🥀5.Uno sport ammirevole 🥀 (Revisionato)

Pov Darcie


La mattina seguente mi svegliai di soprassalto, il cuore martellava nel petto come un tamburo impazzito.

Mi sollevai sul letto, cercando di riprendere fiato, mentre la sensazione opprimente di un incubo ormai sfumato mi teneva ancorata al terrore.

Cercai di ricostruire i frammenti di quel sogno, ma ogni dettaglio sembrava scivolarmi tra le dita, lasciando solo un’angoscia sorda a tormentarmi.

Avevo bisogno di aria, di spazio, di qualcosa che mi distraesse dalla tempesta dentro di me.

Non mi presi neppure il tempo di ripiegare la coperta; mi infilai un maglione spesso, dai bordi consumati, e un paio di leggings caldi. Poi afferrai i miei pattini.

Erano lì, sullo scaffale più basso, i miei vecchi amici: neri come l’ebano, ornati con rose rosse che avevo dipinto anni prima, quando credevo ancora di poter dominare le mie emozioni con l’arte. Il loro peso familiare tra le mani mi diede un briciolo di conforto.

Arrivai alla pista di ghiaccio poco dopo l’alba. Il cielo era un acquerello di rosa e arancio, sfumato dai primi raggi di un sole ancora timido.

L’aria pungente mi sferzava il volto, ma c’era qualcosa di purificante in quel freddo, come se potesse lavare via il caos dentro di me.

La pista era deserta, una distesa immacolata di ghiaccio che scintillava sotto la luce tenue. Perfetta.

Mi sedetti su una panchina gelata, il legno scricchiolava sotto di me.

Le mani, leggermente tremanti, afferrarono i lacci dei pattini, stringendoli con precisione.

Non avevo fretta, ogni gesto era un rituale. Quando finalmente mi alzai, il ghiaccio scricchiolò sotto le lame e un fremito mi attraversò il corpo.

Feci un respiro profondo, riempiendo i polmoni di aria fredda, e mi lanciai sul ghiaccio.

All’inizio, i miei movimenti erano misurati: tracciavo linee semplici sulla superficie liscia, quasi timorosa di disturbare quella pace.

Ma presto, come sempre, la tensione dentro di me si trasformò in un impulso irrefrenabile.

Aumentai la velocità, i passi più ampi, le curve più strette. Il vento gelido mi pizzicava il viso, strappandomi il cappuccio e lasciando che i miei capelli scuri danzassero nell’aria.

Ogni scivolata era una liberazione. Rabbia, paura, dolore... tutto ciò che avevo cercato di seppellire trovava una via d’uscita in quei movimenti.

Acceleravo, poi frenavo di colpo, sollevando schegge di ghiaccio che volavano intorno a me come frammenti di vetro. Ero un uragano sul ghiaccio, selvaggia e incontrollabile.

Chiusi gli occhi per un istante, lasciando che i miei sensi mi guidassero. Vedevo volti nella mia mente: Magnus, serio e protettivo, con quella calma che a volte mi faceva impazzire; Jared, assorto davanti al camino, la sua figura avvolta da ombre che non riuscivo a decifrare; Suzumi, immobile e pallida, il suo respiro appena percettibile.

La paura di perdere tutto mi colpì come una fitta improvvisa. Mi sollevai in un salto, le braccia tese verso il cielo, e atterrai con decisione, le lame che incidevano il ghiaccio in un suono secco e netto.

Quel rumore sembrava urlare ciò che non riuscivo a dire: Non posso crollare. Non ora.

Continuai a pattinare finché le gambe non iniziarono a tremare e il fiato non mi mancò.

Mi fermai al centro della pista, piegata in avanti con le mani sulle ginocchia, il respiro che si condensava in nuvole bianche.

Guardai le tracce lasciate sul ghiaccio: curve fluide interrotte da linee spezzate, un perfetto riflesso del mio caos interiore.

Il silenzio tornò ad avvolgermi. Era confortante, un abbraccio invisibile che mi permetteva di raccogliere i pezzi di me stessa.

Poi, un rumore improvviso mi fece irrigidire: il suono netto di lame che tagliavano il ghiaccio. Alzai lo sguardo, tesa, e vidi una figura avanzare verso di me.

Era un ragazzo, alto e snello, con un’andatura fluida e sicura. I capelli, candidi come la neve, cadevano disordinati sulla fronte, incorniciando un viso pallido ma forte.

Gli occhi erano azzurri, così intensi che sembravano poter scavare dentro di me. Indossava una giacca scura, pesante, e i suoi pattini bianchi, ornati da spuntoni neri, lo facevano sembrare più un guerriero che un pattinatore.

"Vedo che te la cavi piuttosto bene," disse, la voce leggera, quasi casuale, ma con un tono che mi irritava.

Un sorriso sottile curvò le sue labbra, e qualcosa nel suo sguardo mi metteva a disagio, come se sapesse qualcosa che io ignoravo.

"Grazie," risposi fredda, alzandomi in tutta la mia altezza. Non avevo voglia di socializzare. "Ora, se vuoi, ti lascio la pista."

Feci per allontanarmi, ma lui si mosse con rapidità, bloccandomi la strada con un’eleganza quasi innaturale. "Non vuoi pattinare con me?" chiese, con un sorriso enigmatico.

"Perché dovrei?" replicai, mantenendo un tono distante.

"In fondo, non sono poi così sconosciuto," rispose, inclinando la testa con un’espressione curiosa.

Quelle parole mi fecero gelare il sangue. Lo fissai, cercando una spiegazione, ma lui si limitò a indietreggiare, invitandomi a seguirlo con un cenno della mano.

"Se hai il coraggio," aggiunse, la sfida chiara nel suo tono.

Strinsi la mascella, combattuta tra il desiderio di ignorarlo e l’impulso di dimostrargli che non avevo paura. Alla fine, presi una decisione.

"Va bene," dissi, con voce ferma. "Ma non aspettarti che sia divertente."

Lui sorrise, e il suo sguardo brillò di qualcosa che non riuscivo a interpretare. "Vedremo."

E così, lo seguii sul ghiaccio, il cuore che batteva forte e una domanda che mi ronzava nella mente: Chi sei davvero?

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