Capitolo 2
TREDICI ANNI PRIMA
«E sai, Kyle? Avrete una camera a testa! Niente più notti nel letto a castello con coccinella. Ormai stai diventato grande, hai bisogno dei tuoi spazi.»
Papà continua la sua campagna per portare Kyle dalla sua parte, ignorando come ogni parola che pare scalfire la volontà di mio fratello mi faccia stritolare il povero Balto al petto.
Da quando ho ricordo, il piccolo peluche tratto dall'omonimo film è sempre stato con me. Le tenere orecchiette beige e grigie tutte consumate per i troppi morsi nervosi.
Ultimamente sono sempre umidicce.
Anche adesso la punta sfiora le mie labbra, quasi sfidandomi ad affondare i denti, ad assaporare la sensazione della morbidezza che si piega sotto la tenacia della mia presa.
Ma non posso.
Non qui, con papà che guida e lancia continue occhiate dallo specchietto per controllare l'effetto delle sue parole sui nostri volti.
Si arrabbierebbe.
Proverebbe di nuovo a portarmelo via, affermando che sono troppo grande e che il mio comportamento non è salutare. Non è normale.
Mamma si precipiterebbe a difendermi e litigherebbero ancora.
Già urlano spesso, ma quando lo fanno per colpa mia mi sento terribile, cattiva, sbagliata.
Come se avesse percepito il mio stato d'animo, Kyle, cercando di non farsi notare, allunga il braccio e afferra Balto per la coda, tirandolo in modo che io me lo appoggi in grembo, ben lontano dalla bocca.
Un monito negli occhi cristallini.
Fai silenzio. Non ti lamentare. Fingi di essere felice. Non provocarli.
Ripeti.
Annuisco, ricordando il patto stretto questa mattina prima di partire verso la nuova casa.
«Sì, ragazzi. E poi la scuola sarà vicina. Non dovrete più svegliarvi presto per prendere l'autobus, potrete andarci comodamente a piedi, o vi potrei accompagnare io.»
Mamma è mezza girata sul sedile, sorride, il labbro inferiore trema. «Vedrete, vi piacerà. Sarà un po' diverso.» Le sue iridi cristalline si soffermano su di me, dubbiose. «Ma ci abitueremo» conclude la frase con una nota incerta che la fa somigliare a una domanda.
«È un'opportunità che capita una volta nella vita!»
«Hai già un lavoro. Qui.»
«Lo studio là è più grande. Con clienti importanti. Guadagnerò molto di più.»
«Non ci servono altri soldi, viviamo più che comodamente così.»
«Vuoi dire che a te non servono soldi. È comodo vivere con l'eredità del papino, vero?»
«Sono anche tuoi. Quello che è mio è tuo.»
«Credi davvero che io possa continuare a vivere alle spalle di quell'uomo? Mi ha disprezzato fino al suo ultimo respiro. Non pensava avessi il talento, la grinta, il fegato per fare l'avvocato a quei livelli. Non capisci?»
«Dio mio, Mark, mio padre è morto. A chi devi provare qualcosa?»
«A me stesso. A te. Ai nostri figli!»
La stessa discussione si è ripetuta con toni diversi per le due settimane necessarie per organizzare il trasloco.
Mamma non voleva lasciare il piccolo cottage di campagna dove abbiamo sempre vissuto. Per lei la città è un mostro che corromperà i suoi figli, e il nuovo lavoro di papà è qualcosa che lo allontanerà da noi.
Il resto del viaggio passa in un'atmosfera agitata. Carica di attesa e di aspettative, ma, per quanto mi riguarda, anche di paura.
Il tempo sullo schermo del navigatore continua a diminuire, quasi schernendo il mio cuore, che invece batte all'impazzata, risuonandomi nelle orecchie, nella presa stritolante con cui tengo Balto.
Cosa ci aspetterà alla fine di questo conto alla rovescia?
Edifici sempre più alti scorrono al finestrino mentre il verde diminuisce, sempre più rado, spoglio.
Asfalto, cemento e acciaio ovunque.
Abbasso un poco il finestrino. Prendo una bella boccata d'aria, ma anche questa manca della purezza a cui sono abituata.
«Coccinella, chiudi gli occhi finché ti dico di riaprirli.»
Dubbiosa, faccio come dice papà, chiedendomi con quale "esaltante" bellezza cittadina voglia sorprendermi ora.
Tengo forte le palpebre serrate, sento Kyle sussultare, e dopo un poco la macchina rallenta fino a fermarsi.
«Siamo arrivati?»
«No, piccola sosta che ti piacerà tanto. Guarda.»
