Capitolo 34
Katherine era sparita. Jade provò a parlare, ma la sua voce uscì spezzata dal sonno. Tossì per schiarirla. Le faceva male. Un altro colpo di tosse le smosse le viscere. Bruciava.
«Kat!» gridò piano verso il bagno.
Nessuna risposta.
«Katherine! Ci sei?» urlò più forte contro la porta che dava sul corridoio. Il silenzio le rispose angosciandola. Di fretta si alzò, rischiando di precipitare. Pressione bassa, tensione alta. Si appoggiò allo stipite della porta guardando in lontananza il salotto vuoto.
«Kaaaat!» urlò più forte, ma nulla.
Perché se n'era andata? Se n'era andata? Dalla casa? Forse era in cucina? In bagno? No, avrebbe risposto in tal caso. L'avrebbe sentita. Era salita al secondo piano? Era nelle sue stanze? Per questo non poteva sentirla? Era andata a farsi i cavoli suoi. Doveva essere così. Salì le scale ma la porta dei corridoi era chiusa a chiave da fuori, quindi non poteva essere dentro. L'angoscia le morse i nervi mettendole agitazione. Corse al piano terra.
«Katherine! Ci sei?!»
Il silenzio, ancora.
Se n'era andata? Perché? Aveva forse ricordato? Aveva scoperto fosse colpa sua?
Tornò precipitosa in camera da letto, alla ricerca del proprio cellulare, ma nulla. Non lo trovava. Non ricordava dove lo avesse lasciato. Disfò il letto e gettò a terra le lenzuola senza alcun risultato. Sentì freddo, sentì il vento freddo colpirla. L'aria le accarezzò il volto dolcemente, pungendola. Perché sentiva il vento se le finestre erano chiuse? Si girò verso la portafinestra; era aperta. Capì.
Katherine doveva essere andata in giardino. Tutto qui. Non se n'era andata. Si era solo svegliata e aveva deciso di esplorare di fuori per prendere aria. Doveva essere così. La sua Katherine era abbastanza premurosa da lasciarla riposare e senza svegliarla trovare un modo per intrattenersi da sola. L'avrebbe trovata seduta all'ombra di qualche albero, forse l'avrebbe trovata alla serra, o forse intenta ad osservare affascinata le sue statue e sculture, veri e propri pezzi d'arte.
Sospirò sollevata.
Si affacciò fuori, l'aria era tiepida. Appoggiò i piedi scalzi sul prato. I ciuffi d'erba a solleticare tra le dita. L'avrebbe trovata lì. Ne era sicura.
Se lo ripeteva per calmarsi, ma un orribile presentimento la asfissiò. Mosse passi calmi verso il vialetto, come se affrettandosi avrebbe allertato la realtà e reso il suo brutto presentimento concreto.
«Kat!» chiamò, senza urlare, cercando di tenere i nervi calmi. Seguì il vialetto, osservò ogni statua. Osservò le ninfe di roccia, gli angeli, le donne di pietra nuda, qualsiasi forma potente, dolce e femminile che si potesse immaginare e scolpire su marmo, ma non trovò la fanciulla di carne che stava cercando.
Presto però la cattiva sensazione si tramutò in paranoia, Jade percepiva lo sguardo di qualcuno, lo sentiva puntato sulla schiena. Come se tra le statue ce ne fosse stata una fin troppo viva. Come se tra i fiori, tra gli arbusti e i rami qualcuno o qualcosa la stesse minuziosamente osservando.
«Kat!» urlò più forte, la sua voce si incrinò di angoscia, la quiete la fece rimbombare. Angoscia tornò alle sue orecchie. Dov'era Kat? Forse più avanti. Forse alla serra.
Camminò svelta sui ciottoli duri sotto i suoi talloni, pizzicata dal forte desiderio di voltarsi indietro, di cercare chi la stava guardando, chi la stava seguendo. Terrorizzata dall'idea che i mostri delle sue ansie fossero più che reali.
Ghignò nervosa, provando a sdrammatizzare.
