Capitolo 30
Katherine si alzò in piedi quando una signora di mezza età pronunciò il suo nome. Aveva un sorriso gentile e rassicurante, i capelli castani mossi fino alle spalle. Assomigliava a una madre, una di quelle premurose e calorose che gli altri avevano e che lei non aveva mai avuto. Notò la fede al dito e immaginò che fosse davvero madre. Katherine si accomodò sulla sedia dello studio, che seppur asettico e piccolo, era confortevole. Due finestre permettevano alla luce di penetrare, anche se sul davanzale c'erano delle piante probabilmente finte.
«Buongiorno Katherine, giusto?» Kat annuì rimanendo silenziosa, osservando l'ambiente circostante.
«Io sono la dottoressa Paola Niboldri», si presentò, spiegandole successivamente il processo della terapia e tutto ciò che era incluso nel contratto tra paziente e psicologo che doveva firmare. Quando finirono le formalità, Valentine si irrigidì sulla sedia.
«Allora, come sta?», la guardò negli occhi mentre Kat vagava con lo sguardo. A prima vista, le piaceva: sembrava davvero interessata a lei, le sue maniere erano delicate e autentiche.
«Ecco... in realtà non provo nulla», ammise.
«Da quando ho tentato il suicidio, non provo più molto...», affermò come se stesse parlando del più e del meno. L'espressione sul volto della sua psicologa si fece seria e due lievi solchi tra le sopracciglia mostrarono il suo dispiacere. Non erano eccessivi, non erano preoccupati e non la guardavano con orrore; erano dosati e sinceri, facendola sentire ascoltata.
«Come ti fa sentire il fatto di non provare più molte emozioni rispetto a prima?», le chiese gentilmente. Valentine apprezzò quella domanda, era una domanda che non la lasciava sola, che affrontava il problema insieme a lei, senza trattarlo con orrore o superficialità.
«Mi fa sentire... o meglio, non mi fa sentire, perché non provo nulla. Ma mi fa pensare, mi fa percepire le emozioni mentalmente... non so se ha senso», la terapeuta abbozzò un sorriso e annuì rassicurandola.
«A volte mi fa sentire spaventata, penso che... ho perso me stessa. Mi fa sentire claustrofobica, come se avessi perso per sempre qualcosa, come se non si potesse tornare indietro. Ho paura di non tornare mai più come prima, di rimanere per sempre nel vuoto assoluto. Ho paura che diventi soffocante... Altre volte penso solo di essere difettosa, e altre ancora penso che non mi importi, che sia meglio così perché prima ero solo debole», mentre pronunciava quelle parole ad alta voce, Kat sentì un brivido attraversarla, ma non capì perché.
Lo sguardo della donna la sostenne con attenzione, ma Valentine lo distolse, arrossendo. Si sentì vista e ascoltata da un adulto come mai le era successo prima.
«La tua paura è comprensibile», disse la psicologa.
«Possiamo darci del tu? Per favore», chiese pacatamente, sentendo la futilità di quelle formalità.
«Certo, se preferisci».
«Grazie. Sì, ho paura di essere rotta. È così, vero? Ho rovinato il mio cervello. Non ricordo nemmeno il perché. Non sono più me stessa. La vera Katherine non avrebbe mai avuto il coraggio di dirti tutto questo, probabilmente non avrebbe nemmeno aperto bocca per tutta la seduta. E invece ora sono qui e penso: a che importa? Tanto non provo nulla, che rischio corro? Sto parlando del mio tentato suicidio a una sconosciuta, senza offesa, e non mi tocca minimamente», parlare liberamente stava diventando piacevole, si sentiva ascoltata.
«Nessuna offesa, hai ragione, per ora sono una sconosciuta, ma lascia che ti rassicuri: il mio compito non è giudicarti, ma comprenderti e sostenerti. Sono qui per aiutarti a stare meglio», le sorrise.
«Allora dici che mi sono rovinata il cervello? Rimarrò così? Cosa devo fare?», chiese, affamata di risposte.
«Non posso dirti cosa fare, perché purtroppo non è così semplice, ma posso assicurarti che non sei difettosa. Abbi fiducia nel tuo cervello, so che suona strano...», il suo sorriso era una melodia calma e dolce.
