Capitolo 44

“So cosa hai fatto, se non stai lontana da Katherine Valentine, allora lo saprà anche lei”

Jade sentì le vertigini, in un primo momento il panico puro si impossessó di lei. Non era mai stata vittima di minacce online, l'ansia e l'angoscia le riempirono il petto schiacciandoglielo, strappandole via qualsiasi tranquillità, ossessionandola con scenari catastrofici, riempiendola di domande.

Quel fiume in piena di pensieri la sovrastò: era finita. L'avevano scoperta. Kat avrebbero saputo, e dopo di lei forse tutti avrebbero saputo. Sarebbe stata la sua fine. Avrebbe perso tutto. Il cuore le palpitava.

Chi la stava minacciando?

Sarebbe finita in galera. Doveva fermarlo. 

Chi era? 

Avrebbe fatto qualsiasi cosa per fermarlo. Le mani le tremavano.

Ma chi era? Chiunque fosse lo avrebbe scoperto, gliela avrebbe fatta pagare. A qualsiasi costo, ne sarebbe uscita, con qualsiasi mezzo. Il petto le faceva male, si sentiva soffocare.

La sua sicurezza era in pericolo, la sua intera vita era in pericolo. Nelle mani di uno sconosciuto. Sotto le minacce di un leone da tastiera. Le formicolarono gli arti, uno scossone le annebbiò i pensieri. Il pericolo nella propria essenza sostava sulla sua testa. Sentiva di star perdendo il controllo di sé. 

Si sarebbe uccisa piuttosto che finire in carcere, per quanto avesse paura della morte lo avrebbe fatto, perché una vita deprivata del successo, della fama che aveva costruito giorno dopo giorno, non era una vita che era interessata a vivere. Forse avrebbe potuto convincere Kat a non denunciarla. Lo aveva già fatto una volta. C'era ancora modo di uscirne. Poteva farlo. Cosa avrebbe fatto Kat se lo avesse saputo? Avrebbe potuto provare a suicidarsi di nuovo? L'avrebbe odiata? Avrebbe sentito di nuovo il bisogno di riaverla? O di vendicarsi? Chi era la nuova Kat? Non ne aveva idea. Come avrebbe reagito? Doveva dirglielo lei prima che lo facesse qualcun'altro? Prima che lo ricordasse da sola? E se invece non lo avesse mai ricordato? A che scopo dirglielo e perderla quasi certamente? Una fitta le diede l'emicrania, mentre il cellulare le tremava tra le mani, lo schermo ancora acceso su quella semplice frase. Una fitta le diede la nausea, le sembrava che il cuore le battesse tanto forte da farle schizzare via i polmoni dal petto, da soffocare Non stava nemmeno più respirando.

«Cazzo, respira… pensa… fanculo. Cazzo!» imprecò chiudendo violentemente il portatile e spingendolo sul divano lontano da sé, desiderando bastasse semplicemente farlo sparire per risolvere quel problema. Si obbligò a fare dei respiri profondi, ancora una volta visualizzó il suo posto antipanico: l'immagine di una grande quercia radicò nella sua mente e il vento che ne scuoteva i rami e le foglie spazzó via le sue preoccupazioni regalandole il primo soffio della sua tanto ricercata calma. Si concentrò sul proprio respiro: inspirò profondamente, immaginando di essere in quel luogo immaginario dove nulla poteva toccarla. Ricordandosi immediatamente di tutte le tecniche che aveva imparato per evitare attacchi di panico o simili, si abbracciò e iniziò a darsi dei colpetti con le dita sulle spalle, rassicurandosi così, facendosi compagnia. Ricordò che qualcuno lo chiamava l'abbraccio della farfalla o qualcosa del genere, ma era troppo agitata per pensarci in quel momento. Lentamente tornò in sé, lentamente la sensazione di controllo si ristabilì nella sua mente, insieme alla convinzione, anzi la certezza di poter risolvere anche quel problema, proprio come aveva risolto qualsiasi guaio in cui era incappata nella sua tumultuosa vita.

