Capitolo 5

Seduta, fisso il mio riflesso allo specchio perdendomi all'interno delle mie stesse iridi. È tutto così strano, opaco, come se un velo o una nebbia si fosse interposto tra me e il resto del mondo, rendendolo scolorito, privo di qualsiasi attrattiva. Riesco ad ascoltare e a vedere, ma non a provare. Dalle molte sedute psicoterapiche fatte dopo la scomparsa dei miei genitori, so di avere quello che in gergo viene chiamato "ottundimento affettivo"; le uniche cose che lo oltrepassano sono dolore e rabbia.

Grant è morto e il mondo ora è un posto oscuro, sporco, privo di speranza, e io mi sto immergendo in questo pantano. Non credo di riuscire a uscirne. Non questa volta, non di nuovo.

"L'ottundimento affettivo non è insolito in casi di lutto. Se breve, di qualche giorno, non è grave, Raya." Le rassicurazioni della mia ex-terapista ritornano come un eco lontano. Quasi a schernirmi.

L'altra sera, dopo gli avvenimenti al bar, ho sentito qualcosa spostarsi dentro di me, come se, augurando la morte a quelle persone, avessi varcato un confine.

«Ehi.»

Con calma solo apparente, mi volto verso Kyle, appoggiato alla porta della mia stanza con aria preoccupata.

«Sicura che la festicciola con i ragazzi della squadra non ti crei problemi?»

«Saranno tutti qui tra pochi minuti, è un po' tardi per i ripensamenti, no?»

Annuisce debolmente alle mie parole, apre la bocca per aggiungere qualcosa, ma il suono del campanello distoglie la sua attenzione da me, e così com'è arrivato se ne va.

Sola, di nuovo.

Lentamente, stendo il rossetto color prugna, prestando particolare attenzione a non sbavare mentre al piano di sotto, il vociare aumenta e la musica s'innalza, un riverbero profondo che si insinua fino alla bocca dello stomaco attraverso i bassi. I vicini non saranno affatto contenti.

Dopo la morte di Grant, la casa accanto alla nostra è tristemente vuota. I suoi genitori sono andati da dei parenti ricercando un po' di pace dal circo mediatico che li assediava quotidianamente.

I Tastem, gli altri nostri vicini, sono un'anziana coppia legata alle tradizioni con un senso morale molto forte, quasi antico. Questo li porta a non approvare il nostro stile di vita. Non ci creano problemi, ma non ci risparmiano le occhiate di disapprovazione. Nonostante questo, non si azzardano a chiamare la Polizia come fanno per altri. Il ragionamento che c'è dietro il gesto, e che mi fa imbestialire, è: "La musica è troppo alta. Chissà a che razza di perdizioni si lasciano andare... Oh, ma hanno perso i genitori e ora anche un amico, facciamo finta di niente".

La nausea minaccia di soffocarmi. Persa, mi ritrovo davanti all'armadio aperto, cerco di riscuotermi dai pensieri negativi e darmi una mossa a indossare qualcosa.

Opto per un paio di pantaloncini in jeans, una canottiera bianca e, per coprire le braccia, una camicia da boscaiolo oversize per cui Grant mi avrebbe schernito allo sfinimento. Sto per scendere, quando mi rendo conto di essere a piedi nudi, così infilo il primo paio di scarpe che trovo nel mucchio in fondo al guardaroba.

Quando scendo al piano di sotto, la piccola soirée con i compagni di squadra di mio fratello si è trasformata in una festa in piena regola, con gente ubriaca che si dimena sulla pista da ballo improvvisata.

I mobili, tranne la piccola libreria e il divano, sono stati fatti sparire. Gli unici due indizi presenti che fanno capire che si tratta ancora del mio salotto appaiono terribilmente fuori posto, non solo perché sono stati spostati contro il muro. Infatti, il povero divano ocra è stato preso d'assalto da una compagnia numerosa, con gente appollaiata sia sui braccioli che sulla cima dello schienale.

Spero resista, è perfetto per accoccolarsi durante le maratone tv.

Subito una fitta al petto mi rimprovera per aver permesso ai pensieri di fluire verso lidi proibiti.

