13. La città.
"Corri" mi dissi, "corri e vattene". Credevo che se fossi rimasta seduta lì ancora un altro secondo non mi sarei mai più alzata. Dovevo andarmene... Facendo uno sforzo incredibile allontanai la sedia dal tavolo scalciandola indietro. L'oscurità era l'unica cosa presente. Mi venne in mente un libro che avevo letto: In fondo al tunnel. Non centrava quasi niente, però mi fece riflettere su cosa potesse esserci dopo tutto quel buio. Altro buio? Luce? Chi poteva dirlo... Forse quello era solo un brutto sogno, oppure ero morta... Scossi la testa cercando di scacciare quei pensieri. Non potevo essere morta! Magari ero in un qualche stato di trance.
Alzandomi lentamente dalla sedia aggirai la scrivania con il libro. Lanciando un'ultima occhiata a quel volume impolverato e vecchio, per quanto l'oscurità potesse permettermelo, decisi di levare le tende.
Mettendo attentamente un piede avanti all'altro come per paura di cadere avanzai verso qualsiasi cosa dovesse esserci oltre il muro nero e inesistenze quale era l'oscurità che non si decideva ancora a darmi una tregua. Con le mani protese in avanti aspettandomi costantemente una parete che si materializzasse davanti a me presi a mormorare come un'ossessa che quello era solo un sogno. Sempre più lontana dalla scrivania mi ritrovai completamente avvolta nell'oscurità.
"E' solo un sogno, un brutto sogno, solo... solo... solo un sogno, un... sogno..." Lo pensavo e lo dicevo ad alta voce, ansimando e ruotando la testa a destra e sinistra cercando di vedere qualcosa. Mi rimbombavano le orecchie; avevo smesso di parlare, ma sentivo ancora nei timpani i suono rochi che prima uscivano dalla mia bocca. Era decisamente un incubo. E come se non bastasse avevo anche il presentimento che stesse per succeder qualcosa... Anche se non sapevo cosa, non poteva di certo essere bella.
Poi un dolore insopportabile venne a farmi visita, come se mi avessero spaccato un vaso di vetro sulla nuca. Sentivo freddo in quel momento, mi pareva che mi avessero congelata. E si fece tutto nero. "Come se già non lo fosse", pensai prima di perdere conoscenza.
Era tutto completamente buio, non ci vedevo niente di niente, anche se i miei occhi avrebbero dovuto essere già abituati a quell'oscurità. Nemmeno un raggio di luce filtrava da... da dove?
Ero sicuramente seduta a terra con la schiena contro qualcosa di duro, tipo una parete. Sbattei più volte le palpebre e cercai di capirci qualcosa. Non sapevo dov'ero e che ci facevo lì. Ma d'altronde, erma mai successo prima di allora? Non credo...
Piegando la testa verso destra sentii le vertebre scrocchiare leggermente richiamando il dolore precedente. Dopo circa un minuto di dormiveglia riacquistai completamente conoscenza, anche se avevo ancora un po' di vertigini. Mi ricordai del libro e degli esseri raggrinziti che mi avevano assalita, ma soprattutto del buio che non mi aveva mai abbandonata. Ci mancò poco che non mi mettessi a conversare con quel manto nerastro che circondava ogni cosa, ammesso che ci fosse qualcosa. Puntellando a terra con il sedere e con i piedi riuscii quasi a mettermi dritta, ma udii un rumore di catene e qualcosa di duro mi tirò per i polsi costringendomi a cadere di peso sul pavimento.