Fece un sospiro e si stese sul cuscini soffici di schiena ad occhi chiusi.

«Va tutto bene. Cazzo, sei Jade West! Puoi trovare una soluzione, hai sempre trovato una soluzione. Puoi fare qualsiasi cazzo di cosa tu voglia, puoi risolvere qualsiasi problema. Sei un cazzo di genio, hai il potere, la credibilità e i soldi. Non puoi dare il potere di agitarti così a qualcuno a caso, che cazzo! Riprenditi e non essere patetica!» ringhiò aggressivamente contro le proprie paure per farle arretrare negli angoli rimossi della sua anima.

West era solita parlare da sola, con se stessa. In quella casa grande e vuota spesso rischiava di perdere i confini di sé, così si sorvegliava, ad alta voce: di tanto in tanto commentava le proprie azioni, giudicava i propri pensieri, le emozioni che provava. Rigorosamente educava il proprio corpo, la propria mente ad essere l'automa che lei desiderava essere.

Non viveva la propria vita, ma la organizzava: la infilava in caselle da spuntare, in elenchi da depennare, in liste di progetti, talenti e passioni con cui riempire il proprio vuoto, con cui controllare il proprio corpo, la propria persona. Si aggrappava a quella routine per tappare i solchi lacerati della sua coscienza, per fare rumore e non sentire il sottofondo, per convincersi di avere il potere di controllare la propria mente e il proprio corpo. Quella costante supervisione che dedicava a se stessa, era la prigione che la teneva al riparo dal rancore, dalla rabbia e dalla sofferenza che non aveva alcuna forza di guardare negli occhi.


«Sei un cazzo di genio, letteralmente, non devi nemmeno preoccuparti di una stronzata del genere. La risolvi. Non è nemmeno da considerare un problema. Devi cazzo smetterla di disperarti e andare nel panico così facilmente, porca puttana. Stai dimenticando chi sei…» si giudicò acidamente. Era da molto che non faceva i conti con quel lato controllante di sé. Lo aveva perso da un po', sotto i bicchieri in vetro di alcol, lo aveva fumato nelle sigarette, vomitato durante gli hangover, lo aveva pianto sul pavimento. Si era persa, era rimasta sola; nel vuoto della sua casa, nella morsa della depressione. Non era più riuscita a reagire, a sentire la capacità di rimettersi insieme, di rimettere in ordine, di avere il controllo.

Probabilmente quel momento di allarme aveva risvegliato il suo super io e ora che era tornato forte e chiaro non aveva assolutamente intenzione di perderlo più.

«Jade Elizabeth West capirebbe chi ha mandato questa stupida e-mail e si muoverebbe di conseguenza. Non può essere chiunque, deve essere qualcuno che sa, e sono davvero poche le persone che sanno. Jade West ne verrebbe a capo e le manipolerebbe, o alla peggio, minaccerebbe di conseguenza.»

Era così che era nata Jade Elizabeth West, non lei, non il suo corpo, ma il suo mito. Era così che era venuta alla luce quella vita perfetta che aveva costruito.

Si era limitata a recitare un personaggio, a fingere di esserlo. Si era limitata a immaginare la versione più potente di sé, a formarla nella propria mente, per poi copiarne i pensieri, le azioni, i comportamenti. Aveva deciso chi voleva essere. Aveva giocato alla propria vita come in un videogioco, aveva scelto quali vizi abbandonare, quali mantenere per darsi un tono, aveva ossessivamente deciso cosa avrebbe potenziato di sé per raggiungere il successo. Aveva imparato ad essere il prodotto della propria mente, il soldatino perfetto delle proprie aspettative. Aveva dato gli ordini e li aveva eseguiti perfettamente, senza mai darsi tregua, trascinandosi a tal punto da non ricordare più la bambina che era stata prima. Era diventata il personaggio che voleva essere, non ricordava più il volto su cui poggiava la maschera, la figura di cui era il riflesso. 

