Capitolo 3 - Il mio tutto

~ Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno, 
è esserci seduto accanto e sapere che non l'avrai mai. ~
Cit. G.G.Márquez (L'amore ai tempi del colera).

Capitolo 3

Il mio tutto


Il tempo ruotava le sue lancette e quello trascorso da svegli lo passammo a parlare e ridere.
Sentivo di star meglio di prima, con lui a fianco sembra quasi... quasi sopportabile.
Da un po' mi interrogavo su ciò stesse succedendo al nostro rapporto e iniziai a pensare di esserne dipendente. Ogni volta che mi svegliavo lui inventava nuovi giochi da fare, trovava nuove cose di cui parlare.
Mi domandai se fosse, davvero, possibile innamorarsi di una persona che si conosceva da così poco. La quale per giunta non si era mai vista. L' unica prova della sua esistenza era la sua voce.
Forse i miei sentimenti erano incentivati dalla mancanza di memoria. Per quanto ne sapevo, era la prima persona che conoscessi.
Credo fosse facile trovare la luna nel buio della notte.
Quando mi svegliai, come ormai da abitudine, arrancai in cerca del vassoio. Ci misi qualche minuto a trovarlo.
Mi riempii la pancia con quello che vi trovai, sempre lo stesso in realtà zuppa, pane e acqua.
Non udii rumori dall'altra parte della parete, immaginai stesse dormendo o l'avrei sentito muoversi.
Decisi di non provare a chiamarlo, dopotutto lui non mi svegliava mai quando io dormivo.
Passarono i minuti, forse ore, ma nessun cenno pervenne dalla sua stanza, iniziai a essere inquieto.
Non ce la feci più.
« ... Pane ... » sussurrai.
Niente.
« Pane ...» alzai un po' la voce.
Silenzio.
Per una terza volta lo chiamai e una nota di agitazione si propagò per la stanza.
Ancora silenzio.
Poi, però, lo sentii mugugnare. « Sono qui » rispose assonnato.
Tirai un respiro di sollievo.
« Mi spiace averti svegliato» mi morirono le parole in gola « ... Avevo paura che ti avessero portato via ».
« Non ancora, no » lo sentii ghignare. « Ti senti bene? » domandò.
« Sì, hanno portato ancora pane, zuppa e acqua » emisi un lamento, dapprima sommesso, « È troppo chiedere un po' di latte » alzai la voce « vorrei tanto delle gallette o della verdura o uova, anche gli stramaledetti funghi. Qualsiasi cosa pur di cambiare » mi sedetti a terra sconfortato.
« Da quando sono qui mi hanno sempre portato queste tre cose ».
« Come fai a essere così tranquillo? » me lo chiedevo da tempo.
« Penso di essermi rassegnato al fatto che questa sarà l'ultima parte della mia vita... o l'unica ora che ci penso. Non so se prima fossi là fuori. Anche se immagino di sì. Malgrado non abbia più ricordi di me stesso, ne ho comunque del mondo esterno, quindi in un momento della mia vita devo esserci stato ».
« Non credo di potermi rassegnare a questo » replicai.
« Hai mangiato? » cercai di cambiare argomento o le lacrime avrebbero, nuovamente, raggiunto i miei occhi.
« Ora mangio » lo sentii alzarsi e allontanarsi, tesi l'orecchio finché non fu di nuovo vicino a me.
Averlo vicino, mi tranquillizzava.
« Quindi, non ti piacciono i funghi » bofonchiò goffamente, ridendo mentre masticava il pane. Non sembrava una domanda.
« Credo di no. L'ho detto involontariamente, se penso al loro sapore sulla lingua, non ho una bella sensazione. Sono viscidi, credo ... ».
Rise al mio ennesimo monologo, nel quale parlavo più a me stesso che lui. Alzai gli occhi al cielo, o meglio, al nulla.
« Odio non ricordare » dissi quando lui calmò l'attacco di ilarità e tornò a mangiare. Sembrava così facile ridere.