Obbedisco e non posso credere a ciò che vedo. Per quanto tenti, il mio sguardo non riesce ad abbracciare l'interezza dell'enorme foresta che si trova sotto di noi, giù dal ponte sospeso. Alberi dai tronchi giganteschi, imponenti, dalle fronde fittissime, che si estendono a perdita d'occhio.
«Quello è il Parco Nazionale di Oman, il polmone verde della città. Potremo andare a fare qualche escursione, ho sentito che è uno spettacolo. Cosa ne pensi, coccinella? Ti piacerebbe?»
Annuisco sognante, è meraviglioso.
Papà sorride sornione a mamma. «Visto? Ci troveremo tutti bene qui.»
Il volto di lei appare tirato mentre si sporge per stringermi un braccio con un gesto affettuoso. «Però non puoi mai andarci da sola, c'è il rischio di perdersi. O di incontrare qualche animale selvatico.»
«Ci sono i lupi?» Ho sempre avuto un'adorazione per quei cani grossi dei cartoni animati un po' incompresi.
«Ti stupirebbe sapere quanti. Ma non teneri come il tuo Balto.» Scherzosamente picchia il dito sul nasetto nero del peluche.
Ci rimettiamo sulla strada e ora siedo un poco più rilassata, immaginando la nostra nuova casetta tra i boschi. Anche Kyle, sempre sintonizzato sulle mie emozioni, ora si sente più libero di lasciarsi coinvolgere dalla frenesia per la nuova stanza privata.
Però vengo presto delusa quando parcheggiamo in una lunga via piena di case tutte recintate dalla medesima cancellata verde.
Scendo in automatico, senza prestare attenzione alle parole e ai movimenti che mi circondano.
Cavolo, la nostra nuova casa è dentro un recinto.
Siamo noi le galline ora, ma senza spazio per scorrazzare. C'è solo una piccola striscia di erba tra il cancello e la porta d'ingresso.
«Il giardino è sul retro, tesoro.» Mamma mi dà una spintarella incoraggiante sulla spalla, mentre Kyle si precipita all'interno, seguito da papà. Io e lei proseguiamo con calma, osservando ogni cosa.
Due piani, tante finestre, spazi ampi anche se non quanto la nostra casa di prima.
Scorgo una portafinestra e, senza fermarmi a riflettere, corro ad aprirla, aspettandomi qualcosa di magico, invece è solo un giardinetto spoglio, con l'erba tagliata alla perfezione, neanche una margherita. A pochi passi, una triste altalena appesa a un alberello cigola mossa dal vento.
E di nuovo quello stupido recinto, che si ripete ancora e ancora. Decine di riquadri tutti uguali.
«Ciao.»
Spaventata, sobbalzo verso la tenue voce che proviene dall'angolo del giardinetto accanto.
C'è un bambino, forse della mia età, con l'aria seriosa, stretto com'è in una camiciola azzurra inserita dentro i pantaloni formali. Sembra la versione in miniatura di mio padre quando deve andare in tribunale.
«Ciao» ribatto osservando il leggero venticello far danzare la nuvola di capelli castani ricci che gli circonda il faccino pallido. Mi scruta con i suoi profondi occhi chiari diffidenti, muovendo distrattamente l'Action Man che tiene in mano.
Nervosa, inizio a sfregare le scarpette di vernice le une contro le altre. Questo bambino è strano.
«Sei la figlia dei nostri nuovi vicini?»
Annuisco senza saper bene cosa dire, mi avvicino un po', Balto sempre ben stretto tra le mani, girando appena la testa per vedere se la mamma mi ha seguito. Non lo ha fatto. Siamo soli.
«Io vado alla Saint Mary School, ci verrai anche tu?»
«Sì, mi inseriranno in una quarta, non so quale.»
Lui fa un leggero cenno del capo come se gli avessi confermato qualcosa che già sapeva.
Rimaniamo così senza parlare, divisi dalle sbarre per un tempo che pare infinito. Non so cosa dire e sono a disagio, mentre lui sembra star bene così.
All'epoca, non sapevo che io e quel bambino saremmo diventati compagni di classe, che avremmo passato quasi tutti i nostri pomeriggi a casa dell'uno o dell'altra, che avremmo condiviso tutti i momenti, sia belli che brutti, che sarebbe diventato uno dei miei due migliori amici.
Che mi avrebbe insegnato che un silenzio condiviso vale più di mille parole.
«Ehm, devo andare» dico per interrompere il momento imbarazzante.
Ancora una volta, lui si limita a un cenno affermativo.
Cammino veloce fino alla porta, vogliosa di lasciarmelo alle spalle e correre tra le braccia di Kyle.
«Come ti chiami?»
Mi volto ed è ancora lì, nella stessa posizione con l'Action Man in mano. «Raya Whitman.»
Lui mi sorride.