Solo Adeline gliela aveva ricordata, un tempo, ma Adeline non era più lì. E lei aveva abbandonato l'idea di ricordare chi fosse prima, chi fosse oltre a quello.

Forse sarebbe potuta essere qualcun altro in un'altra vita, ma in quella ormai non poteva che essere West Elizabeth Jade. Non aveva intenzione di essere nessun altro.

Era diventata chi voleva diventare, non aveva motivo di scoprire chi fosse al di là delle sue aspettative, del suo volere, dei suoi obiettivi. La soddisfazione stava lì: non poteva esistere un'altra versione di lei migliore di quella che aveva faticato per costruire, sarebbe dovuta essere soddisfatta così, consapevole della propria potenza, della propria determinazione. Sarebbe dovuta esserne fiera, felice. Aveva tutto ciò che il mondo le aveva insegnato fosse desiderabile comprare, possedere ed essere, non voleva ammettere che in fondo tutto quello non sarebbe mai stato abbastanza.

«Da oggi basta stronzate. Basta essere debole e patetica. Basta cazzate emotive che ti distraggono. Devi riprendere il controllo di questa cazzo di situazione» spinta da quel momento di lucidità e buon senso corse a prendere tutti gli alcolici rimasti in casa e gli svuotò nel lavandino della cucina, suo malgrado con il dolore di un’alcolista. Si  fece quella violenza, consapevole che se non l'avesse fatto sarebbe tornata a bere facilmente, e sotto sotto, consapevole che se avesse voluto tornare a bere avrebbe facilmente potuto comprarne dell'altro, come già aveva fatto in passato…

«Basta bere, porcatroia! Non ti basta la scenetta patetica fatta con Kat? E quei fottuti incubi pensi migliorino bevendo? Non hai sgobbato per tutta la tua vita per finire ad essere una patetica alcolizzata, capace solo di piangerti addosso come una fottuta poppamente. Sei nella merda, cazzo svegliati e fai qualcosa!» disse con rabbia buttando tutte le bottiglie di vetro vuote in un sacco della spazzatura. Si odiava. Odiava essere finita così in basso, sapeva benissimo di essere in un vero e proprio periodo di depressione, non era la sua prima volta e sapeva benissimo che forse avrebbe avuto bisogno di un aiuto, ma poteva farcela anche da sola, ce l'aveva sempre fatta da sola. Ce l'avrebbe fatto da sola. Doveva smetterla con quelle stronzate, doveva smetterla di piangersi addosso.

Andò a recuperare i pacchetti di sigarette nella borsa, e soffrendo per quel gesto, le spezzò tutte a metà, buttandole poi nella spazzatura. Avrebbe smesso con qualsiasi vizio autodistruttivo, aveva bisogno di tornare come prima. Di tornare a sentirsi forte, aveva bisogno di fermarsi in un punto senza continuare a sbandare da un lato all'altro. Fomentata dal proprio bisogno di controllo e ordine iniziò a camminare da una parte all'altra della casa, cercando qualcosa da riordinare, ma la donna della pulizia aveva già fatto il proprio lavoro alla perfezione.

«Dunque… chi è che sa la verità su Kat?» si fece la tanto attesa domanda.

«Beh, la sa Violet… anche se in teoria l'ho convinta sia stata colpa sua, ma dopo quello stupido messaggio che mi ha mandato…» rifletté su quella possibilità tornando a sedersi sul divano, appoggiando il portatile sulle gambe.

«Te la sei giocata male, per colpa dell'alcol, cazzo! Se non fossi stata così sbronza te la saresti sbattuta come volevi e avresti di certo avuto il suo silenzio. Non puoi trattare Violet così male, per quanto sia stupida e incapace, lei sa e DEVI tenertela buona» sgridò se stessa. Ricordi sfocato di come le aveva lanciato la bottiglia contro le tornarono in mente facendola vergognare. Da lucida non l'avrebbe mai fatto, era una mossa stupida e inutile. Per quanto non credesse che Erika fosse capace di liberarsi di lei, non era servito a niente, anzi era servito solo a risvegliare il suo animo ribelle. Fortunatamente sapeva bene come rimetterla al proprio posto.