«Katherine! Giuro che se mi stai facendo uno scherzo io…» arrivò alla serra.
Si lanciò sulla maniglia ma questa non si aprì. Era chiusa. Valentine non era nemmeno lì.
Sentendosi osservata, sentendo di dover fare qualcosa, di dover recitare una parte osservò dentro dalle vetrate della porta, nessuna Kat.
Poi un'ombra, una sagoma, dietro alla serra di vetro. Sfocata dalle vetrate, dall'altro lato della struttura. Proprio di fronte a lei, come la sua ombra.
Un brivido.
Sbatté le palpebre.
Nessun'ombra.
La sua razionalità corse in suo aiuto.
Aveva bevuto troppo, l'alcol era ancora in circolo, aveva esagerato di nuovo. Non era la prima volta che le capitava, che vedeva ombre e sentiva ansia. Che delirava convinta di essere seguita, di essere perseguitata. Da chi poi? Forse dal fantasma di qualche alunna che dopo di lei si era suicidata senza che lo sapesse. Forse per quello non aveva mai voluto cercare qualche sua ex alunna, nemmeno per curiosità. Forse in fondo tutta quella questione non era una novità. Forse c'era un cimitero di studentesse alle sue spalle, senza che lei ne sapesse nulla.
A meno che non avesse visto Katherine, forse davvero voleva farle uno scherzo, dalla nuova Kat si aspettava di tutto. Ormai non sapeva più decifrarla. Armandosi di coraggio fece il giro delle pareti. Sul retro nessuna Kat e nessun fantasma. Doveva proprio essere l'alcol. Si stava bruciando il cervello. Non poteva continuare così. Doveva finirla o sarebbe diventata psicotica prima o poi.
Da lì in poi, il sentiero si addentrava nel suo boschetto personale. A Katherine piacevano i fantasy, aveva senso fosse andata lì. Forse l'avrebbe trovata sui suoi sentieri a cercare animali selvatici, o ad osservare qualche scoiattolo o uccello selvatico. Appena si addentrò nel bosco, questo si fece cupo sotto ai suoi passi. Era una di quelle giornate in cui la foresta non la voleva lì. Era una di quelle giornate dove gli arbusti le proiettavano le sue paure indietro, dove madre natura si inclinava facendola sentire minacciata. Forse per quello dopo Adeline aveva iniziato ad andarci sempre meno. Adel amava quel posto, amava la natura, si muoveva tutt'uno con la selva come se avesse piantato albero per albero, come se fosse nata prima e ne fosse madre e figlia. Una morsa al cuore. Le girò la testa. Un ago le punse la pianta del piede facendola trasalire. Era meglio non pensare ad Adeline, era meglio non sovraccaricarsi di altri pesi, di altra disperazione.
Ogni passo risuonava nel silenzio pesante, interrotto solo dal sordo fruscio delle foglie sotto la sua andatura. Non c'era traccia di creature selvatiche, solo un'atmosfera di quiete opprimente che avvolgeva l'intera selva. L'aria era impregnata di un odore terroso e di muschio umido, mentre il chiarore grigio del cielo filtrava appena attraverso i rami. Le fronde degli alberi formavano un intrico impenetrabile, spezzando la luce del sole in frammenti pallidi che punteggiavano il terreno coperto da un tappeto di foglie secche e rametti spezzati.
Non era un ottima idea proseguire scalza, ma ormai faceva più fatica a tornare indietro che ad andare avanti.
«Katherine!» urlò. Le rispose uno scoiattolo e lo scricchiolio delle foglie. Sussultò girandosi. Le parve un ombra. La sua immaginazione. Avrebbe percorso il sentiero. Di fretta. Fino alla fine dello stesso, fino al cancello sul retro, dove finiva la recinzione. Se Katherine non fosse stata lì allora si sbagliava, allora doveva trovarsi nel giardino di fronte alla casa, o se n'era andata davvero. Avrebbe trovato il cellulare e l'avrebbe chiamata. Non poteva essere sparita e comunque doveva stare tranquilla. Stava solo catastrofizzando la situazione. Andava tutto bene.
