Capitolo 8
Il volto di Jack fece un'espressione spaventata, poco prima di scoppiare a piangere.
Alex lo strinse a sé, preoccupato, sussurrando parole di conforto. Jack non piangeva mai, ma ora i suoi singhiozzi suonavano docili, soffocati.
«È colpa mia se ha fatto male alla mamma. Sono cattivo. Scusa mamma, scusa. Scusa papà. Sono cattivo, sono ciccione.» le parole borbottate in mezzo alle lacrime da una voce infantile.
«Nessuno verrà a farti male. Nessuno. Te lo prometto. Ti proteggo io.» Alex strinse quel fagottino a sé.
Il corpo era lo stesso, eppure non fece fatica a vederlo, era un bambino quello tra le sue braccia.
«Chi sei tu?» chiese il bimbo tirando su col naso ed alzando gli occhi rossi su Alex.
«Sono Alexander. Sono, emh... tuo amico.
Puoi fidarti di me. Io ti proteggerò, ok?» il bambino annuì trattenendo le lacrime.
«Tu come ti chiami?» chiese porgendogli dei fazzoletti dal comodino.
«Sono... sono Jack, ma i miei amici della classe blu, mi chiamano Jeky.» sorrise abbassando lo sguardo timido.
Alex non aveva mai visto un sorriso del genere sul volto del suo ragazzo. Il modo in cui si alzava solo da un lato, creando una fossetta adorabile sulla guancia, gli dava un'espressione infantile.
«Oh, e quanti anni hai Jeky?» gli sorrise premuroso.
«Sei. Sono nella classe dei grandi...» svagó con lo sguardo timido.
«Eh sì, sei grande!» esclamò Alex abituato ad avere a che fare con i bambini, dato il suo lavoro da babysitter.
Jack sorrise imbarazzato, con lo sguardo ingenuo che solo un bambino poteva avere. Arrossendo timidamente. Poco dopo sbadigliò, sfregandosi gli occhi con le mani a pugno.
«Hai sonno?» chiese al bimbo nel corpo adulto.
«Ti va se facciamo la nanna?» il bambino annuì facendo un altro sbadiglio.
«Vieni qui.» lo invitò tra le proprie braccia stendendosi a letto con lui. Alex strinse il proprio ragazzo, accettando anche la sua natura bambinesca. Gli annusò la testa che sapeva di amore e coccole. Jack prese a ronfare tra le sue braccia e Alex si lasciò andare alla ninnananna dettata dal suo respiro.
*
«Le emozioni sono un cazzo di casino, Liz. Non le puoi controllare, non ci puoi fare un cazzo. Puoi girarti dall'altra parte e fingere non esistano, ma anche se non le vedi in quell'esatto momento, non basta, non se ne vanno. A meno che non le raccogli, a meno che non ti prendi cura di loro, fino a renderle parte di te. Parti guarite.»
Il telefono squillò svegliandola bruscamente dai propri sogni. La voce di Adeline nella sua testa di un gusto dolce amaro, echeggió distante dalla realtà
Jade si alzò bruscamente afferrando il telefono, diede due colpi di tosse prima di rispondere al numero della scuola che luccicava sullo schermo.
«Signorina West?» la voce squillante dell'anziano la raggiunse.
«Sì, pronto!» si passò una mano sul viso ricordando vagamente quella mattina.
Erano già le 14:00.
Dopo aver discusso con Day aveva deciso di mandare a fanculo tutto e tornare a letto per dimenticare, per avere un nuovo risveglio.
«Emh, ecco, sì!
Mi dispiace se oggi non sono stata presente al discorso e non ho avvisato prima. Sono stata molto male stanotte, ancora non mi sento in gran forma. Chiedo scusa di nuovo.» si sfregò gli occhi con l'indice e il pollice della stessa mano, dannandosi per non essere stata in grado di fare un discorso brillante come solito.
«Oh, mi dispiace molto!
Nessun problema, me la sono cavata.