«Beh, tenendo conto che ha cancellato il messaggio subito dopo averlo mandato, probabilmente il suo momento di ribellione è già finito… oppure, oppure potrebbe essere davvero stata lei. Potrebbe essere il suo modo di vendicarsi, cercare di mandarmi nel panico…» immaginò Violet a casa propria che le inviava quell'email seduta sul proprio divano, con un sorriso divertito, che godeva del panico che le aveva appena causato. Quell'immagine la rese rossa dalla rabbia.

«Quella fottuta stronza…» borbottò furente, si obbligò a smetterla di pensarci, perché altrimenti l'avrebbe facilmente chiamata in modo impulsivo solo per vederla a darle una lezione.

«Ma se non fosse Violet… Chi altro sa?»

Non poteva dare per scontato fosse stata lei. West Elizabeth non lavorava con i “se”, aveva bisogno di indagare tutte le possibilità. Niente doveva prenderla alla sprovvista. Chiunque fosse quello stronzo, se era la guerra che voleva, allora era la guerra che le avrebbe dato. Accese il cellulare e rilesse la e-mail.

“So cosa hai fatto, se non stai lontana da Katherine Valentine, allora lo saprà anche lei”

Doveva essere qualcuno che conosceva il nome e cognome di Kat, e inoltre, qualcuno che poteva vedere se le stava lontana o no…

Tutto la rimandava a pensare fosse Erika Violet, era la sospettata più plausibile: sapeva nome e cognome della studentessa, sapeva cosa era successo tra di loro, sapeva che si frequentavano ancora, e poteva sapere anche se avesse smesso o no di vederla, dato che a scuola poteva spiarle insieme più che facilmente. Poteva addirittura essere una questione di gelosia; magari Violet era ancora gelosa delle attenzioni di Kat, magari era tanto folle da aver reagito così al loro litigio.

C'era solo una cosa che non la convinse di quell'ipotesi: aveva tre account e-mail, quel messaggio minatorio era arrivato all’account professionale. Forse stava sottovalutando Violet; ma era certa che se le avesse mandato un'email l'avrebbe fatto alla casella scolastica. Da sempre Erika era una persona impacciata, poco attenta ai dettagli, probabilmente non sapeva nemmeno avesse un account professionale. Non pensava potesse essere così intelligente da organizzare in modo tanto metodico una cosa del genere; ma magari si sbagliava. Inoltre immaginava che se proprio avesse dovuto, allora le avrebbe mandato un messaggio da un numero anonimo, piuttosto che un email, mandare email era un po' superato… era più una cosa da boomer… era più una cosa da Dayana.

«Beh, Dayana sa di Kat gliel’ho detto io…

La sto ignorando e sarà arrabbiata per questo. Inoltre ti manda sempre email di lavoro da quel indirizzo… certo, non le ho detto il nome e cognome di Kat… ma potrei averlo fatto da sbronza e non ricordarlo. Oppure potrebbe semplicemente averlo cercato online visto che ha fatto notizia. Mandare email minatorie per farmi cambiare idea, per farmi smettere di avere a che fare con lei, ce la vedo proprio… che stronza!» si morse le unghie con rabbia. Ricordò quanto fosse determinata nel farle capire che aveva sbagliato tutto e che doveva allontanarsi dalla sua studentessa. Si era fissata con quella storia, come si era permessa a paragonarla ad un pedofilo? Respirò pesantemente, schiacciata dal fastidio di quei ricordi. Ma davvero c'era la probabilità che le avesse dato il nome e cognome di Kat? Lo aveva fatto? Provò a ricordarlo, ma i ricordi delle volte che Dayana l'aveva soccorsa erano sfocati e vaghi. Era molto probabile che le avesse fatto il suo nome e cognome… ricordó di come aveva pianto disperatamente quando si era sfogata sul tentato suicidio da ubriaca marcia. Probabilmente le aveva già raccontato tutto, ogni cosa, dall'inizio alla fine, solo che non lo ricordava…