Mi aggiro per la stanza, cercando visi familiari finché un ragazzo dalla lunga chioma castana mi si avvicina con un incedere incerto, tenendo in mano una lattina di birra. Mi afferra la mano e io, presa alla sprovvista, mi ritrovo a fare una giravolta impacciata.

Nel momento in cui tenta di attirarmi a sé per la vita in un ballo suadente, scuoto la testa in segno di diniego e mi allontano mentre lui, non toccato dal rifiuto, approccia un'altra ragazza trascinandola a ballare.

Un sentimento simile all'invidia serpeggia nel mio cuore osservando la sua leggerezza, la sua trasparenza. È solo uno studente qualunque, forse un giocatore, in cerca di divertimento; balla, finché le note risuonano nell'aria tirando i fili della sua anima così come un burattinaio guida la sua marionetta a un ritmo sconosciuto ad altri. Forse anche lui danza per occultare le sue preoccupazioni, tentando di metterle da parte per qualche ora.

L'inquietudine mi spinge a scegliere la via meno pericolosa, quella lontana dalla litania costante della dipendenza, e mi avvicina a una soluzione dagli effetti brevi e meno devastanti.

Raggiunta la cucina, scruto la scelta di bottiglie presenti nel grande vaso bianco da esterno straboccante di ghiaccio, finché non trovo il mio veleno preferito.

Ne scelgo una ancora sigillata di vodka fruttata e mi dirigo in giardino ignorando gli sguardi basiti della gente attorno.

Mia la casa, mie le regole.

Supero le compagnie che parlottano e gli amanti in cerca d'angoli bui, andando ad appropriarmi dell'altalena che da piccola disprezzavo tanto.

Ruoto il tappo, strappando il sigillo, e permetto al sapore ingannevolmente dolce in bocca di infiammarmi la gola, una volta, due e ancora, ancora.

La casa, la musica, le risate, le parole dell'ultima hit di un qualche rapper diventano un'oasi lontana che sono sempre più felice di non raggiungere.

Svanisco dietro il velo che consuma la mia esistenza, trasportata in un'ingannevole pace dei sensi. Ma, come ogni cosa bella, questa falsa armonia non è fatta per durare.

Tutto viene avvolto da una foschia ghiacciata, un freddo così intenso che pungola la mia memoria.

Figure sinistre compaiono, emergendo dalle finiture della portafinestra, dai dislivelli del giardino, dalle ombre proiettate sul terreno.

Si agitano convulsamente nello spazio, attraversando muri e persone, dissipandosi e ricomponendosi.

Le nebulose sono di tutte le forme, grandi e piccine, dal modo in cui si spostano non sono consapevoli di cosa le circonda.

Una sbriciola la mia deduzione, allontanandosi dalle altre, muovendosi verso la recinzione che delimita il confine tra le proprietà.

Pare allargarsi, prendere forma, un alito che espande e uno che definisce.

Spalle ampie, gambe lunghe e dinoccolate, un cardigan chiaro, folti ricci castani, la figura apre la bocca e una voce conosciuta mi raggiunge: «Raya, sei...»

«Ehi, hai qualcosa da fumare?»

La cosa si dissolve insieme alle altre apparizioni spettrali, al suo posto compare un compagno di squadra di mio fratello, Carter-qualcosa, uno dei pivelli che sta sempre in panchina, con due dita imita il gesto picchiettandosi le labbra nel caso non avessi compreso la sua domanda.

«Non fumo» sussurro, chiedendomi se qualcuno abbia effettivamente potuto correggere il contenuto della bottiglia di vodka.

«Ah. Niente, scusa. È che avevi l'aria di chi si sta facendo un bel viaggetto, così ho pensato che magari avessi qualcosa.»

Scuoto la testa e Carter si allontana verso la casa luminosa.

Quella notte.

Quando mia madre... La sera che ho creduto di morire, avevo già sperimentato qualcosa di simile?

Un movimento attira la mia attenzione, i signori Tastem contemplano dalla finestra il nostro giardino con sguardi inorriditi.

Sorpresa che a quest'ora siano ancora in piedi, alzo il braccio gesticolando per attirare la loro attenzione; una volta ottenuta, sollevo la bottiglia in un brindisi improvvisato mentre con l'altra mano riproduco un bel medio.