Fece altri passi doloranti, li allungò rendendoli veloci per non soffrirli troppo.
«Katherine! Kat!» proseguì.
Gli alberi la osservavano, gli animali sotto le sue urla si erano fatti silenziosi. Le foglie cadevano scricchiolando, dandole la pelle d'oca. Ogni foglia poteva essere il passo di un ombra che la stava raggiungendo. Accellerò il proprio.
«Katherine!»
Ogni foglia che precipitava al suolo con frastuono poteva essere l'accusa del bosco che conosceva le sue colpe. Morsa al cuore e senso di colpa. Accelerò il passo e la caduta delle foglie con lei.
«Kat!»
Orbite che la vedevano, la osservavano e seguivano. Dappertutto e nessuna parte. Ombre nere e oscure nascoste nella sua, dietro agli alberi, sui rami, che le mordevano i talloni insieme ai ricci caduti delle castagne. Uno le punse il tallone saltò in avanti dolorante, sicura di star sanguinando. Non si corre nei boschi, era una regola che conosceva bene. Eppure le sue gambe presero ad agitarsi e farla scivolare sul terriccio inclinato, i fasci d'erba a schiaffeggiarla, i rovi a graffiarle.
«Cazzo, Kat dove sei?!»
Nessuna risposta.
Arrivò alla fine del sentiero. Affaticata ed ansimante. Gridò con tutta la forza che aveva nei polmoni. Esausta si appoggiò di schiena al cancello per riprendere fiato, affrontando il sentiero vuoto alle sue spalle.
Un lamento metallico ed arrugginito le fece riprendere l'equilibrio. Il cancello era aperto.
Katherine era uscita. Era uscita nel bosco vero.
Aprì il cancello osservando il sentiero. Il sole era uscito dalle nuvole, gli alberi lì fuori erano ben più alti, la luce filtrava a fasci. Fece un respiro profondo. Calmo.
«Katherine!» urlò senza pretese.
«Jade!» sentire la sua risposta la riempì di gioia.
«Kat! Ma che cazzo ci fai qui!» si diresse verso la sua voce nella foresta.
«Scusa! Scusami davvero! Dormivi così bene. Volevo solo esplorare e… Jade io amo i boschi! Qui è magico. C'è un fiume! Un fiume nel bosco! Sembra di essere in un fantasy!» le urlò di risposta dal fondo.
West rise, rise di gusto perché se lo aspettava. Perché la trovò tenera, e bastò quello per far sparire la sua rabbia e preoccupazione.
«Lo so! Volevo portartici. Sapevo ti sarebbe piaciuto. Arrivo!» le gridò stando attenta a dove muoveva i propri passi.
«Eccomi», le andò incontro.
Katherine stava coi piedi tra le alghe scivolose, si era tolta i pantaloni. Fece qualche passo e l'acqua le arrivò alle cosce.
«Posso farci il bagno vero? Sai al lago lo faccio, non cambia molto poi»
West si innervosì. Inghiottì la saliva. C'era qualcosa che non andava nel torrente, una brutta sensazione che aveva già provato prima le tendeva i muscoli, ma non ricordava quando.
Non era nella sua migliore forma. Le sue paranoie le imprimevano nelle iridi mille modi in cui quel momento fantastico sarebbe potuto diventare catastrofico. Improvvisamente iniziò ad aver paura della natura intorno a sé, delle vipere, delle bisce, dei lupi, delle piante velenose, delle sanguisughe, dei pesci, degli insetti, dei batteri mortali.
«No Kat. Dai esci. Torniamo a casa», non voleva notasse la sua preoccupazione, la nascose dietro un sorriso storpio, forzato. Le si avvicinò mettendo un piede nel ruscello e porgendole la mano.
Kat le schizzò delle gocce ridendo.
«Perchè? Si sta bene qui. Guarda che so nuotare bene»
«Non è questo è che…» non lo avrebbe mai ammesso, non le avrebbe mai parlato delle ombre, delle paranoie, delle sue fragilità, di quella terribile sensazione che la stava opprimendo.