A pensarci bene, è stata la prima volta che mi ha rivolto uno dei suoi rari sorrisi.
«Grant. Grant Wyndham.»
OGGI
«Raya.»
Una voce gentile mi riscuote dai ricordi, è come risvegliarsi da un bellissimo sogno per ritrovarsi in un terribile incubo.
Dentro quel ricordo potevo illudermi che lui fosse ancora con me, che niente fosse cambiato.
«Arrivo subito.»
Non guardo in faccia Kyle, non posso, non riesco a farlo da tre giorni. Come se mi volessi autopunire per essere stata felice, per aver riso, per aver ignorato il telefono, per aver sperato che quella specie di maledizione coinvolgesse solo la mia famiglia. Per non aver pensato a... Vado allo specchio, cerco di calmarmi per rallentare il tremore alle mani. È inutile, non avrò mai abbastanza controllo per truccarmi. So che è stupido, tanto nessuno vedrà i miei occhi sotto gli occhiali da sole dietro cui ho deciso di trincerarmi.
Eppure, qualcosa di così normale come tracciare una linea di eyeliner e mettersi un poco di mascara, potrebbe distrarmi a sufficienza da non pensare a dove sto andando.
«Raya, è arrivata Lexy.» La voce arriva roca dalla soglia, come se Kyle avesse paura di varcare quel confine invisibile che lo porterebbe a scontrarsi con il mio dolore.
«Scendo subito.»
«È la terza volta che lo dici e non l'hai ancora fatto. La faccio salire?»
No. Voglio che la smettiate di chiamarmi, perché non ho alcuna intenzione d'incontrare tutte quelle persone che ci hanno osservati crescere sempre più legati, o vedere la bara sapendo che lui è lì dentro. Solo.
Un singhiozzo mi scuote il petto e, prima di rendermene conto, vengo circondata dalle braccia di Kyle. Mi stringe forte e inizia a camminare verso la porta conducendomi con sé.
«No.» Non so nemmeno io se sto rispondendo alla sua domanda precedente o se è una supplica pietosa. Lasciami qui, dove tutto non è ancora reale. Dove posso fingere che lui comparirà da un momento all'altro alla finestra accanto.
«Devi farlo, Raya. Devi salutarlo un'ultima volta o te ne pentirai per il resto della vita.»
Il mio fratellone, come mi conosce. Insieme abbiamo già vissuto due funerali. Eppure, questo è diverso. Entrambi i nostri genitori erano già distanti mille miglia prima di lasciarci. So che sembra strano, non dico che non abbiamo sofferto per la loro morte, ma eravamo, come dire, preparati. Quando vivi per tanto tempo in una casa dove ogni parola può scatenare una lite, istintivamente ti aspetti che qualcosa di brutto possa accadere.
Invece la sua morte è così innaturale... Aveva solo ventun anni, studiava economia, giocava a football, frequentava una ragazza carina. E ora eccoci qui: io, Kyle e Lexy sulla stessa macchina per andare al funerale di Grant.
Svanito.
Niente più pomeriggi a guardare telefilm fino all'ora di cena.
Scomparso.
Niente più saluti da una casa all'altra gridando dalla finestra.
Vuoto.
Niente più sproni a vivere la vita, a non lasciarsi andare. Credevo di soffrire durante i miei episodi, ma questo, il non avere nemmeno pensato che potesse capitargli qualcosa, non avergli dedicato un pensiero, un momento, un saluto. È devastante. Non ha mai letto la mia risposta al suo invito. Scendo dall'auto con la testa vuota, o forse troppo piena, Lexy e Kyle sono entrambi incerti se avvicinarsi o no a me.
Lex ha conosciuto Grant in prima elementare. Era in classe con lui quando sono arrivata io, tre anni dopo, è così che l'ho incontrata; non erano granché amici prima che entrassi nelle loro vite, in qualche modo, credo di aver fatto da collante fra i due. Ignoro i suoi occhi arrossati, la massa di riccioli biondi disordinati legati in una coda, la sua mano che ogni tanto si allunga in un gesto di ricerca. In questo momento non riesco a preoccuparmi di nessun altro. Neanche di chi ha più bisogno di me.
Cammino lenta verso la chiesa, molte persone sostano in piedi, riconosco qualche viso, nessuno di loro è amico stretto di Grant. Mi fa piacere che siano qui, che, anche se l'hanno conosciuto poco, siano venuti a salutarlo. Questa è più che mai la prova di che persona stupenda fosse.
La chiesa è molto affollata, non c'è un posto a sedere, e molti sono costretti a stare in piedi ai lati. Sento una scia umida disegnare un percorso sulla guancia. Siamo tutti uniti dalla stessa perdita.