La signora Ines si copre il volto sconvolta mentre il marito la fa allontanare dal disdicevole spettacolo che sto loro offrendo.

Questo che è reale.

Decidendo che non è il caso di rimanere da sola con l'eccessiva quantità di alcol – probabilmente allucinogeno – che ho ingerito, rientro stringendo la vodka al petto per proteggerla dagli spintoni di un pogo violento che coinvolge tutta la sala.

Striscio contro la parete cercando di guadagnare un posto sicuro e finalmente scorgo un viso familiare non uscito da un regno infernale.

Lexy è nell'antro della cucina, un bel vestitino verde fa risaltare il biondo dei suoi fitti boccoli. Appare turbata, gesticola freneticamente e credo stia urlando, però chiunque sia il malcapitato rimane coperto dietro al muro separatorio.

Non riuscendo a raggiungerli per via della ressa, mi contorco per verificare che ancora una volta non si stia scannando con Kyle, quando il destinatario della sua sfuriata si rivela.

Subito a catturare la mia attenzione è la sua mole così differente dal fisico longilineo di mio fratello, per non parlare della barbetta bionda e della zazzera caramello che gli circonda il volto spigoloso.

È il playboy del locale, l'uomo uscito direttamente da una rivista di motociclisti sexy che aveva chiesto a Lexy se si fossero già incontrati in precedenza.

Lei aveva negato. Mentendo?

Una ragazza minuscola mi finisce addosso per via di una spinta, spontaneamente l'aiuto a sorreggersi con la mano libera dalla bottiglia, questa alza la testa e mi fa un tenue sorriso di scuse.

La stanza inizia a vorticare. Il respiro si spezza.

È lei. La ragazza del Respite che si gettava su Sbocchino incurante dei rischi.

Troppo sorpresa non la fermo quando si scrolla dalla presa e si allontana rifugiandosi tra un gruppo di uomini alti e possenti.

Sono loro. Sono tutti qui.

Niente ha più senso. In vent'anni non li ho mai incrociati e ora Grant è morto in un bar frequentato da loro e pochi giorni dopo me li ritrovo in soggiorno?

Scelgo di sfogarmi sull'unica persona che può darmi delle risposte, Lexy, ma non c'è più. È bastata quella piccola distrazione e ora né lei né la persona con cui stava litigando sono in vista.

Faccio un giro completo, ma non li trovo neanche in giardino. Se ne sono andati. Mi hanno vista? O sto diventando eccessivamente paranoica? Forse potrei chiamarla e chiederle dov'è, senza dirle che ho assistito al suo piccolo tête-à-tête. Sì, posso fare così.

Raggiungo la camera il più velocemente possibile. Spalanco la porta e sbatto contro il petto di qualcuno, un torace gigantesco. Rimbalzo come una pallina da tennis rischiando di cadere, ma lui mi passa prontamente un braccio dietro la schiena, sorreggendomi senza apparente fatica. Purtroppo, nella foga, lascio andare il mio trofeo. La bottiglia atterra sul tappeto, che attutisce la caduta e le impedisce di rompersi. Meno male che l'avevo chiusa. Una volta accertato che la bottiglia sia in salvo, riporto lo sguardo sull'intruso.

L'assaltatore improvvisato indossa stivali alla caviglia simil Combact Boots tutti impolverati, neanche avesse percorso miglia su una strada sterrata per arrivare qui; e un paio di jeans strategicamente sbrindellati che fanno intravedere sprazzi di pelle abbronzata ricoperti da una leggera peluria. Nonostante questo look gridi "cattivo ragazzo", almeno non sono calati lungo i fianchi.

Alzo la testa e continuo, percorrendo con gli occhi centimetri di muscoli tesi messi in risalto da una banale maglietta nera.

Il petto si alza e abbassa a un ritmo costante, quasi impercettibile, e lo stesso fa il pomo d'Adamo, una piccola sporgenza che una parte contorta della mia testa vorrebbe stuzzicare con i denti.

Mi sollevo ancora un po' per poter scorgere finalmente il suo volto dal profilo tagliante, determinato, micidiale.

Ma quello che sarebbe davvero in grado d'infiammare una persona sono gli occhi, quelle iridi imperscrutabili dentro cui si cela un sole morente.