«Voglio solo che torniamo a casa», insistette alzandosi i pantaloni alle cosce, facendo altri passi in acqua come se fosse stata veleno. Allungò la mano verso la rossa facendola ridere. Non capiva la repulsione di Jade per l'acqua, ma vedendola tanto seria decise di assecondarla.
«Va bene esco. Va bene. Ma non è che Jade West non sa nuotare? Sembra tu abbia paura del fiume», Kat senza il peso dei vestiti la superò in un lampo. I suoi passi erano leggeri, al contrario di quelli doloranti di Jade che sotto il suo peso la premevano sulle rocce del fondale.
«Io SO nuotare. Non ho paura», urlò di risposta. Il nervosismo le uscì tra i denti, un po' troppo per far sembrare quella bugia una verità. Kat lo notò, si fece sfuggire un sorriso intenerito, un poco malizioso.
«Va bene, va bene. Sai nuotare, tranquilla. Ci credo…» non ci credeva. La stava prendendo in giro? Jade odiò sentire l'accondiscenza nel suo tono. Katherine non sapeva mentire, né nascondere le proprie emozioni.
«Sono Jade Elizabeth West, ti pare che io possa non saper nuotare? Io non ho paura di niente. Tanto meno di questo stupido fiume», era offesa un po' con Kat, di più con il ruscello e con quella sensazione di paura irrazionale dentro di sé, con la sua mancanza di controllo su se stessa e sulle proprie emozioni.
«Ma sì, ovvio lo so. Sei Jade Elizabeth West. Certo che non hai paura… scommetto che oltre a saper nuotare sai pure aprire le acque come Mosè», Kat rise dolcemente, mentre si rivestiva sulla riva, percependo con leggerezza e divertimento quella situazione.
West sentì una rabbia feroce riempirle il petto, il suo orgoglio stava venendo insultato da quella ragazzina. Non avrebbe permesso a Kat di deriderla, di poter pensare che fosse spaventata o debole. Poteva avere il caratterino sfacciato che voleva, ma umiliarla no. L'aveva già vista in uno stato pietoso, non sarebbe pure passata per codarda. Non poteva sopportare l'idea che Katherine la considerasse fragile e spaventata, che la nuova Valentine tanto apatica e distaccata si potesse pensare più stabile e forte di lei. Anche se l'aveva vista in dopo sbronza, non significava niente, e di certo non le avrebbe lasciato credere di aver paura di nuotare, perché così non era.
«Guarda come si nuota, bimba. Ti insegno io», tornando a riva West si tolse i pantaloni e la maglietta lanciandoli tra le mani di Kat. Rimase a petto nudo consapevole del proprio potere seduttivo. Lasciandosi guardare dalla rossa fece qualche passo verso le acque profonde. Le onde la solleticavano guadagnando centimetri di pelle ad ogni passo. Pelle d'oca e angoscia. West si immerse nelle acque gelide e cristalline. I brividi la aggredirono. Doveva essere piacevole, ma strinse le labbra per resistere al freddo. Il flusso la inghiottì fino al collo, venne trapassata da una scheggia di ghiaccio lungo la spina dorsale. Tremò. Quella singola sensazione aveva il sapore dell'inverno intero. Katherine la guardava dalla riva. Mosse le braccia nell'acqua, ci si spostò dentro percependola densa, pesante sulla pelle. Sbatté gli arti per stare a galla. Battè i denti. Odore di umidità nelle narici.
Qualcosa non andava. Il suo cervello lo stava urlando, ma non riusciva a capire. Sentì il proprio cuore scagliarsi all'impazzata, battè tanto in fretta da arrampicarsi su per la sua gola, da battere il tempo con lo scontrarsi dei suoi denti. Qualcosa non andava.
La corrente era vivace, la spostava, la girava; mosse le gambe per raddrizzarsi verso la riva.
Per rimanere ferma allo stesso punto.