Che cos'ha?» chiese il vecchio.
West si alzò lentamente dal letto dirigendosi verso la cucina per mettere qualcosa nello stomaco dolorante logorato dall 'alcol.
«Qualche tipo di nuova influenza, immagino.» mentì alzando gli occhi al cielo infastidita da quel falso interesse.
«Ma non si preoccupi, nulla di grave. Domani sarò presente.» dopo un bicchiere d'acqua la gola le fece meno male.
«Mi fa piacere saperlo. Comunque l'ho contattata anche per farle sapere che hanno chiamato i genitori di Valentine. Si è svegliata.»
Jade mandò di traverso l'acqua. Tossí.
Tremante andò a sedersi.
Il cuore le batteva a mille e uno stupido sorriso grato posava sulle sue labbra.
«Co-come sta?» la sua voce balbettava commossa.
Kat era viva. La morte non l'aveva portata via.
Lei non l'aveva uccisa, non era colpa sua.
Appoggiò il bicchiere al tavolo, per fermare la superficie increspata dal tremolio delle sue mani.
«Fortunatamente bene. Anche se è molto scossa, da quel che so, ma non ha riportato danni particolari.»
«Grazie a Dio!» sospirò. L'anziano sorrise dall'altra parte del telefono. Jade non riusciva a smettere di tremare per la gioia.
«Magari quando si sente meglio potrebbe passare a chiedere notizie.» propose il preside.
«Sicuramente. Lo farò sicuramente.» sbatté la mano sul tavolo, presa da quello strano insieme di gratitudine e sollievo.
«Bene, allora ci vediamo domani.»
Jade spense la chiamata senza nemmeno ricambiare il saluto. Il suo corpo tremava.
Arrivò tutta insieme. Per la prima volta la paura di perdere Kat e il senso di colpa penetrò nelle sue ossa, facendola vibrare come una foglia d'inverno. Fino a quel momento aveva soppresso il terrore con l'alcol. Ora lo sentiva tutto. Scoppiò a piangere. La gratitudine le bagnava le guance. Sorrideva tra le lacrime, tra la gioia e il dolore: Non era un'assassina.
Valentine era viva. Valentine sarebbe cresciuta.
'È ora che tu ti prenda le responsabilità del tuo schifo al posto di scaricarlo sugli altri. Disgustoso.'
Le parole di Dayana tornarono a tormentarla e la distrussero semplicemente.
Valentine sarebbe potuta morire ed era solo colpa sua, perché a causa di tutta quella cattiveria gratuita aveva quasi ucciso una ragazzina. La pesantezza di un pensiero del genere era un colosso che si sedeva sulla sua cassa toracica.
Il mondo che si era costruita stava crollando. Il gioco che aveva creato, stava vibrando, squarciando la finzione. Le azioni avevano conseguenze e vivere fingendo non fosse così non aveva fermato la realtà.
'Siamo tutti feriti a questo mondo. È ora che tu ti prenda le responsabilità del tuo schifo, al posto di scaricarlo sugli altri. É terribile, è disgustoso.' le parole di Dayana la tormentarono.
Era colpa sua. Non c'erano parole per esprimere l'atrocità di ciò che aveva causato. Anche se non aveva preso la vita di Valentine, l'aveva senz'altro distrutta. Aveva preso i suoi anni d'oro, e li aveva bruciati. L'aveva segnata per sempre. Aveva ucciso l'adulta felice e sana che Kat sarebbe potuta diventare. Aveva condannato una ragazzina ad un futuro tetro e pieno di difficoltà. Non aveva scuse. Aveva scelto di essere un mostro, senza ma o perché e lo sapeva benissimo.
Pensò più a fondo, scoppiando in singhiozzi. Realizzò il rischio: Katherine sarebbe potuta morire. Non sarebbe più esistita.
Sarebbe potuta scomparire per sempre. Sarebbe potuta diventare il sangue sulle sue mani. Il vuoto enorme nel suo cuore, il marcio della sua anima. I singhiozzi la scuotevano tanto violentemente da riflettere in forti colpi di tosse. Il malessere le tagliò la gola.