Poi aprii gli occhi. Esatto. Aprii gli occhi! Al novantanove percento ero svenuta e mi ero sognata tuto. Però tutta quella felicità scemò come un palloncino bucato, alla vista delle catene che mi tenevano bloccata ad una parete di una stanzetta di due metri quadri umida e odorante di marcio. L'ambiente era illuminato da pochi raggi di luce che passavano attraverso tre spiragli posti in alto, uno per ogni parete. Tirai e tirai i polsi cercando di liberarli dalla stretta delle catene, però senza risultati. Così decisi di accettare il fatto di essere ammanettata in un angolo di una stanza ammuffita situata non si sa dove. O forse lo sapevo... Per poco non urlai, al pensiero di essere stata imprigionata nelle segrete del castello. Ero talmente frustrata dal fatto che potesse essere stato Dylan a mettermi lì dentro che rischiai di non veder il coltellino che era appoggiato a terra.
Quando notai lo scintillio della lama del piccolo oggetto mi accovacciai fino a sedermi. Solo in quel momento notai una cosa... Qualcuno mi aveva cambiato i vestiti e sistemato i capelli. Indossavo dei pantaloni e una felpa entrambi verde militare. Mentre i miei capelli erano puliti e le punte bruciacchiate erano state tagliate, facendoli sembrare ancora più mossi, biondi e chiari. Ma avevo già previsto che quei vestiti non sarebbero durati più di un giorno o due.
Inchiodando gli occhi sul coltellino allungai la gamba verso di esso il più velocemente possibile, come se fosse solo il mio sguardo a non farlo scappare. Non era molto lontano e riuscii a sfiorarlo con la punta dell'anfibio nero che indossavo al piede. Così provai col l'altra gamba (non si sa mai, una potrebbe essere più lunga) ma il risultato fu lo stesso. Gemendo e ringhiando a causa delle catene che mi graffiavano i polsi, mi allungai il più possibile verso il coltellino. Riuscii a malapena a tirargli un calcio. Credevo di aver perso l'unica speranza di liberarmi... Ma dopo che il piccolo oggetto ebbe cozzato contro la parete di calce davanti a me fu sbalzato verso il mio piede ancora proteso.
Riuscii ad incastrarlo sotto la suola della scarpa e ad avvinarlo a me. Ora si poneva il secondo problema: prendere il coltellino. Avevo le mani incatenate più o meno all'altezza della testa ed era pressoché impossibile prendere quel piccolo oggetto luccicante. Avvicinando ad esso i piedi lo tirai ancor più vicino a me. Poi tentai. Aiutandomi con il piede destro sollevai il coltellino e riuscii a malapena ad incastrarlo nello spazio tra la mia caviglia e il collo dell'anfibio sinistro. Non so neanche come ci fossi riuscita. Sollevando il piede il modo quasi sovrumano e piegando in due il busto presi in bocca il piccolo oggetto tintinnante stringendolo tra i denti. Da quando ero diventata una contorsionista? Poteri sovrumani che sbucavano all'improvviso?
Mi sembrava di dover morire da un momento all'altro, per lo sforzo e il dolore. I polsi parevano doversi staccare in quel preciso istante, ma sapevo che dovevo sopravvivere e uscire da quel posto. Solo per compiere la mia missione (che a dirla tutta non era nemmeno tanto mia) e tornare a casa, dai miei genitori e dai miei libri. Ruotando la testa ed avvicinando la mano alla bocca, per quanto potessero permettermelo le corte catene che mi impedivano i movimenti, afferrai con due dita il coltellino. Poi iniziai a tagliare le catene.
Dopo un minuto circa di stridii e fischi strazianti smisi di passare la lama sulle manette. Era evidente che non si sarebbero mai rotte. Del liquido caldo iniziò a bagnarmi la pelle delle mani e dei polsi, mi ero tagliata ed ora stavo sanguinando. Di bene in meglio, oserei dire. Poi mi accorsi che il mio sangue era viscoso e scivoloso, come... olio! Era rischioso ma due erano le possibilità: marcire lì perché nessuno sarebbe venuto mai a salvare una pazza che diceva di essere stata risucchiata nel suo libro, o tagliarsi i polsi cercando di non lesionare le vene e scappare. Scelsi la seconda.