« Lo so, vale anche per me » parlò con tono intenso, insolito per la sua solita vivace leggerezza.


« Facciamo un gioco! » esclamò qualche minuto più tardi, con il suo classico tono arzillo.
Doveva aver finito di mangiare.
« Quale gioco? ».
« Non conosciamo nulla della nostra vita precedente, giusto? ».
« No » risposi perplesso.
« Perciò immaginiamoci quale potesse essere. Inizio io ... ».
Sorrisi, non mi aveva dato il tempo di accettare.
« Allora ... vediamo un po' » rifletté.
« Nacqui in un'umile famiglia, mio padre era un fabbro, mia madre una serva a corte. Loro erano troppo impegnati per badare a me quindi mi affidavano a mia sorella maggiore » iniziò « lei aveva già dodici anni, quindi era in grado a badare a noi ».
« A noi? C'erano altri fratelli » lo interruppi.
« No solo io e mia sorella. Lei si occupava di noi, me e te. Sono quasi certo che ci fossi anche tu ».
Sorrisi al pensiero.
« La facevamo impazzire scorrazzando per le vie della città, combinando guai. Verso sera tornavi dalla tua famiglia e io mi facevo finalmente acciuffare. La sua cucina era magnifica seppur si arrangiasse con ciò che avevamo. Cucinava per tutta la famiglia malgrado noi mangiassimo da soli, prima del ritorno dei nostri genitori. Quando arrivava l'ora di dormire iniziavo a fare il pazzo, perché non volevo rimanere da solo nella stanza una volta spente le candele.
Avevo paura del buio e lei per farmi addormentare, fin da quando nacqui, era solita cantarmi una ninnananna che parlava di pappagalli blu e canarini... » sorrisi e sapevo lo stesse facendo anche lui, perché la sua voce aveva un suono più attraente di prima.
Persi un attimo il filo mentre pensavo che da qualche tempo, spesso mi soffermavo a creare nella mia mente dei complimenti verso di lui. E ogni volta che me ne rendevo conto sentivo una dolce e leggera fitta sotto lo sterno, le guance diventar calde e gli occhi pizzicare leggermente. Rendendomi conto, in fine, di trattenere il respiro. Mi faceva uno strano effetto quel ragazzo.
Mi riscossi dai miei pensieri. « ...Lei era bellissima. A quindici anni era già promessa a un uomo facoltoso, un notaio. A sedici l'anello le cingeva l'anulare.
I miei genitori quel giorno furono felicissimi. Io con loro. Anche lei, a differenza di buona parte delle sue coetanee, lo era. Suo marito era un buon partito, giovane, bello e totalmente stregato da lei. Il che lo rendeva estremamente dolce e premuroso.
La mia felicità venne, però, accompagnata da una leggera tristezza, la mia sorellona non avrebbe più badato a me. Mi rimanesti solo tu.
Con il passare degli anni, però, la mia ambizione mi fece allontanare verso nuove conoscenze. Non erano vere e proprie amicizie, solo un mezzo da sfruttare per i miei scopi. Mi districai tra la nobiltà e l'alta borghesia. Arrivai così ad avere la possibilità di dirigere la più grande compagnia mercantile del regno, con porti sicuri in tutto il mondo con il maggior commercio in oriente e prendere il posto del suo vecchio e stanco padrone.
Tutto questo, però, avrebbe avuto un prezzo, perché quel grosso colpo di fortuna sarebbe stato accompagnato da un matrimonio di interesse con la figlia di quest'ultimo.
Diventai molto, molto ricco ma ritrovandomi solo. Dopo il matrimonio tu sparisti, forse disgustato dalla vita falsa e infelice che mi scelsi.
Molte amanti, da allora, si susseguirono.
Con il tempo iniziai rendermi conto di essere ben lontano dalla felicità che perseguivo in quella vita. Capii quanto mi mancasse la mia vita precedente. Quanto, in realtà, di quella vita a marcarmi veramente fossi solamente tu.
