Diciannove
Arrivò la notte e insieme con essa il buio pesto.
Qualche timido raggio di luna faceva capolino tra le assi di legno poste davanti alla finestra.
Il silenzio era assordante, non un rumore proveniva dall'interno stesso dello stabile e nemmeno dall'esterno. Sembrava che anche la natura si fosse alleata contro di me. Cosa avrei dato per ascoltare il dolce suono della pioggerella tanto rilassante, l'unico suono che riusciva a cullarmi in un sonno piuttosto sereno. Ma mi stavo solo illudendo. Nemmeno la pioggia sarebbe riuscita a farmi chiudere occhio.
Di una cosa ero assolutamente certa avevo sempre qualcuno fuori dalla stanza a farmi da guardia. Come fossi una carcerata, o un prigioniero di guerra. Mi sentivo come una mercanzia, non valevo più di un qualsiasi oggetto. Ero passata dalla prigione di soldi e fama creata da mio padre, in una nuova prigione ammuffita e puzzolente per l'odio nei confronti di Gerard Wilson. Guarda caso sempre lui il comun denominatore.
Sentii i lontani rintocchi sordi di una campana.
Come un meccanismo che si metteva in moto nuovi passi dietro la mia porta annunciarono il cambio della guardia.
Mi girai quindi di spalle alla finestra coperta e guardai verso lo spioncino. Notai due ombre muoversi.
Poi il nulla di nuovo. Non un rumore, un alito di vento o un respiro.
La mia mente non smetteva di stare in allerta.
Sentii un click.
Delle urla squarciarono l'aria.
Saltai da sopra la scomoda brandina presa alla sprovvista e mi trascinai verso la testata del letto. Portai le gambe al petto e poggiai il viso sulle ginocchia.
Un altro urlo proruppe il silenzio.
Con lo sguardo scrutavo il perimetro della stanza buia. Non si muoveva nulla, non c'era nessuno, ero sola. L'urlo proveniva dalle pareti del piccolo tugurio in cui ero rinchiusa.
Di nuovo urla, questa volta erano più giovani. Il pianto di una bambina mi fece rabbrividire.
Chiusi gli occhi e rividi Gerard Wilson alzare per la prima volta le sue mani contro di me. Lo pregavo di smettere, ma le sue mani si facevano più violente. Mi stringeva le braccia con la sua mano grossa e ruvida e con l'altra continuava a colpirmi. Continuavo a dimenarmi piangevo e urlavo. Mi sputava addosso parole senza senso intrise d'alcool. Gli occhi iniettati di sangue contro i miei. Quegli occhi li sognai per mesi a venire. I lividi continuarono a dolermi anche quando ormai erano svaniti dalla mia pelle pura e innocente.
Mi tappai le orecchie. Non sapevo più se quelle urla continuavano a essere reali o erano i miei dolorosi ricordi che continuavano a tormentarmi.
Alle urla ben presto si unirono rumori di vetri in frantumi, porte che sbattevano.
Le mani non bastavano da sole, unì il cuscino. Premetti con tutta la forza che avevo in corpo. Non volevo sentirle più, non volevo più rivivere quei momenti. Stingevo le palpebre tanto da farmi male, ma non riuscivo a sfuggire a quelle urla, a quei rumori, alla voce di mio padre, ai suoi occhi accesi di fuoco.
Con il sopraggiungere delle prime luci dell'alba finalmente le grida e i rumori si ammutolirono.
Il silenzio tornò padrone e mi avvolse con il suo tiepido manto d'inquietudine.
La piccola lampadina si riaccese e diede di nuovo colore e forma alla stanza che mi circondava.
La ciotola e il bicchiere d'acqua erano ancora lì, intatti, esattamente come li avevo lasciati la sera prima.
«Non ho intenzione di mangiare nulla che provenga da voi» gridai.
«So che qualcuno c'è qui fuori, vedo le vostre ombre che si alternano al cambio turno».
«Non starò al vostro gioco»
«Non rispondete?» continuai a gran voce a insistere.
Silenzio.
«So che ci sei, so che mi senti...»
«Logan» quasi sussurrai.
Il tempo passò lento e interminabile. Il mio stomaco si lamentava a gran voce.
Andai nel piccolo bagno. Mi bagnai un po' la faccia e le labbra secche.
La testa aveva cominciato a girare freneticamente. Soffrivo di pressione bassa e il fatto che fossi digiuna da almeno due giorni incideva notevolmente.
Lo stomaco non brontolava più, ma sentivo una voragine al suo posto. Mi passai la mano su di esso, ed era quasi inesistente.
La notte arrivò, la luce si spense e il buio fu di nuovo il padrone incontrastato dei miei peggiori ricordi.
Le campane annunciarono la mezzanotte, il cambio della guardia, il click e le urla ripresero.
Porte che sbattevano. Bicchieri e piatti che si rompevano.
Le mani mi tremavano.
Gli occhi vitrei e il ricordo di mio padre vivo sotto la pelle.
Sentivo le cicatrici di dolori mai completamente rimarginati riaprirsi sotto i colpi insistenti del passato.
Volevo solo porre fine a tutto quello strazio.
Volevo porre fine a quei ricordi.
Volevo porre fine a tutta la mia intera esistenza.
Volevo porre fine a quell'insignificante vivere che conducevo. Alla mia vita.
«Sparami Logan. Maledetto perché non mi hai ucciso?» sussurrai debole e stanca.
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