4.Izan
Il vicesceriffo Kowasky si schiarì la gola e posò lo sguardo ceruleo sul giovane che aveva i fronte.
Izan era curvo su se stesso e fissava il pavimento plumbeo senza proferire alcuna parola.
Quel ragazzo era un atleta, eppure in quella posizione e in quello stato risultava piccolo, fragile, debole, invece che prestante e potente come pareva di solito.
Il maglione verde militare che indossava sembrava inglobarlo completamente, più che calzargli a pennello come tutti i suoi abiti sportivi.
«Se non parli non potremmo aiutarti, e tu non potrai fare lo stesso con noi» disse l'uomo ormai esasperato.
Erano parecchi minuti che quella situazione andava avanti e lui non era riuscito a ottenere neanche una risposta.
Con Kenneth fuori città e la promozione a Sceriffo di Balver le responsabilità da secondo in comando erano tutte su di lui.
Si passò poi una mano tra i capelli biondi e corti e osservò il finto specchio a dove i suoi collaboratori seguivano quella specie d'interrogatorio.
Non poteva permettersi di non cavare un ragno dal buco in quella situazione delicata, non poteva deludere il suo superiore.
Izan non reagì neanche a questa domanda, si limitò al silenzio e all'inespressività.
L'unico movimento era il tremore della gamba destra mentre teneva le mani unite e lo sguardo scuro fisso verso il basso.
Era come se per lui Kowasky non esistesse.
«Qualcosa ti spaventa?»
L'ispanico fissò il vicesceriffo e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Il vicesceriffo era sul punto di gettare la spugna, ma fu sorpreso.
Gli stava prestando davvero attenzione per la prima volta, era stata la domanda giusta.
Annuì, ma poi scosse la testa e si voltò verso la porta, quasi come se stesse pensando di alzarsi e correre via.
Nulla aveva senso nel suo bizzarro comportamento.
«Facciamo una pausa?» propose l'uomo schiarendosi la voce.
Izan alzò le spalle e poi si asciugò una lacrima, mentre un'altra cadde sui suoi pantaloni marroni.
Kowasky si allentò la cravatta, e sistemò il colletto della divisa color sabbia, poi si alzò dalla sedia di metallo, raggiungendo in poche falcate la porta.
Era alto e la sua camminata parecchio spedita.
«Ti dico che non mi parla, è come se fosse in stato catatonico» sbottò una volta nell'ufficio del suo superiore.
Quel posto era identico a quando c'era Kenneth, erano solo cambiate le foto sulla scrivania.
«Povero ragazzo, lui è rimasto molto traumatizzato per quello che è successo al suo amico l'anno scorso. Forse non dovremo torchiarlo così» mormorò Balver, ripensando a quei tragici avvenimenti.
«Va trattato come tutti gli altri, se vuoi prova ad andargli a parlare tu, con me fa scena muta».
«Non posso, sto aspettando una chiamata da Kenneth, sta seguendo una pista sulla scomparsa del tizio dell'FBI».
Il vicesceriffo sospirò e poi annuì, anche se poco convinto.
«Cosa vuoi che faccia con il nostro atleta affetto da mutismo?»
Il telefono squillò prima che potesse avere una risposta.
Balver rispose subito.
«Capisco. Non tornerai per quanto?» domandò sbigottito lo sceriffo.
«Qua è successo un altro casino... »
Balver si ammutolì per un lungo istante mentre il suo vice rimaneva in attesa d' istruzioni.
«Cazzo, questo è un altro problema, come se non bastasse quello che ho già per le mani!»
L'uomo ascoltò l'amico dall'altro capo del telefono e parve ancora più preoccupato.
«La terremo d'occhio non preoccuparti».
La chiamata si concluse e Balver fece un lungo sospiro.
«Lascia andare a casa il ragazzo. Ho bisogno di parlare a te e altri agenti di una cosa importante».
Kowaski annuì e poi si diresse a passo spedito fuori dall'ufficio di Balver.
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