Una mattina mi svegliai amareggiato, al fianco dell'ennesima giovane donna, abbandonando quel dolce sogno di noi due. In quel momento decisi di non poter continuare con quel vuoto e di abbandonare tutto, pur di ritrovarti ».
« Non sapevo che la mia vita così come la conoscevo sarebbe stata bruscamente interrotta da quella moglie così trascurata e vendicativa. E che mio malgrado, per l'ennesimo atto di egoismo, ne avrebbe pagate le conseguenze la persone più importante per me ».
« Tornai tempestivamente alla mia città di origine, alla tua ricerca. Ignaro di essere seguito dalla mia consorte e le sue guardie.
Trovai la tua vecchia casa e tua madre unica superstite, oltre a te, di una forte epidemia di colera.
Mi disse di poterti trovare in una taverna nei sobborghi della città. Quando entrai trattenni il respiro e solo dopo averti visto intento a servire dietro il bancone, con il sorriso sulle labbra, espirai in un turbinio di emozioni contrastanti. Gioia, vergogna e rammarico aleggiavano nella mia mente. Stavo per esserne vinto e fuggire lontano ma i tuoi occhi sconcertati, incrociarono i miei. Malgrado il tuo viso portasse i segni della fatica ti trovai più bello che mai ».
« Mi avvicinai al bancone, non sapevo nemmeno cosa dire. Fosti tu ad avvicinarti per primo. Mi sorridesti.
Stavo per salutarti ma poi. "Cosa vi porto signore?" raggelai, non sapevo cosa rispondere e chiesi un boccale di vino con tono tetro. Non potevo credere che mi avessi dimenticato, forse lo meritavo. Ti vidi riempire il boccale dello speciale succo d'uva, ti avvicinasti e abbassai lo sguardo, poi sentii la tua risata leggera e cristallina. "Davvero pensi che non ricordi il viso del mio migliore amico?" chiedesti tra le risate. Non eri cambiato. Ti appoggiasti al bancone e mi guardasti con quegli occhi ancor intrisi d'ingenuità. "Sei tornato" esclamasti inespressivo.
Risposi con una semi-verità, che ero tornato per te, mi mancava il mio migliore amico. Lo feci ridendo e con sguardo ammiccante. Evidentemente funse da scuse per come mi comportai in passato perché ti sciogliesti e sulle tue labbra tornò il sorriso.
Parlammo molto fino a tarda sera. Tutta la locanda si svuotò. E rimanemmo soli. Tu intento a pulire il vecchio e logoro bancone e io a bere l'ennesimo boccale di coraggio liquido, nella convinzione che potesse aiutarmi a dirti il vero motivo per cui fossi tornato.
E pare iniziasse a funzionare. "Non mi parli della tua, sicuramente bellissima, sposa" indagai con interesse veemente.
Mi raccontasti di non avere una moglie, che la gestione della locanda portava via tutto il tuo tempo e che non sentivi la necessità di sposarti. Poteva essere un vantaggio ma anche il contrario. Dovevo solo capire su quale faccia sarebbe caduta la medaglia.
"Mi sei mancato" sputai d'impeto, più serio che mai, impedendoti di finire. Poggiai il mento sulle braccia adagiate sul bancone. Sentii il tuo respiro riprendere dopo la mia confessione. Ti sentii camminare e sfiorare con le dita esili la spalla. Sotto il tuo tocco la pelle bruciò, forti scosse percorsero tutta spina dorsale e fitte di malinconia mi attanagliarono lo stomaco.
Mi mossi velocemente ti spinsi contro il bancone e ti strinsi tra le braccia poggiando il viso sul tuo collo. Sentii la tua pelle rabbrividire. Dapprima rimanesti immobile poi lentamente anche le tue braccia mi cinsero aggrappandosi alla leggera cappa primaverile, con forza. Mi staccai e ti guardai. Mai, avevo visto figura così bella ed esile, ma al tempo stesso così forte.