Kyle, caparbio come solo lui sa essere, prova a incoraggiarmi.
«Vuoi andare davanti? Le prime tre file sono per i parenti e gli amici più stretti. Mi ha detto sua madre che sarebbe molto felice se andassi lì con lei e Stacy.»
Non voglio affrontarli, di certo non voglio stare accanto alla sua ragazza. Sono una vigliacca, sicuramente Grant avrebbe voluto che ci fossimo gli uni per gli altri.
Il portone si apre permettendo al corteo di entrare; davanti alla bara, Frederick, suo padre. Quando mi vede, si stacca dalla processione e mi viene incontro. Mi raggiunge e tende la mano nella mia direzione. So di non poter rifiutare.
Quante volte sono andata a mangiare da loro? Quante sono rimasta a dormire? Frederick mi prende a braccetto e capisco che lui, proprio come me, non vuole percorrere questa navata da solo.
La bara viene posata sul supporto di fronte al pulpito, sopra di essa svetta una foto in cui Grant sorride. Mi scappano due lacrime prima che riesca a trattenerle. I suoi occhi azzurri mi sorridono. Quanto è raro e prezioso quel sorriso...
"Un silenzio condiviso vale più di mille parole, Raya."
La sua voce mi risuona in testa, come se stesse sussurrando al mio orecchio anche ora.
Frederick mi fa accomodare tra lui e Meredith, sua moglie, dall'altro lato c'è Stacy. La guardo e lei con gli occhi gonfi e rossi mima con la bocca un saluto senza emettere suono.
Capisco di aver sbagliato, non ha senso cercare di nascondersi, non a loro, non fra noi. Sfilo gli occhiali e li ripongo in borsa. È una questione di rispetto verso la nostra comune perdita.
La messa esequiale è lenta e straziante, i canti gospel commoventi. Il sacerdote sottolinea più volte la generosità con cui Grant ha vissuto la sua vita e come, anche da morto, questa sua caratteristica continui a sorprenderci.
Era un donatore, ora il suo cuore batte nel petto di un altro.
Il respiro si spezza nei polmoni, non riesco a immaginare che qualcuno se ne stia andando in giro con una parte così importante di lui.
Cuore e Anima. Sono davvero separabili? Se incontrassi la persona che ha il suo cuore, proverei un'immediata simpatia o assolutamente niente? Mi perdo in queste riflessioni, non sono mai stata una persona credente. Oggi però desidero che ci sia qualcos'altro oltre la morte. Un qualche posto dove lui possa essere felice e vegliare su di noi.
Il parroco interrompe il suo sermone con un'ultima domanda. «Qualcuno vuole dire qualche parola su Grant?»
Meredith cerca con lo sguardo Stacy, ma lei non ce la fa, seppellisce il viso fra le mani e scuote la testa fra i singhiozzi.
Nessuno si propone. Nella chiesa regna un silenzio nervoso, scambi di occhiate a cui fanno risposta "no" concitati.
Finirà così.
Senza che nessuno che lo conoscesse veramente trovi le palle di parlare di fronte a questa folla.
Come se loro fossero importanti, la loro timidezza, la loro vergogna. Non il corpo senza vita di Grant a pochi passi di distanza.
Un attimo sono seduta sulla panca e quello dopo sono al pulpito.
Osservo Kyle, Lexy, il signore e la signora Wyndham. Vorrei dire che lo faccio per loro, ma no, lo faccio per lui.
Fisso la bara per la seconda volta in quasi un'ora di preghiere.
Piango senza vergogna, le lacrime scorrono mentre i suoi occhi sembrano uscire dalla foto e puntarsi nei miei. Non esiste altro.
«G-Grant era la persona su cui facevo più affidamento. Non importa quanto le cose potessero andare male. Lui mi tendeva sempre una mano, mi spronava. Era fantastico. Ma questo lo sapete già, siete qui per lui. Ha vissuto una vita breve, ma piena. L'università, il football, Stacy e gli amici. Lui trovava sempre tempo per tutto. Era in grado di farti sentire il centro del suo universo. Tante persone non vivono attivamente, stanno ad attendere che le cose buone vengano loro incontro. Grant, no. Grant faceva si che le cose accadessero, non aspettava.» Senza fiato mi accorgo di aver parlato come un fiume in piena. D'altronde come si possono riassumere tredici anni d'amore? Vengo scossa da un singhiozzo e guardo i suoi genitori.
«Potremmo stare qui all'infinito. Tutte le parole del mondo non basterebbero a descriverlo e a riempire il vuoto che ha lasciato nei nostri cuori, nelle nostre vite. Quindi, oggi chiedo a tutti voi di condividere con me per qualche istante qualcosa che per Grant valeva più di mille parole: il silenzio.»
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