«A parte loro, chi sa? Non è che Kat… a chi lo ha raccontato Kat? Non posso nemmeno chiederglielo perché non si ricorda. Ah beh, c'è quella ragazza disabile…» con fastidio Jade ricordò di come l'aveva sorpresa. Se non fosse stata messa tanto male sicuramente avrebbe reagito diversamente e non si sarebbe fatta prendere in giro da una ragazzina. Non poteva ancora credere di aver ammesso fosse stata colpa sua, come cazzo aveva fatto a comportarsi in maniera così stupida? Anche lì sicuramente era stata colpa dell'alcol.

«Potrebbe essere lei…» rifletté intensamente su quella possibilità.

«Peró… è lei ad avermi suggerito di non dire niente a Kat. Praticamente mi ha pregato di non ricordarle nulla. È vero, vuole che io le stia lontano, ma vuole troppo bene alla sua amica per buttarle addosso un trauma del genere. Non lo farebbe mai. Non era quello che voleva, insomma, altrimenti l'avrebbe già fatto. Indagherò comunque chiedendo a Kat… ah, e poi c'è quel marmocchio emo. Ma quello l'ho fatto fuori una vita fa… no, non può essere lui, non frequenta più Kat, non so manco se è ancora a scuola o si è ritirato», rifletté sulla possibilità che ci fosse qualcun'altro ancora che sapesse, ma purtroppo non aveva altri indizi. Poteva provare a indagare meglio parlando con Kat e capendo a chi aveva parlato di loro, doveva anche assicurarsi che Kat non dicesse niente a Maeve, altrimenti il suo rapporto professionale con lei ne avrebbe risentito.

Controlló il nome dell'email: “[email protected]

«Ma che cazzo significa…» sbraitò. Non significava nulla. Era palesemente un’inidirizzo di posta elettronica creato solo per minacciarla, ma perché non creare un email con dei numeri e delle lettere a caso? Perché scegliere un nome così ridicolo e stupido? Sembrava inventato da dei bambini, Dayana non aveva quella creatività, non poteva essere lei… oppure era proprio lei, talmente geniale da scegliere un nome stupido per non farsi scoprire! Oppure era stata davvero Violet, lei era abbastanza stupida da inventare una cosa del genere. 

«Questa situazione non ha né capo, né coda…» sospirò stufa. 

«Cosa faccio, rispondo? Cosa rispondo? Tipo: “Brutta stronza so chi sei vengo a darti fuoco“? Beh, non sarebbe una cattiva idea… ma potrei farla arrabbiare, chiunque lei sia, e spingerla a dirlo davvero a Kat… no, no. Non devo rispondere. O rispondo solo “va bene”. Almeno mi prendo del tempo e posso vedere se davvero può vedermi e sapere se sto frequentando Kat…

Ma che cazzo ne so io? Non rispondo nulla. Mi prendo del tempo per pensarci, cazzo», sospirò e sorseggiò l'ultimo bicchiere di vino rimasto in tutta casa, che l'aveva pazientemente aspettata appoggiato sul tavolino.

«Questo è l'ultimo cazzo, guai a te… e ora hai solo una cosa da fare: scoprire chi cazzo è quel figlio di puttana» svuotò tutto d’un sorso e aprì i messaggi del porprio telefono cellulare.

Aprì la chat di Erika.

“Mi dispiace molto per come mi sono comportata con te. Sono stata crudele. Spero tu possa perdonarmi davvero… sto passando un brutto periodo, non te l'ho mai detto ma in passato ho avuto seri problemi di alcolismo… Non ricordo cosa ho fatto o detto, ma so di essermi comportata male. Spero davvero tu possa accettare le mie scuse. L'ultima cosa che voglio è avere brutti rapporti con una collega a lavoro. Vorrei offrirti un caffè per farmi perdonare. Se ti va…”

Inviò il messaggio con una smorfia soddisfatta sul volto: era un messaggio perfetto. 