"Non sono tornato perché mi mancava il mio migliore amico. Sono tornato perché mancava un pezzo della mia vita, credevo di aver perso l'unica persona che mi rendesse felice. Ogni giorno passato lontano da te si faceva largo sempre di più la consapevolezza di aver sbagliato ad aver pensato che fosse la ricchezza ad aver sempre desiderato ma che in realtà fosse di vivere libero con te" mi guardasti incredulo, con gli occhi lucidi e con voce roca riuscisti a malapena a chiedermi cosa stessi dicendo. "Hai deciso di rendermela davvero dura, vero? So che può essere totalmente pazzesco, sbagliato e improvviso ma ti sto dicendo che vorrei una vita con te. Una vita con te come compagno" ansimasti un po'. Prima che tu potessi dire niente, alle mie spalle si sentì un rumore che ormai sa di morte. Quando mi girai, verso porta spalancata, vidi entrare quell'orrenda donna, che sapevo essere mia moglie, e un manipolo di uomini del corpo di guardia della cittadella.
"Come dicevo ecco a voi i fornicatori, sodomiti." la guardai inorridito e furibondo, la sua follia era arrivata a tanto da condannarci inevitabilmente a morte. La scena non lasciava scampo. "Sapevo, quando sei tornato in questa città, che saresti andato dal tuo vecchio amico, il quale ti ha sempre venerato e mai staccato gli occhi di dosso. Mi odiava per averti portato via da lui, da sodomita quale è non poteva far altro che desiderarti e infine tu hai ceduto al peccato" disse, mi girai verso di te. Trovandoti in lacrime per quelle parole tanto crudeli e tanto veritiere. Non potevo credere di non essermene mai accorto. Fui tanto preso dal mio egocentrismo da non rendermi conto di chi avessi al mio fianco. Dovetti chiedertelo per averne la conferma ma non sentii mai la tua risposta. Qualcosa mi colpì la testa e poi fu tutto nero. Ci ritrovammo qui, in attesa di essere giudicati » rimase un momento in silenzio, come fosse entrato realmente nel suo stesso racconto. Aveva avuto effetto anche su di me. Sentii solo in quel momento che le lacrime solcavano il mio volto, come fiumi in piena.
« A causa del mio ennesimo e ultimo atto di egoismo, anche tu pagherai le conseguenze dei miei errori » concluse mesto.
Ci fu qualche attimo di silenzio in cui le mie lacrime scendevano al ricordo delle sue parole. Non sapevo nemmeno perché mi sentissi così, dopotutto era solo una storia.
Non dissi nulla. Senza nemmeno rendermi conto del gas che respiravo, scivolai nel sonno con la speranza che, vista la sua storia, anche lui iniziasse a sentire qualcosa nei miei confronti.


Quando mi svegliai lui canticchiava il motivetto della ninna nanna, ma più arzillo. Evidentemente non sentiva più l'angoscia donata dal suo stesso racconto.
« Buongiorno, siamo di buon umore questa mattina ».
« Hanno portato da mangiare, ti va di pranzare insieme?».
« Come sai che questo è un pranzo? ».
« Semplicemente perché l'ho deciso io» rise.
Acconsentii, ovviamente. Mangiammo e parlammo della storia che aveva raccontato.
« L'ho adorata ... » dissi.
« Ti devo ricordare com'è finita? » rise leggermente malinconico.
« Come dicevo l'ho adorata, ma credo tu ti stia sbagliando » incalzai con fare altezzoso.
« Io ricordo una storia diversa ... » si mosse sul posto.
« Ti ascolto allora » disse in fine.
« Allora, fammi ricordare. La mia memoria fa un po' cilecca ultimamente » ridemmo entrambi.
« Ero il primo e unico figlio del Grande Re. I tuoi Genitori erano i più vecchi amici di mio padre, i tesorieri della banca del reame e signori dell'est. Le loro terre natie, nel sol levante del regno, vantavano le più ricche miniere d'oro e pietre preziose.