'Ti approfitti di ragazzine e te le porti a letto. E lo sai, lo sai benissimo che è violenza sessuale. Il consenso di una persona minorenne, o di una persona che ha un ruolo subordinato al tuo non è valido, è forzato.'
«Kat è maggiorenne, ed è grande. Lo voleva anche lei. Sono sempre stata delicata e attenta al suo consenso.
Non è la stessa cosa. Dayana si sbaglia, non ha capito un cazzo. Come può paragonarmi ad uno stupratore di merda, ad un pedofilo!? Non ha senso.
Sono stata una merda per tutto il dolore che le ho causato, ma non per questo. L'amore che abbiamo fatto è stato l'unica cosa buona.»
West non poteva accettare le accuse dell'amica. Non sapeva la loro storia.
Capì il problema, il problema era che Dayana aveva tratto le sue conclusioni dalla confessione da ubriaca che le aveva fatto. Non ricordava manco che avesse detto ma era certa di essersi dimenticata i dettagli tra un conato di vomito e l'altro.
«Vaffanculo Dayana. Avresti anche potuto chiedermi spiegazioni prima di andare a conclusione affrettate. No, tanto sei solo una stronza del cazzo che non la smette di cagarmi la minchia. Fottiti.
Katherine è viva. È viva. Non conta altro.» si asciugò le lacrime proiettando la propria rabbia sull'amica.
Sentiva il bisogno di Katherine. Voleva sentirla, vederla. Le mancava. Voleva ricordarla.
Correndo al piano di sopra si catapultò nella sua libreria. Lo cercò ossessivamente tra i quaderni e i fogli sparsi.
Trovò il diario che stava cercando, con mani tremanti lo raccolse.
I suoi occhi scorsero affamati alla ricerca di Valentine sulle parole scritte a mano, nero su bianco. Aveva scritto di ogni istante. Patologicamente, West era incapace di assimilare la vita senza scriverla su di un foglio. Senza rielaborarla, analizzarla, distorcerla sotto un mucchio di parole. Non avrebbe potuto vivere altrimenti, senza distanziarsi da se stessa, senza trasformarsi solo in un personaggio di carta, capace di mille atrocità.
Valentine prese a scorrere nella sua mente, seguita dalla sua punta del dito affamata.
Rivisse ogni attimo, rilesse ogni prima volta.
Kat legata nel suo letto, nella sua macchina, al parco, sulle sue labbra. Kat vestita, nuda e delicata. Kat con le sue espressioni scocciate, imbarazzate. Kat che dice di amarla come una bambina, Kat ingenua che cerca di alleviare le sue ferite. Sguardi, baci, carezze, parole e sorrisi.
Lasciò il quadernino e si lasciò cadere al suolo. Sul tappeto morbido dai colori caldi.
Aveva temuto seriamente di perderla per sempre, e peggio, aveva cercato di farsene una ragione. Negando la paura della perdita e giustificando la morte. Minimizzando l'importanza di una vita.Tuffandosi nell'alcol, fuggendo nel rassicurante dolore di Adeline.
Per un attimo si sentì umana. Giudicò il mostro che era diventata. Terrorizzata da se stessa.
Si sentiva piccola, come se le sue azioni non avrebbero potuto sfiorare una mosca. Si sentì enorme oltre i limiti del possibile, senza alcun controllo, con la responsabilità di un inferno di sofferenza sulle spalle.
Niente di ciò che era aveva più un senso. Era solo lo scarabocchio di un malato mentale.
Il male che aveva creato era qualcosa di tanto grave che non riusciva ad afferrarne manco i bordi. Il senso di colpa oscillava sugli estremi: troppo, apatia dell'inconsapevolezza.
Se Adeline lo avesse saputo sarebbe stata disgustata da ciò in cui si era trasformata.
Una lacrima le colpì il labbro col sapore del sale.