Sapeva che Erika non avrebbe resistito a ricevere delle scuse, e che avrebbe subito empatizzato con i suoi problemi, lo faceva sempre… voleva credere che in qualche modo Jade fosse vittima di se stessa, in fondo non voleva credere che non l'avesse mai amata, in fondo aveva bisogno di pensare che qualcosa di bello e vero tra loro ci fosse stato, avrebbe creduto con piacere che fosse colpa dell'alcol, della depressione, del suo cuore spezzato, perché aveva disperatamente bisogno di sapere di non essere lei il problema, di non essere lei a non essere amabile. 

Aprì la chat con Dayana. Si fermò immediatamente, le pizzicava la gola e batteva il cuore. Ripensare a come lei e Dayana si erano lasciate la faceva sentire vulnerabile come mai si era sentita in vita propria. Odiava quella sensazione e avrebbe voluto evitarla in eterno, ma era finito il tempo per essere patetica e codarda, doveva riprendere il controllo della situazione. Immaginò Dayana che dopo averle mandato quella email stava proprio aspettando il suo ritorno, quel pensiero le fece venire ancora più voglia di non contattarla, ma sapeva che doveva farlo. Anche se Dayana era difficile da decifrare, l'avrebbe messa alla prova, avrebbe letto i segnali.

“Dimmi quando e vengo da te. Dobbiamo parlare”


*

«Tua madre cucina da Dio…» Kat si spaparanzó sul letto della sua amica stiracchiandosi e lasciando andare uno sbadiglio. Fuori dalla finestra la sera stava macchiando il cielo d'un blu scuro.

«Mia madre? Vorrai dire mio padre. È lui il cuoco ahah è una sua passione», le rispose Charlotte chiudendo la porta e spingendo le ruote per accomodarsi di fronte a Katherine. Era da tanto che non la vedeva, le era mancata. 

«Dai su su raccontami Kat!» insistette la ragazza. Con pochissimo preavviso Kat le aveva scritto che era successo qualcosa di assurdo e che aveva bisogno di aggiornarla. Così aveva pregato i suoi genitori di invitarla a cena, non le aveva ancora detto nulla, però percepiva ci fosse qualcosa di nuovo nella sua amica. Era diversa…

«È stato assurdo Charl…» si tirò su per guardarla negli occhi e una smorfia incredula ma allegra le decorò il volto. 

«Eh… quindi?» la invito a proseguire.

«No ti giuro, è stato davvero pazzesco, cioè assurdo, forse il termine più corretto sarebbe stato traumatico. Sì, ma è andata bene alla fine!» rifletté ad alta voce.

«AAAAAH MA LA SMETTI DI TENERMI SULLE SPINE PARLAAAA KAT PARLAAA!» esplose Charlotte prendendo il cuscino ed iniziando a colpirla.

«COME FACCIO SE MI PRENDI A CUSCINATE, SMETTILAAA!» le urlò indietro ridendo.

«Okay parlo, parlo! Umh, grazie» le prese il cuscino dalle mani e lo rimise sul letto.

«Allora… non so davvero come dirtelo…» Charl la guardò malissimo.

«KAT. KAT VAI AL PUNTO» le disse minacciosa.

Charlotte la metteva sempre di buon umore, quando era con lei si sentiva un po' più vicina alla Kat del passato, sentiva di avere il permesso di comportarsi in modo buffo e infantile, sentiva di avere la libertà di giocare. Forse era perché Charlotte era un'amica molto premurosa e matura, ma allo stesso tempo leggera e capace di scherzare.

Non sapeva come dirglielo, era tutto così grave e assurdo che temeva di non avere le parole per farlo. Si sentiva quasi in imbarazzo a raccontarle quella storia. Si sentiva come se non fosse la sua storia, come se fosse successo a qualcun'altra.