Stringendo il coltellino nella mano sinistra mi incisi quasi impercettibilmente il polso destro, facendovi uscire del sangue che probabilmente mi colò in testa. Poi feci lo stesso con l'altro polso. Ormai l'intero corpo mi bruciava da morire. Ogni volta che forzavo le catene riuscivo a stento a soffocare urla di dolore, storcendo la bocca in una smorfia. Dopo tante sofferenze mi fu concessa una grazia: la mano destra si sfilò dalla manetta, ma solo dopo che io ebbi cacciato un altro urlo. Mi osservai il polso insanguinato, il fluido rossastro non smetteva più di uscire dalla ferita, sottile e lunga, profonda e bruciante ad ogni mio minimo movimento.
Tirando con il polso sinistro e aiutandomi con la mano destra, dopo vari tentativo riuscii a sfilare dalla manetta anche l'altra mano. In compenso mi ero lesionata entrambi i polsi, oltre ai profondi tagli che mi ero fatta con il coltello. Mugolando e gemendo mi strinsi i polsi nella felpa di stoffa sottile, sporcandola e inzuppandola tutta di rosso. Con la mano che mi faceva meno male presi il coltellino e sforzandomi di non distruggermi completamente le braccia tagliai due strisce di stoffa dalla maglia che indossavo. Stringendo i denti e ringhiando per il bruciore sputai su entrambi i tagli, la saliva disinfetta, e mi strinsi in quella specie di "benda fai-da-te" tutta la fascia che andava da sopra il pollice fino a metà dell'avambraccio. E così anche per l'altro braccio.
Quando il sangue sembrò non sgorgare più dalle ferite mi raddrizzai appoggiandomi alla parete alle mie spalle. Chiusi per un po' gli occhi, in seguito ad un lieve giramento di testa. In quel momento mi sentivo un peluche sbatacchiato a destra e a manca e sbattuto al muro e lasciato a terra a morire. Be', forse non proprio a morire.
Riaprii gli occhi e solo allora notai le sbarre che chiudevano l'entrata della cella. Attaccate proprio a portata di mano c'erano le chiavi. Osservai la serratura: era composta da un massiccio blocco di metallo grigiastro e arrugginito, come le catene a cui ero stata legata (infatti pregai che non mi venisse il tetano). Proprio al centro c'era un piccolo foro ondulato e ovale, dove si sarebbe dovuta infilare la chiave. Sollevai lo sguardo e gemendo infilai il braccio tra due sbarre, sperando che la ferita non riprendesse a sanguinare.
Afferrai le chiavi e le tirai dentro, poi le provai tutte. L'ultima era quella giusta. Con uno scatto secco le sbarre si aprirono. Non so il motivo per il quale esitai, ma rimasi ferma lì a fissare la fine di un corridoio pieno di celle. Scostai la porta metallica davanti a me facendola cigolare e uscii una volta per tutte. Corsi lontano dalla cella, rischiando costantemente di cadere. Sfilai davanti alle celle che mi circondavano, rallentando ad ogni paio di occhi che mi pregava di aprire la propria cella. E io rifiutavo sempre, seppur dentro di me.
Finché non arrivai alla cella di Malefica... Alyson... O come si chiamava. Di nuovo provai tutte le chiavi finché non trovai quella giusta. Entrando nella stanzetta ammuffita scoprii un dettaglio che prima non avevo notato: anche le manette avevano una serratura. "Bene così", pensai. Almeno non avrei dovuto spaccarle i polsi. La ragazza era semi-incosciente. Feci scattare i lucchetti che tenevano i suoi polsi legati alla parete la liberai. La scossi per una spalla, fino a quando non aprì completamente gli occhi. Mi guardò come per ringraziarmi, poi si tirò in piedi.
- Dobbiamo andarcene - mugolò massaggiandosi prima la testa e poi i polsi, segnati da lividi bluastri e graffi rossi.
- No, sai, volevo bere un tè con chi ci ha messo qui - borbottai.