«Ma il tuo cervello sta solo cercando di proteggerti. Questa apatia che provi ora, non è perché sei difettosa, è perché sei sana. Ci sono tante emozioni che il tuo inconscio cerca di elaborare e probabilmente se tu avessi la sensibilità per percepirle tutte, al momento sarebbero troppo intense», la terapeuta notando l'attenzione con cui la ragazzina la ascoltava desiderosa di spiegazioni, continuò.
«A volte pensiamo che il nostro cervello non funzioni e voglia rovinarci la vita, ma in realtà spesso i segnali che ci manda sono di protezione. Può capitare che commetta errori, si preoccupi nei momenti sbagliati, ci renda tristi, ma c'è sempre un motivo per cui ci sentiamo in un determinato modo, solo che non ne siamo consapevoli».
«Non ci avevo mai pensato. Che il mio cervello lo facesse per me. Pensavo che, dopo averlo odiato tanto, avesse iniziato anche lui a odiarmi. È una cosa sicura quindi? Posso fidarmi?», ridacchiò sdrammatizzando.
«Certo! Se ci rifletti, è una questione scientifica: gli esseri umani fanno parte del regno animale, e l'unica cosa che il nostro cervello desidera è farci sopravvivere. Tutto ciò che fa il nostro cervello è finalizzato alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Certamente, dopo eventi traumatici, può rimanere confuso e reagire con sensazioni di spegnimento, agitazione o flashback, ma sicuramente non lo fa perché ti odia. Al contrario, mi piace pensare che il nostro cervello ci ami e che, anche nelle situazioni più difficili, cerchi sempre di difenderci nel modo migliore possibile. A volte ha solo bisogno di un sostegno esterno».
«Quindi il mio cervello mi ama, mentre io sono qui a dargli la colpa? Che storia d'amore tragica», Kat guardò la sua terapeuta trattenendo una risata di buon umore.
«Si potrebbe dire così. E tu? Sei pronta a ricambiare?», scherzò insieme a lei.
*
Erika si morse nervosamente l'unghia dell'indice, si scrocchiò qualche dito e li massaggiò distrattamente con l'altra mano. Un groppo alla gola. Suonò il campanello con la dicitura "E.J. West" e l'attimo dopo il cancello della villa si aprì. Il cielo era schiarito dalla luce dep giorno, ben lontano dalla sera, ma West l'aveva chiamata chiedendole se potevano vedersi prima, se le andava di cenare da lei. Aveva esitato prima di accettare, ma quando Jase le aveva detto di non riuscire a pensare ad altro che alla loro discussione, il suo cuore era saltato in avanti. Così aveva chiamato la parrucchiera per chiedere di rimandare l'appuntamento. Sapeva che West non valeva un bel taglio di capelli. Sapeva che aveva rinunciato a prendersi cura di sé stessa, a "darci un taglio", per lasciarsi andare alla propria tossicità, ma ormai era troppo tardi per farsene un problema.
Si incamminò lungo il viale, ripercorrerlo le ricordó attimi passati, come se la sua ombra adolescente fosse rimasta lì, nascosta tra i ciottoli, nelle fessure, ad attendere il suo passo per avvolgerla e riunirsi a lei. Facendola sentire un po' più viva e un po' più suicida. Pochissimi cambiamenti impercettibili avevano segnato il passaggio del tempo in quel cortile verde e perfetto. Quando arrivò alla porta, non ebbe bisogno di suonare perché West la stava aspettando e la cosa la stupì. Forse era addirittura la prima volta che accadeva nella sua vita.
Elizabeth si era già bevuta un calice di vino rosso. Chiamare Violet era stata la soluzione più rapida, era giunta a quella conclusione solo dopo aver passato cinque minuti a guardare la chat con Dayana senza trovare il coraggio di chiamarla o scriverle. Stava male, si sentiva male. Si sentiva costantemente male. E vedere Katherine dimenticarsi così di lei, in fondo l'aveva fatta infuriare. In fondo, l'aveva ferita nell'orgoglio, l'aveva fatta sentire stupida e respinta... proprio come Dayana era riuscita a farla sentire. E forse il suo sadismo godeva all'idea di scoparsi Erika per punire Katherine. Non che glielo avrebbe mai detto, ma era certa che sfondare Erika da dietro pensando "Peggio per te Kat, saresti potuta essere tu" l'avrebbe fatta sentire almeno un po' meglio. Almeno prima di farla sentire una persona orribile, ma alla fine, una persona orribile era tutto ciò che era, quindi a che scopo ripudiarlo?