«È colpa tua se sono così!» al volto della ragazza nella sua mente, ma quello dissolse in un'espressione delusa.
Irresponsabile. Caso clinico. In fondo lo aveva sempre saputo. Per questo ipocritamente odiava gli psicologi.
Non poteva dare la colpa all'ombra di un ricordo, non poteva dare la colpa ad Adel, ma non aveva mai smesso di farlo, aveva continuato ad uccidere innocenti in nome del dolore che l'aveva uccisa.
La complessità di quei sentimenti era troppo per una codarda come lei. Un oceano di lacrime non sarebbe mai stato abbastanza. Il dolore che provava non sarebbe mai stato abbastanza intenso, per quanto lo sforzava masochisticamente. Non avrebbe mai pagato il prezzo per le proprie azioni. Non avrebbe mai sofferto "tanto quanto". La leggerezza, la calma, erano sensazione che non meritava, che il suo inconscio non le avrebbe mai donato.
Affondò. Le sembrò di trapassare il pavimento, di essere trascinata al nucleo. Al centro di sé.
Il vuoto enorme della propria anima la terrorizzò, per la prima volta si rese conto di quanto fosse fragile e sola. Di come fosse stata svuotata da affetti che l'avevano riempita per poi sparire del tutto, da mani che l'avevano derubata, da lamenti distorti che aveva lasciato entrare dentro di sé.
Come poteva un essere sbagliato come lei meritare di meglio? Come poteva meritare di diventare meglio, di stare meglio? Qualcosa di così rotto, difettoso, crudele?
Senso di colpa tra le costole.
Senso di colpa imperdonabile, che meritava di sentire, che pregava la facesse morire in fretta, che sapeva non sarebbe sparito mai, rendendola eternamente disgustosa.
Come aveva perso la propria innocenza? Dov'era la vera Elizabeth?
Non c'era più sotto quel mucchio di peccati, di egoismo. Sotto tutta la sofferenza che aveva recato, per dimostrare a se stessa di non essere umana, di essere un Dio.
Si vide dall'alto, vide la donna che era sul pavimento, piangere immensamente sola ed abbandonata, e ne ebbe pena. Si strinse forte tra le proprie braccia come a cercare di contenere quei lembi che sfuggivano via, che allagavano il suo spirito facendola strabordare.
Pianse finché non sentì di starsi obbligando al troppo. Finché gli occhi non le bruciarono, e i secondi ticchettarono abbastanza da farle compagnia.
Con profondi respiri si calmò. Il corpo esausto per tutta quella violenza uscita da scosse impetuose.
Ora che quella tempesta era passata, rimaneva solo un pensiero; e ora?
Cosa avrebbe detto a Kat?
L'ansia si impossessó della sua mente.
E se peggio; dopo un atto del genere l'avesse denunciata, raccontando di loro a tutti? Quella situazione era punibile per legge. C'era anche quella possibilità e West non saltava di gioia all'idea di farsi un giro in galera.
Se Kat fosse stata arrabbiata con lei?
Come avrebbe fatto a farsi perdonare? Era possibile farsi perdonare?
Perché non riusciva a pensare lucidamente?
Pensava di conoscerla abbastanza da poter prevedere il suo modo di pensare, ma evidentemente, dopo un gesto del genere, si sbagliava. Non aveva idea di cosa stesse pensando. Non aveva idea di come quel trauma avesse inciso su di lei.
C'era anche la possibilità che vedendola avrebbe voluto suicidarsi ancora, e West non lo voleva, non l'avrebbe permesso.
Non voleva farle male, non più.
Non era più Valentine; il tredicesimo esperimento. La vittima del suo personaggio d'inchiostro.
Era Katherine. Erano i suoi occhi dolci e i suoi modi di fare buffi ed impacciati, erano le sue frasi sussurrate e la sua determinazione, il suo profumo e i suoi baci innocenti.