Qualcosa sul fondale le sfiorò il piede; un'alga, un pesce o un fantasma. Trasalì.
Batté i denti più forte, colpi acuti nel suo costato. Era tutto terribilmente sbagliato, ma non sapeva, non ricordava cosa.
Gli alberi attorno a lei, dalla riva, la giudicavano, il popolo nascosto del fiume gorgogliava tutte le colpe del suo cuore. Voleva andare via. Subito.
«Kat, ora torniamo a casa», scalció galleggiando verso di lei.
Qualcosa la toccò di nuovo alla caviglia.
Urlò terrorizzata, scalciando e scattando in avanti.
«Jade!» gridò Valentine allarmata facendo un passo verso di lei.
L'acqua si fece impetuosa, minacciosa. Il torrente urlava, scrosciava, zampillava, un linguaggio che non poteva tradurre, ma che poteva sentire.
«Kat! Arrivo! C'è qualcosa in acqua», dopo averlo detto ad alta voce sbiancò. Realizzando il pericolo. Qualcosa la toccò con più insistenza alla gamba pizzicandola. Presa dal panico iniziò a scalciare ed agitarsi girando a vuoto.
«Jade! Jade! Cosa sta succedendo? Esci! Esci subito!» urlò Katherine mentre il terrore riempiva il suo volto.
La presa, prima inconsistente, si fece concreta, vivida, qualcosa la toccò, una morsa si strinse aggressivamente alla sua caviglia, si premette contro la sua carne. Aprì la bocca per urlare e scalció più forte che poté, ma prima che dalla sua gola potesse uscire alcun suono, l'acqua si chiuse sopra la sua testa mentre veniva trascinata a fondo. Era la sua fine: sarebbe affogata, o morta di paura.
Immersa sotto la superficie il fondale sembrava più in profondità di quanto potesse immaginare. Il suo istinto di sopravvivenza si accese impetuoso, con tutta la forza che aveva in corpo iniziò a scalciare e contorcersi contro la cosa che l'aveva morsa. Riuscì a liberarsi, i polmoni la supplicavano per aria, il suo animo piagnucolò gettandola in superficie. Aprì la bocca più che potè mentre inghiottiva ossigeno a bocconi. Si stropicciò il volto, non vedeva più Kat, aveva perso l'orientamento, le gocce oscillavano sulle sue ciglia, le sfocavano la vista. Quale riva stava guardando? Dov'era la riva? Cos'era quella cosa? Dov'era? Dove doveva scappare? Nuotò disperatamente, lontano dal pericolo, verso la direzione che almeno pensava fosse giusta.
«Kat!?» singhiozzò tossendo acqua. Doveva scappare alla riva. La corrente si fece intensa, doveva prenderla a calci per non farsi trascinare, per resisterle. Le onde la investivano, come fossero lacrime perse alla ricerca della propria fonte. Il vento le appiccicò i capelli agli occhi e le colpì le orecchie congelandola. Tremò.
Loro sapevano; la natura tutta, la brezza, la terra, l'acqua. I corvi sui rami gracchiavano deridendola del suo patetico essere umana. Il sole si coprì dietro alle nuvole lasciandola sola. C'era qualcosa di solenne in quel momento e per questo di terribilmente spaventoso.
Denti o unghie contro la sua pelle, strette alla sua caviglia, e di nuovo il mondo si fece buio, soffocante e silenzioso. Precipitò a fondo. Scalció. Aprì gli occhi. La forza con cui veniva trascinata a fondo la faceva accarezzare dalle correnti che si liberavano verso l'alto, lasciandola sprofondare. Tirò calci ma nulla, si piegò in due, precipitandosi al proprio tallone, menando pugni e graffi. Aprì gli occhi e la vide, e la sentì: cinque dita, una mano umana stretta alla sua caviglia. Urlò bolle terrorizzata.
La presa la lasciò andare e come se il suo corpo fosse stato un palloncino d'aria tornò a galla inspirando a pieni polmoni.
Era il giorno del suo giudizio.
