò lo sguardo dalla rivista, alzando il braccio e puntò l'indice verso l'insegna sopra la sua testa: il servizio igienico è riservato soltanto ai clienti che acquistano.
«Vedi quel ragazzo?» Indicai una testa che sbucava da dietro uno scaffale. «È mio fratello. Deve anche pagare un pieno di benzina.»
«Non sai leggere?» disse, battendo l'insegna con un colpo di nocche. Sghignazzò, compiaciuto dalla supponenza con cui mi aveva interrotto. «Notte lunga?» I suoi occhi languidi corsero sulla giacca maschile che indossavo e, strinsi i denti.
«Come, scusa?»
Il ragazzo inarcò le sopracciglia, poi si curvò lievemente in avanti, accentuando il sogghigno arrogante. «Per le clienti carine come te, potrei anche chiudere un occhio. Magari se sei abbastanza coraggiosa da mostrarmi... qualcosa.»
Stavo per ribattere, quando il rumore di oggetti che cadevano sul bancone, catturò improvvisamente la mia attenzione - e quella del commesso.
I lineamenti di Oliver si indurirono, un sorrisetto scortese sulle labbra, gli occhi truculenti fissi sul depravato.
«Un pieno di benzina, due bottiglie d'acqua e una confezione di carne secca» sibilò, tagliente. «Ah, dimenticavo: e la chiave del bagno, coglione.»
Il ragazzo rimase impietrito, il viso arrossato di un rosso vivo. Dopo un istante di esitazione, annuii alla minaccia indiretta, infilando la mano sotto il bancone: la chiave del bagno. La porse a Oliver che gliela strappò di mano, tendendomele senza dire una parola.
«Faccio il conto.»
«Non disturbarti» Spostò lo sguardo sull'etichetta con il suo nome, come a cercare conferme. «Donovan. Questa sera, sarai tu a offrire.»
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