Passammo tutte le fasi della crescita insieme. Giocavamo a rincorrerci nella piazza della corte. Guardavamo i cavalieri addestrarsi nell'arte della spada e dell'arco. Li osservavamo giostrare, in occasione delle feste del regno e ci immaginavamo al loro posto. La sera ci arrampicavamo su una serie di pietre sporgenti sulle pareti del castello. Su, fino alla cima della torre più alta. Sul tetto scrutavamo l'orizzonte immaginando di scappare e di vivere avventure mozzafiato. Volgevamo, poi, lo sguardo al cielo osservando gli spiriti dei grandi eroi intrappolati nelle stelle, dar luce alla notte. Osservavamo le rade nuvole prendere forma di giganteschi draghi mangia uomini e noi, sempre prodi delle nostre fantasie, alzavamo alte le nostre spade di legno per combatterli » feci una pausa.
« Ovviamente finché qualche balia, o tua sorella non si accorgeva della nostra ubicazione» risi, con l'intento di cancellare quel inspiegabile senso di falsa nostalgia, che si stringeva come una gabbia di metallo nero intorno al cuore.
« E come dicevi, tua sorella la sera ti cantava la ninna nanna, con quella voce celestiale, per farti addormentare. Eri un fifone » lo presi in giro continuando a ridere.
« Io non sono un fifone, sono un valoroso cavaliere » esclamò con fare esageratamente offeso.
« Hai ragione anche sulla sua bellezza » continuai ignorandolo. « Tanto bella da sembrare una delle antiche dèe. Tanto bella da fare innamorare chiunque a corte e nel regno. Tanto bella da far battere migliaia di ali di farfalle nello stomaco di un bambino come me ».
« Ah, a si? » proruppe « giù le mani da mia sorella » ridemmo.
« Tranquillo non c'è pericolo » lo tranquillizzai.
« Non potevo sbagliarmi di più».
« Crescemmo insieme. Diventammo adolescenti e in me qualcosa cambiò. Un giorno eravamo fuori nel bosco a cavalcare, ridevamo e facevamo stupide gare di velocità. Non erano rare quelle giornate ai tempi.
D'un tratto, ormai lontani dal castello, iniziò un diluvio di mezza estate. Ci fermammo osservandoci, ormai completamente fradici. Scoppiammo a ridere. Cavalcammo veloci verso il castello. Alle porte trovammo Delia, la dama che si occupava della nostra educazione, con le mani sui fianchi larghi e un cipiglio nervoso.
"Stupidi incauti". Così ci chiamò urlando di andare a cambiarci immediatamente.
Ci dirigemmo di gran passo verso le nostre stanze, ridendo come matti. quando arrivammo sul ponte coperto dalla tettoia che univa le due ali del castello mi prendesti la mano arrestando il mio passo. Ti guardai incuriosito. Con gesti sicuri e veloci mi mettesti le mani sui fianchi e mi spingesti delicatamente contro una delle colonne che reggevano il porticato. Lì mi guardasti intensamente ti avvicinasti al punto da far sfiorare le nostre labbra. I nostri respiri si mescolarono. I nostri sguardi si incatenavano in cerca di consenso. Il tuo respiro caldo sulla mia pelle gelida, procurava al mio corpo tremiti di emozione. Guardai le tue labbra mordendo le mie. Annullasti le distanze unendole con la forza del desiderio. Solo allora scoprii, davvero, quanto avevo bramato quel momento ».
« La nostra vita venne stravolta nelle settimane successive. Quando prima nel giardino di corte giocavamo a rincorrerci, ora ci nascondevamo nei suoi angoli bui a baciarci. Quando prima guardavamo i cavalieri giostrare immaginando di essere loro, ora immaginavo che quella forza ci servisse a scappare lontano, dove non avremmo dovuto più nasconderci. Quando prima sul tetto andavamo a guardare le stelle, ora era il nostro posto segreto, passavamo ore a guardare il cielo notturno abbracciati, coccolandoci » sul mio volto apparve un sorriso amaro.
« Tutto cambiò, quando ti rivelai di essere stanco di nascondermi e di voler dire tutto al Re. Concordasti con me. Quella sera ci trovammo di nuovo sul tetto della torre.