Sapeva che la vecchia Jade sarebbe scomparsa in una situazione del genere, che non avrebbe retto e avrebbe cambiato scuola, che sarebbe fuggita dai problemi che aveva creato senza prendersene la responsabilità, ma non poteva farlo, non a Katherine.
Aveva allontanato tutti convinta che anche se fossero morti, non le sarebbe importato nulla, spaventata dal proprio odio per la vita, ma Kat doveva vivere.
Katherine era importante.
Era l'unica persona di cui le importasse qualcosa, oltre Dayana… che aveva appena mandato a cagare.
Jade si passò una mano sul volto.
«Pessima.» bisbigliò.
Sapeva di esserla. Sapeva anche che le doveva delle scuse per aver esagerato, ma era troppo arrabbiata ed orgogliosa. La odiava per averle detto quelle cose.
Sentiva lo stomaco bruciare per il mix d'ansia e alcol. Avrebbe dovuto mangiare qualcosa, non mangiava dalla sera prima, ma non aveva tempo. Aveva bisogno di vedere Valentine, non poteva aspettare altro. Doveva vederla coi propri occhi. Aveva bisogno di vederla viva, per cancellarsi dalla testa l'immagine di lei morente in un bagno di sangue.
*
La porta della sua stanza si aprì bruscamente.
Katherine sussultò, non riusciva a capire l'espressione sul volto di sua madre. Non l'aveva mai vista sulla sua faccia. Il modo in cui quelle rughe piegarono il suo volto. Solitamente coperto dal trucco, composto e sorridente, ma non in quel momento.
«Katherine...» chiamò il suo nome vedendola.
Rimase immobile ad osservarla. Valentine si chiese cosa stesse pensando, cosa stesse vedendo, come si fosse sentita sua madre in tutto quello. Se il suo tentato suicidio l'avesse davvero fatta sentire male come Charlotte.
«Vado... Torno più tardi.» la rassicurò l'amica spingendo le ruote fin fuori dalla sua stanza.
Sua madre le si avvicinò senza dire una parola. Kat non l'aveva mai vista in silenzio per tanto tempo. Stranamente la cosa la sollevò.
La rossa non disse nulla, non sentiva nulla. Anzi no, qualcosa sentiva, ma non riusciva a definire quel sentimento tra i suoi denti. Assomigliava alla rabbia.
«Papà?» chiese spontaneamente la ragazza sul lettino. La donna andò a sedersi sulla sedia di fianco a lei.
«Arriva tra poco. È andato a prendere una cosa.» rispose soltanto. Kat annuì di risposta.
Ancora nulla.
«Come ti senti?» la fronte corrugata di sua madre e il tono tremante.
Immaginò stesse pensando un sacco di cose e stesse facendo una fatica incredibile a non esplodere. Oppure no. Non ne aveva idea.
«Bene.» mentì Kat, forse più per abitudine che altro.
Non sapeva chiedere sostegno ai genitori. Soprattutto a sua madre, che ai suoi problemi reagiva sempre e solo minimizzando, o andando più in ansia di lei e riempiendola di insicurezze. Almeno suo padre, con il suo comportamento calmo ed autoritario riusciva ad essere più utile.
«Ho parlato con la tua professoressa di Matematica. È stata lei a chiamarci e ad accompagnarti all'ospedale.
Mi ha detto del bullismo...»
Kat la guardò sorpresa, si era dimenticata fosse stata Jade a portarla lì. Forse lei ne sapeva di più...
Si chiese se la vecchia Kat sarebbe stata davvero in grado di uccidersi per colpa dei suoi compagni. Le sembrava strano, chissà che le era successo...
Magari Jade poteva darle delle risposte, sempre che volesse chiederne.
Più la possibilità di ricordare la verità si avvicinava, più Kat temeva di non volerla sapere. Aveva paura di ricordare qualcosa di così doloroso da farla impazzire di nuovo.
«Katherine?» la chiamò sua madre molto lentamente, strappandola dai propri pensieri.
«Non mi ricordo niente di quando è successo e del perché.» mise in chiaro subito.