«Okay, lo dico e basta. In pratica… Matt mi ha aggredita, mi stava per uccidere, penso, e poi gli ho tirato un calcio fortissimo nei coglioni… ahah godo, emh, e poi è arrivato Jack così dal nulla, e mi ha tipo letteralmente salvata! E poi ha menato quel coglione di Matt e, non lo so, tipo ho tirato un cazzotto in piena faccia a quello stronzo. E ti giuro, ti giuro è stato il momento più bello della mia vita. Non vorrei, ma è così. E tipo lo abbiamo picchiato e siamo scappati via. E poi Jack mi ha abbracciato e siamo tornati amici e ha pianto dicendo che era preoccupato per me. In realtà poi ho pianto un sacco anche io per tutto. Per lo spavento e perché cazzo non ci posso credere che è finita, sono libera, e poi sono così felice che Jack sia tornato nella mia vita. E insomma alla fine mi ha rivelato di avere un disturbo mentale, e che è stato per questo che si era allontanato e comportato da stronzo. E questo disturbo è tipo, che ha altre personalità, o qualcosa del genere. Mentre venivo da te mi ha accompagnato e ha detto che si chiama tipo disturbo dissociativo di qualcosa, non mi ricordo, ma tu sai tutto di psicologia quindi volevo chiedere a te…» scaricò quel fiume di informazioni scioccanti sulla sua amica che rimase sconvolta e confusa. 

Katherine parlava con leggerezza, come se stesse parlando della trama di un film o di un romanzo drammatico, come se quelle cose non fossero successe a lei qualche ora prima.

«Ma che cazzo… aspetta, aspetta Kat, ma che vuol dire che ti stava per uccidere? Ma è gravissimo! E, e in che senso lo avete picchiato? Ma è successo a scuola? Vi hanno visto? No, Kat ma che cazzo, no. Devi spiegarmi tutto bene dall'inizio, ma è grave!» si preoccupò immediatamente per lei. Non giudicò il suo modo di raccontare la propria storia, doveva essere difficile. Per quanto fosse curiosa e morisse dalla voglia di sapere ogni cosa, sapeva che l'unica cosa che importava fosse il benessere della sua amica.

«Tu come stai? Stai bene?»

«Jack ha usato il suo correttore per coprirmi i lividi sul collo, ma quanto è gay portarsi sempre dietro il correttore?» commentó con nonchalance.

«Ma chissà forse lo usa per i succhiotti che gli fa il suo tipo…» sdrammatizzó Kat cambiando discorso. Sentiva di aver bisogno di sfogarsi e parlarne con Charlotte, ma allo stesso tempo aveva pianto così tanto ed era così stanca che non voleva ricordare di nuovo quel momento orribile. Voleva parlarne, ma non riusciva a farlo seriamente. 

Charlotte le prese la mano e la guardò senza dire nulla, l'amica rimase sconvolta da quel gesto. Come se quel solo gesto così semplice avesse fatto breccia nel suo cuore.

Lasciò andare il sorriso che si sforzava di avere per mascherare la fatica.

«Ho avuto davvero paura, sai?» ammise in un bisbiglio, scappando dal suo sguardo per l'imbarazzo. La nuova Kat si vergognava tanto di farsi vedere fragile.

«Vieni qui, siediti in braccio che ho bisogno di abbracciarti forte…» la invitò Charlotte, la rossa si sedette sulle sue ginocchia e anche se in una posizione un po' scomoda la abbracciò. Le mani di Charlotte sulla sua schiena la cinsero e tutti i suoi muscoli si rilassarono.

«Ti voglio bene» mormorò Katherine.

«Anche io. Tanto» 













Spazio autrice

Scusate il ritardo e buone feste a tutti🫶🏻
Secondo voi chi è stato a mandare l'email a Jade?
Commentate e fatemi sapere cosa vi è piaciuto o meno di questo capitolo 💜
Spero stiate tutti bene <3

Al prossimo capitolo❤️

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