"Lo sai, questa potrebbe essere, quasi sicuramente, l'ultima notte che passeremo qui!".
"È troppo pensare che andrà tutto bene?" chiese sarcastico.
La mia risposta fu solo quella di stringermi al tuo petto.


Il giorno dopo, spronandoci a vicenda, camminammo fino alla sala del trono. Sapevamo di poterli trovare riuniti a parlare della stabilità del regno. Quest'ultimo prosperava e gli animi erano quieti. Non ci sarebbe stato momento migliore. Rimaneva comunque pericoloso e arduo sperare, ingenuamente, nella loro benevolenza. Gli unici due figli maschi delle due più potenti famiglie del regno che troncavano la convinzione della stirpe. Ma eravamo disposti a rinunciare ai nostri titoli e alle nostre pretese sulla famiglia, pur di potercene andare ed essere liberi.
Con il coraggio dei folli aprimmo le spesse porte e ci dirigemmo verso la grande tavola.
Loro ci guardarono stupiti. Mai avevamo osato interrompere un incontro politico.
"Padre".
"Chiediamo venia per l'interruzione ..." iniziai facendo un leggero inchino.
"Ma abbiamo un importante notizia da darvi" ti presi per mano e i loro occhi guardarono in basso. In quel momento, con una delle sue entrate in scena, tua sorella varcò la soglia della aula. A stento tratteneva le risate.
"Sempre saputo" sussurrò passandoci accanto e mettendosi a lato della tavola.
"Lasciagli la mano" mi ordinò sconcertato il Re.
Il sorriso di tua sorella ci dava forza "Padre io lo amo" dissi impietrito. Se in quel momento una spada si fosse scagliata sul mio corpo probabilmente si sarebbe spezzata. La tensione si era tramutata in una perfida, pesante lama sulle nostre teste.
Rimasero tutti in silenzio.
"Siamo disposti ad abdicare a tutti ai nostri titoli e rinunciare alle pretese sulle vostre posizioni" sputai tutto d'un fiato.
Come fossero un solo essere le nostre madri scoppiarono a piangere.
Poi vidi la faccia di mio padre metabolizzare e mutare in pura rabbia.
"Non insozzerete il nome di queste antiche famiglie" disse tuo padre.
"Siete un disonore per noi e per i nostri antenati. Li sento rivoltarsi nelle loro stesse tombe" continuò il re.
Chiaristi che non ci fosse nulla da discutere e che nulla sarebbe potuto cambiare. Non capii da dove uscisse tutta quella forza. Se non fosse stato per la tua mano probabilmente sarei crollato a terra.
Ti zittirono malamente, dandoti del sodomita.
"Voi non vi rivedrete mai più. Da ora in poi ogni vostro movimento, ogni vostro pensiero verrà deciso da noi".
Tua sorella rimasta in silenzio fino ad allora proruppe "La felicità dei vostri figli non conta nulla? Quanti matrimoni di convenienza sono stati stipulati in queste sale? Affibbiate delle dame ai loro fianchi e fate vivere loro la vita che vogliono insieme" ci guardò "All'oscuro del popolo ma insieme e soprattutto felici" tornò a rivolgersi ai regnanti "O forse siete così accecati dalla purezza della discendenza?".
"Non sono incline a sopportare oltre" tuonò mio padre impazzito, mentre la ragazza marciava verso l'uscita dalla stanza mimando un - mi dispiace - con le labbra. Il Re chiamò le guardie e gli ordinò di prenderci e portarci nelle nostre stanze. "A breve avrete disposizioni su come procederà la vostra vita d'ora in avanti".
Mia madre gli prese il braccio piangendo dicendogli di non farlo e di ragionare. Lui, furioso più che mai, la guardò. "Debole" disse strattonando via il braccio.
"Troppo permissivi siamo stati con te, non avremmo dovuto. Verrai rimesso in riga".