«Ciao Violet», la invitò ad entrare lasciandole due baci sulle guance. Bastava guardarla arrossire per capire che si sentiva agitata al suo cospetto ed era tutto ciò di cui la mora aveva bisogno.
«Accomodati pure sul divano», rise al pensiero di averci fatto sesso sopra nemmeno 24 ore prima.
Erika, confusa da tutto quel calore e quella gentilezza, rimase senza parole.
«Ciao... va bene, immagino», le porse un calice di vino. Erika lo accettò, ma subito dopo lo appoggiò sul tavolino basso, di fronte alla televisione. Non voleva bere, doveva rimanere lucida, anche se era certa che un sorso di rosso le avrebbe dato il coraggio mancante. C'era il profumo di West nell'aria, l'odore di casa sua era rimasto nei suoi ricordi, insieme a quello della sua pelle.
Erano sedute entrambe nel silenzio. West aveva l'acquolina e avrebbe detto e finto qualsiasi cosa pur di ottenere ciò che desiderava, ma sfortunatamente non le importava nulla di Violet. Era andata a rileggere i diari per prepararsi alle eventuali domande e con sua grande sorpresa aveva scoperto di non avere traccia di Violet nelle sue memorie scritte. Apparivano le scopate fatte al limite del sadomasochismo, c'erano tutti i dati del caso nel fascicolo e i dettagli della fine della relazione, ma nulla riguardo all'inizio. Ricordava i fatti, le uscite, ma non ricordava il vissuto emotivo legato agli eventi. Non ricordava come si sentiva in quel periodo, cosa provava per Violet e cosa l'avesse spinta ad usarla in maniera tanto crudele.
«Davvero hai pensato fino ad ora alla nostra conversazione?», spezzò il silenzio la rossa.
«Sì. Io... avevo bisogno di vederti e parlarne subito. Non riuscivo ad aspettare», disse ciò che sapeva voleva sentirsi dire.
«Anche io, in realtà. Da sempre, in realtà...» Erika si pentì di averlo ammesso subito dopo.
«Ma se fino a ieri non ti importava niente di me, perché adesso senti questa urgenza? Non ti capisco».
«Quello che hai detto... mi ha fatto riflettere sulla nostra storia», rimase vaga.
«Sai, a volte nemmeno io mi capisco.
Non avevo realizzato la gravità di tutto ciò. Prima che tu arrivassi, ho riguardato nella scatola dei ricordi… Eravamo giovani, inconsapevoli di ciò che stavamo facendo, ma ora sono qui, se vuoi confrontarti. Se vuoi sfogarti, avere chiarimenti, qualsiasi cosa, Violet.» West appoggiò la mano su quella della rossa e pronunciò quelle parole con una serietà tale da farle brillare gli occhi.
“Ma come ho fatto a ridurti così? Non sai nemmeno più chi diavolo sono e muori per una mia parola.”, si chiese, sorpresa da sé stessa, nutrendo il proprio ego sadico. Giocare a essere Dio, a essere un criminale, era il dolce segreto della sua esistenza.
«Davvero, West, se mi stai prendendo in giro io...» si asciugò gli occhi. Poi Erika decise che non le importava se lei stesse scherzando o meno, che aveva atteso quel momento per anni, che l'aveva immaginato miliardi di volte, e che l'unica cosa che desiderava era aprire bocca e liberare ogni frammento del proprio tormento.
«Va bene, allora ascoltami: quando ti ho conosciuto, ti odiavo. Ero forte, sicura di me, mi sentivo bella e potente, avevo il futuro davanti.
E invece sono finita trattata così... trattata talmente male... ma talmente male che ho iniziato ad odiarmi sempre di più. Non mi perdonerò mai per come mi sono lasciata trattare da te. Non riuscirò mai a perdonarmi per come mi sono lasciata maltrattare da te per amore.
E, comunque, non sono stata stupida. Non ero stupida, ero forte e consapevole. Non mi sono fidata di te senza conoscerti, non mi sono illusa da sola. E non mi sono distrutta per te solo perché era parte del mio carattere. Non ero così e tu lo sai. Ti ricordi.»