Porca troia.

Devo essere finita in uno di quegli scherzi televisivi in cui stai facendo qualcosa di normale, come lavare i piatti o passare l'aspirapolvere e, a un certo punto, ti ritrovi il tuo attore preferito in casa, che ti chiede: «Come va?»

Troppo presa dalla mia fantasia rispondo come una sciocca ad alta voce: «Ora benissimo».

L'Adone inarca un sopracciglio con aria beffarda, probabilmente cercando d'inquadrare di quale disturbo mentale io soffra.

A questo punto penserà che io sia una maniaca.

Tento d'indietreggiare per impedirmi di fare qualcosa di davvero sciocco e inappropriato, come sollevargli la manica sul bicipite per scoprire cosa raffigura l'inchiostro nero che si intravede, ma la sua presa non accenna a liberarmi.

Lo squadro, sperando di riuscire a mettere insieme un'espressione intimidatoria che gli imponga di mollarmi, ma ottengo solo delle fossette da svenimento e la vista di alcuni candidi denti perfettamente simmetrici.

Accarezzandomi più del dovuto, il suo avambraccio si ritira dalla mia schiena con lentezza, provocando un attrito che manda brividi lungo tutta la colonna vertebrale, permettendomi così di indietreggiare.

«Bella entrata, sei di fretta?»

Di fretta?

Lexy!

Infastidita, ma incuriosita rispondo piccata: «Be', di solito non rischio di scontrarmi con qualcuno entrando in camera mia». Per quanto la sua oggettiva bellezza mi abbia momentaneamente destabilizzata è strano che sia qui. Nessuno dovrebbe salire al piano superiore.

«Touché.»

Mi affianca piegandosi per raccogliere la vodka. Inclino la testa seguendo l'arco elegante disegnato dalla sua schiena; non pensavo fosse possibile far guizzare tanti muscoli per un movimento così semplice.

Gnam, gnam.

Mi allunga la bottiglia, che io afferro in automatico, accarezzando casualmente la sua mano ancora stretta intorno al collo. Inebetita, rimango a fissare il distillato mentre lui mi sorpassa per uscire.

«Scusa, non hai intenzione di giustificare la tua presenza in camera mia?»

Già oltre l'uscio, si volta solo con la testa, un bagliore gli illumina gli occhi ramati, ricorda un predatore. «Dipende. Tu hai intenzione di dirmi cosa facevi al Respinte for beings l'altra sera?»

Boccheggio, senza parole. La realtà che si infrange distruggendo quel piccolo momento idilliaco, in cui ho creduto realmente che incontri del genere possano accadere nella realtà senza doppi fini o inganni.

Una favola dentro una vita di incubi.

Un abbraccio protettivo invece dei soliti ceffoni.

«Come immaginavo.» E se ne va, chiudendo la porta dietro di sé.

Quel tonfo, quella chiusura, un po' spegne anche la piccola speranza che non sapevo nemmeno di nutrire, di proteggere da qualche parte dentro di me.

L'animo di una romantica che si spezza.

Quando mi riprendo, è come tentare di muoversi dopo essere caduti in un sonno profondo. Arranco, ma nel corridoio non c'è più, sulle scale nemmeno.

Tornando indietro mi affaccio alla finestra, ed eccoli lì. Tutti gli avventori del locale stanno camminando in mezzo alla strada, come se ne fossero i padroni, colui che mi ha teso l'agguato in testa al gruppo, accanto al biondo di Lexy.

Rimango a fissarli mentre spariscono, sempre più lontani, minuscoli eppure con il potere di terrorizzarmi, e capisco.

Sono andata nel loro territorio per spiarli, e loro hanno voluto farmi sapere che sanno chi sono, ricambiando il gesto.

Il messaggio è stato recapitato e compreso.

Presa dalla frenesia, quasi ribalto la stanza, ma all'apparenza non manca nulla. L'unica opzione è che sia stato qui tutta la sera solo per aspettarmi e spaventarmi.

Provo a chiamare Lexy una, due, dieci volte, ma l'unica risposta che ottengo è un messaggio.

Lexy: Ho preso una sbronza colossale, sto malissimo. Ti chiamo quando sto meglio XD

Neanche a dirlo, non le credo.

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