L'unica opzione che avevamo era fuggire e i cavalli con il necessario erano già pronti. Avevamo preventivato questa opzione. Franchezza non significava stoltezza. Quello fu fatto nella remota possibilità di una loro labile approvazione, non abbastanza da non farci prendere precauzioni. Sapevamo, nel qual caso non fosse andata bene, che avrebbero provato a dividerci.
"Ebbene" dissi sfoderando la spada, mentre una decina di guardie si avvicinavano.
Eravamo stati addestrati bene nell'arte della spada, fin da bambini, e tra noi c'era un'intesa perfetta. Quando eravamo insieme non avevamo eguali nel regno, o meglio l'avevamo ma lei prendeva le nostre difese.
Cercammo solo di renderli inoffensivi, alcuni di loro erano amici e compagni di addestramento, i quali eseguivano solamente gli ordini. Nostro malgrado le lame recisero qualche anima.
Volsi un ultimo sguardo alla mia famiglia e uscimmo dalla sala in direzione delle stalle.
Da lontano sentii mio padre rinnegare il suo unico figlio e chiamare nuove guardie.
Nessuno sopraggiunse. E capimmo il motivo, nella strada per arrivare alle stalle trovammo schiere di uomini in armatura svenuti. Tua sorella ci aveva fatto strada. Ci aspettava con i cavalli già pronti.
La ringraziammo e salimmo sui cavalli, non c'era tempo per i convenevoli, solo un veloce abbraccio a entrambi.
"Sei una grande guerriera" le dissi. Aveva sconfitto tutti quegli uomini da sola, badando a non ucciderli.
"Non tornate mai più, non credo che al momento siano inclini al perdono".
"Addio".
Cavalcammo per giorni senza sosta, fermandoci solo per dormire nascosti nella boscaglia.
Entrammo in un altro regno lo attraversammo e ne varcammo un altro ancora. Più lontano saremmo stati dall'ira di mio padre, meglio sarebbe stato. Arrivammo in un lontano villaggio tra le montagne. Ci stabilimmo lì.
Pagammo l'affitto di un anno, al contadino proprietario di una baita ai confini del paese.
Raccontammo di essere fratelli e di aver perso casa e famiglia a causa della guerra di un regno lontano.
Vivemmo di giorno in giorno come semplici contadini, coltivando la terra e allevando un paio di capre per latte e formaggio. Scambiavamo i prodotti della terra per ciò di cui avevamo bisogno.
La semplicità di quella vita dava una felicità malinconica. Non per nostalgia della vecchia vita ma rimpianto per non aver sempre vissuto così.
Un giorno mi accompagnasti nel bosco limitrofo alla nostra casa. Arrivammo in una radura. Il sole splendeva sull'erba verdeggiante, in contrasto con l'ombra tra i fitti alberi.
Fu lì dove facemmo l'amore per la prima volta, e dove mi chiedesti: "un giorno, quando sarà possibile. Mi sposerai?"
Baciarti, fu l'unica risposta che riuscii a darti.


Fu tuttavia una felicità effimera.
Mio padre aveva assoldato dei mercenari e messo una taglia, indugiando sui nomi. A uno degli abitanti del villaggio, commerciando con le grandi città vicine, doveva aver ricevuto la notizia e sentito profumo d'oro. Arrivarono in trenta, di buon'ora, cogliendoci di sorpresa. Anche se praticamente disarmati, ingaggiammo comunque uno scontro. Spinti dalla dalla volontà di stare insieme, combattemmo allo stremo delle forze. Non potevamo vincere. Riuscimmo ad avvicinarci e quella volta fui io a baciarti. Ci incappucciarono e ci portarono qui, su ordine del re.
Ci cancellarono la memoria ma alla fine riusciremo sempre a trovarci. E lo abbiamo fatto » avevo gli occhi lucidi, senza accorgermene ero caduto in uno stato di angoscia e malinconia.
« Sì. ora inizio a ricordare, deve essere andata proprio così » la sua voce era tremante.
« Era bellissima, mio piccolo chicco di riso ».

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