«È vero, me lo ricordo.»
Si ricordava di Erika in classe, dietro al banco con un sorriso saccente e la risposta sempre pronta. Coraggiosa e astuta, la migliore della classe. I primi mesi quella testa rossa l'aveva infastidita e stupita a tal punto da renderla stimabile. Sorprendentemente, Jade scoprì di ricordare più di quanto pensasse e forse capì che i ricordi erano lì dove li aveva lasciati, ma che ciò che le mancava era la volontà di trovarli.
«Sono finita in queste condizioni perché mi sono fidata di te. Tu mi hai portata a questo. Era la tua intenzione: usarmi. Almeno verso la fine, mentre all'inizio ti piacevo e forse provavi qualcosa simile all'amore per me.
Quando mi guardavi, i tuoi occhi erano completamente concentrati su di me... Eri orgogliosa di me, non so, si vedeva che mi trovavi bella quando mi guardavi in quel modo. Sembravi sinceramente innamorata...» osò Violet, ma West non disse altro perché in realtà non lo sapeva. Non voleva saperlo, si era promessa da tempo di dimenticare qualsiasi sentimento gentile che potesse assomigliare all'amore.
«Il nostro primo appuntamento, mi hai invitata a un convegno scientifico! Poi a una mostra d'arte, poi a teatro. E anche se sapevi che non avresti dovuto metterti in una situazione del genere con una tua studentessa, continuavi a invitarmi fuori. Non so quando il tuo interesse per me sia scattato, ma io ti desideravo e avevo deciso che ti avrei sedotta e conquistata...»
West fissava il vuoto, scioccata nel riscoprire i propri ricordi. I suoi ricordi erano come un puzzle incompleto, con alcuni pezzi fuori posto, ma c'erano tutti. Doveva solo metterli in ordine.
L'inizio era stato ingenuo e semplice, qualcosa che non avrebbe mai dovuto succedere, qualcosa che avrebbe potuto distruggere la sua, appena iniziata, carriera.
«Sì, è vero. Non volevo finire insieme a te. C'era una connessione tra noi, ma volevo che mi bastasse. Flirtare durante le lezioni e durante queste uscite avrebbe dovuto bastare. Volevo che fosse sufficiente, ma immagino che il gioco sia diventato troppo reale», prese un sorso del suo vino.
«Sì, esatto!» le prese la mano con enfasi. Non era pazza, era successo realmente. Ora anche Jade lo ricordava.
«Era incredibilmente eccitante e sapevamo entrambe che fosse proibito, ma eravamo quasi coetanee... eravamo due adolescenti...» West continuò la sua storia, fissando il vuoto.
Si toccò la fronte, visibilmente in difficoltà. Era evidente che qualcosa di reale fosse accaduto, altrimenti non avrebbe mai rischiato così tanto, ma l'idea di aver avuto realmente quei sentimenti le risultava intollerabile. Non lo trovava accettabile, era troppo vicino ad Adeline, sentiva il giudizio nella sua assenza. Preferiva credere di non aver mai desiderato Erika, di averla sempre e solo usata, ma quella bugia non reggeva.
«Sì, esatto! Poi la nostra relazione segreta è diventata sempre più seria: rimanevo da te a dormire, ci coccolavamo nel tuo letto.
Mi hai detto per la prima volta "ti amo"...
Il tempo passava e la nostra dipendenza reciproca cresceva: eravamo sempre più coinvolti in questi ruoli opposti. Io non potevo stare bene senza di te, ero completamente dipendente dalla tua volontà. E anche tu, anche se non potevi ammetterlo, avevi bisogno di me. Avevi bisogno di sentirti potente su di me. Avevi bisogno che io pregassi e mi sacrificassi per te.
Poi ho scoperto del fascicolo... e tu hai mostrato il peggio di te. Ti comportavi da perfetta fidanzata poi tutto a un tratto diventavi sadica; mi lasciavi per uno o due giorni e tornavi con i fiori. Tranne alla fine, dove mi hai abbandonata e basta senza spiegazioni. Mi hai ignorata ed evitata. Mi hai spezzato il mio cuore», precipitò di fretta verso il finale. Non voleva ricordare i dettagli della conclusione. Sarebbe stata disposta a pagare pur di dimenticare, solo accarezzare quel ricordo le provocava nausea per la disperazione provata.