-Dico davvero, credo che questa sia la porzione del regno che tutti chiamano Terre Nuove. E' rischioso per noi siamo delle Terre Distrutte. -
- Terre Distrutte? Terre Nuove...? -
- Quando ci siamo incontrate eravamo nelle Terre Distrutte, tutto il nostro viaggio fino ad ora era nella Terre Distrutte... Il castello dove siamo svenute era molto vicino al confine, probabilmente ci avranno rapite e portare qui. -
- Me lo spieghi dopo se non ti dispiace... Ora liberiamo Dylan e Regina -
- Qui ci puoi chiamare con i nostri nomi, sempre se ti va- questa era nuova.
- O...ok. -
Io e Alyson passammo i quindici minuti successivi a cercare i nostri compagni nelle celle che sembravano non finire mai. Dopo un quarto d'ora abbondante trovammo Elise. Nella cella davanti a quella della ragazza c'era Dylan. Mentre aprivo le loro celle chiesi ad Alyson:
- In queste... Terre Nuove, possiamo usare la magia?-
- Suppongo di sì, non ho sentito voci sull'impossibilità dell'utilizzo della magia. Però non sono del tutto sicura che queste siano le Terre Nuove. Ho solo fatto una supposizione. Per quanto ne so, potremmo essere ovunque. -
-Fantastico. -
La ragazza non aggiunse altro, ma si limitò ad entrare nella cella dell'amica, mentre io liberavo Dylan. Circa tre minuti dopo eravamo tutti e quattro in piedi a guardarci come degli idioti.
- Andiamo? - suggerì Regina. Cioè, Elise.
- Andiamo - confermai.
Ci misimo a correre verso una porta, ormai eravamo vicini alla fine del corridoio. Non so neanche perché ci stessimo portando dietro il ragazzo, ma mi aveva salvato la vita e io dovevo ricambiare, anche se durante il nostro secondo incontro aveva quasi cercato di uccidermi.Però aveva detto di essere stato posseduto... anche se eravamo entrambi in punto di svenimento... e potevo essermi benissimo sognata tutto... ma anche lui era nella nostra stessa situazione... e se si fosse dimostrato una minaccia l'avremmo fatto fuori. Il ricordo del nostro scontro mi fece tornare alla mente la chiave. Mi tastai il petto... Per fortuna era ancora appesa al mio collo. Arrivati davanti ad una porta, che doveva portare fuori da quella prigione, usai una delle chiavi per aprirla. Tirai un calcio all'infisso di legno scuro e quello si spalancò rivelando un mondo che mi lasciò a bocca aperta, senza fiato, strabiliata...
Eravamo su una specie di balcone che si affacciava su una città, tipo New York. Grattacieli, case e strade. Una città.
*Angolo Scrittrice*
HEIIIIII! Quanto tempo che non pubblico un nuovo capitolo! Se avete notato incongruenze con i due capitoli precedenti è perché gli ho eliminati... Sorratemi. Non mi piacevano proprio... Però sono soddisfatta di questo capitolo! Che ve ne pare?
Ed ora lasciamo spazio a......
OGGI CINQUE DICEMBRE 2018 IO E RachelHerondalePrior INAUGURIAMO *rullo di tamburi* LA GIORNATA WATTPADIANA DELL'ALBERO DI DARKNESS! Bé... Io e RachelHerondalePrior siamo due alberi u.u Le avevo promesso un nuovo capitolo perciò... Eccomi qua! Credo che questa giornata sia una specie di nostro festa/onomastico-degli-alberi... ? Tu che ne dici Rachel? (posso chiamati Rachel? E' che non mi va di taggarti cento volte o.o)
Detto questo... Se non avete capito niente di quello che ho scritto prima è normale. Perché io e Rachel siamo due alberi u.u (io biondina però o.o) e personalmente devo dire che l'adoroooo! Ma adoro anche voi altri!
Perciò ora... BUONA GIORNATA WATTPADIANA DELL'ALBERO DI DARKNESS A TUTTI!
*in collaborazione con RachelHerondalePrior* Sciau! :3
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