Il fiume la battezzò, ma si tinse delle sue colpe, la battezzò colpevole, carnefice, dannata, peccatrice. Le acque si tinsero di rosso, rosso sangue.
«No, no ti prego!» urlò in lacrime al mondo.
Il mondo tacque. Tutto. Anche le correnti si zittirono.
Poi riprese a scorrere, quando la melodia di un violino tagliò l'aria, più impetuosa delle correnti, più vivida del ticchettio del tempo. West si girò verso di lei, nuotò furiosamente e la vide: Adeline sull'altra riva che suonava, suonava rabbia, abbandono, trauma. Che suonava ad occhi chiusi, che oscillava in trance, come se senza i suoi movimenti la realtà avrebbe potuto smettere di esistere.
Il cuore di Jade esplose insieme alla musica, insieme alle lacrime, insieme al dolore, alla folata del vento, al fischio degli alberi. Pianse. Pianse davvero come mai aveva fatto prima.
«Adaline!» urlò a squarciagola nuotando verso di lei. Non la sentiva, non la vedeva. Danzava sulle proprie note pesanti, veloci, cupe. Agitava l'archetto inconsapevole di lacerarle il cuore ad ogni arcata.
«Ti prego! Ti prego Adeline! Guardami! Ti prego! Guardami!» singhiozzò, ma Adel teneva le palpebre chiuse. Non la vedeva. L'avrebbe raggiunta, doveva, o sarebbe morta provandoci. Disperata le nuotò incontro, ma lo spirito non voleva concedergliela, prese a spingerle contro con tutte le proprie acque, dando fuoco ai suoi muscoli. Rispondeva alla musica, le onde danzavano sulla musica, obbediva alla musica. Il mondo intero si piegava, si allungava, si scuoteva sotto al tocco delle note. Il suo stesso cuore palpitava per quella musica. Con tutte le proprie forze riuscì nello sforzo, lentamente si mosse, Adeline sempre più vicina, suonava con sempre più ardore, facendole più male.
«Adeline! Adeline! Ti prego! Ascoltami! Sono qui! Sono io! Adeline! Ti prego! Non lasciarmi. Ti prego non lasciarmi sola», scoppiò in si singhiozzi, ma la sua salvezza non la sentiva, non la ascoltava. Il fiume gorgogliava melodia, l'aria fischiava quella melodia, le fronde frusciavano quella stessa melodia e il violino era solo la scintilla di un mondo che le pioveva nelle orecchie e le dilaniava le cervella. Era tutto ciò che c'era al di fuori ad aggredirla, ed era tutto ciò che era al suo interno che rimbombava nello spazio, era qualsiasi emozione che avesse mai provato prima ed era nessuna di esse. Era troppo, ma con Adeline irraggiungibile era ancora troppo poco, era ancora niente.
Il ruscello era fatto delle sue lacrime e più ne piangeva più la marea saliva, più la corrente danzava sotto il suo corpo.
«TI PREGO. ADELINE. TI SCONGIURO. GUARDAMI. SONO QUI. SONO QUI!» urlò con tutta l'aria che le era rimasta in corpo.
Silenzio brusco. Graffiante.
L'archetto alto in aria. Il fiume immobile, statico. L'aria inesistente. Gli occhi di Adeline aperti.
Fermi nei suoi.
Lacrime infinite. Brividi nonostante il torrente fosse caldo, sangue caldo.
«Non sei qui, Liz. Tu sei morta»
Spazio scrittrice
Mi è tornata l'ispirazione, ho finito di scrivere questo capitolo una sera a l'una di notte mentre singhiozzavo come Jade.
Penso non ci sia altro da aggiungere.
Sognavo di scrivere questo capitolo da anni, da DT1, non vedevo l'ora di estrapolarlo dalla mia fantasia e renderlo reale e devo dire che ho raggiunto le mie aspettative. Questo rimarrà sicuramente tra i miei capitoli preferiti, spero abbia emozionato altrettanto anche voi❤️
Se vi va, fatemi sapere che ne pensate nei commenti.
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