Sua madre sorpresa spostò lo sguardo in basso, delusa.
Forse si aspettava delle spiegazioni, ipotizzò.
Quel silenzio era imbarazzante, pensò Kat.
Non sapeva che dire, poi pensò che un genitore normale, un genitore vero, sarebbe saltato al collo del figlio in un'occasione del genere, e quel pensiero la lasciò spaesata dalla realtà.
Come se avesse appena aperto gli occhi.
Pensò a sua madre che la stringeva, e l'idea le diede voglia di fuggire lontano. Ancor più sorpresa capì di non voler affetto da lei, ma di starla incolpando di non avergliene dato prima. Di non aver impedito tutto quello.
«Mi dispiace.» sua madre crollò, scoppiando in lacrime, eppure la figlia non provò nessuna empatia. Rimase ad osservarla piangere, senza dire una parola, confusa sul da farsi.
Sollevata ed infastidita allo stesso tempo da quella reazione. Godendo un poco, con la giusta dose di sadismo.
«Perché hai pensato di fare una cosa del genere? Io non lo capisco. Non ti ho mai capita. Sono una pessima madre, non sono riuscita a crescerti bene. Lo so.
Questa cosa di voler morire... forse abbiamo sbagliato qualcosa. Io tengo a te, ho cercato di fare del mio meglio, dandoti tutto ciò di cui avevi bisogno: libri, giochi, vestiti.
Sei così diversa da me, non ho mai capito come prenderti e perché tu mi andassi così contro. Abbiamo fatto un sacco di sacrifici per te, perché ci fai questo? È per dispetto? Dimmelo! Cosa ti abbiamo fatto di male per meritarci una figlia che tenta il suicidio?» il suo pianto disperato infastidiva il silenzio, mentre tirava fuori tutta la propria frustrazione.
La ragazza sul lettino rimase impassibile.
Sapeva che quelle parole avrebbero dovuto farle male, che erano folli, ma non sentiva niente, se non quella fastidiosa rabbia allontanarla ancor più.
Avrebbe voluto far ragionare sua madre, ma non sapeva come provarci. Non aveva parole né forze per combattere tutta quell'ignoranza.
Non aveva voglia di provare a spiegarle quanto sbagliasse. Anche perché farlo l'avrebbe esposta di più. Perché dire: vorrei solo che tu mi accettassi ed amassi così, sarebbe suonato patetico e disperato.
«Ho fatto un sogno: era il mio compleanno. Mi abbracciavi e dicevi che eri fiera di me e mi volevi bene. Mi dicevi che il mio sogno era la realtà, che non mi dovevo preoccupare perché ormai mi ero svegliata e che questo, che tu che ti comporti così, era solo parte del mio incubo.» provò a dirlo tra le righe, che aveva bisogno d'amore.
«Kat ti rendi conto che hai tentato di morire? Non hai pensato a quanto male ci stavi facendo? Che potevo perdere la mia unica figlia? Io ti voglio bene, ci mancherebbe.
Ovvio che ti voglio bene. Sono tua madre! Come puoi credere che non sia così? Se mi preoccupo così tanto per te, è perché ti voglio bene. Se fossi morta saresti finita all'inferno, ma per fortuna Dio ti ha salvato.»
Per la prima volta Katherine ebbe pena di lei, che non era nemmeno minimamente consapevole che dare oggetti ad un figlio non significasse dargli amore. Che non si rendeva conto del proprio modo infantile ed egoista di amare.
«Tanto ci finisco comunque all'inferno.» pensò ironicamente Kat ad alta voce.
'Nel girone dove c'è il gay pride organizzato da Satana frocio. A fare orgioni con tutte le lesbiche mai nate e morte prima!' pensò cercando di sdrammatizzare la situazione che lentamente le stava gravando sulle spalle.
«All'inferno ci finiscono gli stronzi che ti hanno ridotta così.
Basta Kat, avresti dovuto parlarmene prima. Ti cambiamo scuola. Non devi tornare in quella.»
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