«Credimi se ti dico che avrei solo voluto cancellarti dalla mia memoria, come forse hai fatto tu con me».
Erika si chiese quante altre donne, quante altre ragazze, quante studentesse... come lei. Si sentiva divorata da una curiosità morbosa: cosa aveva fatto Jade dopo di lei? Con chi altro? Quante altre? Che tipo di rapporto aveva avuto con loro? Come aveva fatto sesso con loro? Che sentimenti aveva provato? Che storie aveva intrecciato? Era stata la peggiore di tutte? La migliore? L'unica con cui aveva provato qualcosa di significativo? Era stata semplicemente dimenticata? Cancellata dai ricordi, svanita nel nulla?
La verità era che non si sentiva la protagonista della propria storia. Aveva l'impressione che tutto ciò che le potesse accadere non fosse veramente rilevante, non fosse vita a pieno titolo al di fuori del mondo di Jade West. Di fronte a lei si sentiva insignificante e curiosa di sapere come il suo film fosse proseguito senza di lei. Era come se la sua vera identità fosse rimasta intrappolata nei ricordi della sua ex. Sembrava che la sua intera esistenza ruotasse intorno a Jade, anche se non faceva più parte della sua vita.
West si ritrasse, evitando il contatto fisico a disagio, agitandosi sotto la corazza. Si versò un bicchiere di vino nel tentativo di rimanere calma e seria. Perché doveva sforzarsi di ricordare qualcosa che non le importava? Perché doveva fare tanto sforzo?
«Io non ricordo l'amore. Ricordo soltanto che avevo bisogno di te, così come tu avevi bisogno di me. Non eravamo dipendenti l'una dall'altra, ma ci siamo fatte indispensabili per combattere la solitudine reciproca. Per affrontare chissà quali complessi, chissà quali traumi infantili.
Così come tu amavi venire e farti dominare da me, io amavo farlo, Violet. Così come tu non potevi fare a meno di farti maltrattare ed umiliare, io non potevo fare a meno di umiliarti e distruggerti. Questo me lo ricordo benissimo.
Non ho mai fatto a nessun'altra ciò che ho fatto a te, come l'ho fatto a te. Nessuna mi ha reso tanto sadica tranne te.
Ti fa sentire meglio saperlo? Scommetto che è per questo che sei qui. Perché sei ancora la mia piccola pazza Violet, che vuole sentirsi speciale. La sei stata. Tutto ciò che ho avuto con te è stato altrettanto unico e malato per me, è stato terribilmente indimenticabile, ma fortunatamente irripetibile. Sei stata l'unica per cui ho provato un sadismo così patologico. Sei l'unica che conosce così bene il peggio di me. Sei felice? Ti senti speciale?»
La proprietaria di casa scoppiò a ridere e si versò da bere, bevendo tutto d'un fiato, lasciando cadere la testa all'indietro, ormai ubriaca. Non cercava punti d'incontro, non c'era spazio per l'amore, per i ricongiungimenti, per le emozioni. Anche se in qualche modo avesse provato un briciolo di amore per Violet, alla fine l'aveva solo distrutta. Quindi a che scopo ricordare qualcosa di tanto orribile?
Erika si sentì raggelare. Jade la guardò e sorrise, scoppiando a ridere e coprendo il viso tra le mani.
«Ti ricordi? Quanto ti facevo piangere per me? Come mi divertivo ad insultarti, a dirti che non valevi niente? A farti supplicare per un po' di attenzione? Che schifo che sono stata. Wow. Non mi sorprende, vero? Avanti, Violet! Cosa vuoi che ti dica? Cosa vuoi da me?
Chi pensi che io sia? La stessa persona di cinque, sette, dieci anni fa? Cosa devo dirti? Cosa ne so io. Cosa vuoi sentirmi dire? Che sono un mostro? Ma sai che sono stata un mostro, sai che lo sono ancora oggi».
Violet rimase pietrificata di fronte al suo sorriso malato. I suoi occhi si spalancarono senza parole. Le mancava l'aria.
«Cosa vuoi che ti dica, mh? Vuoi sapere se ti amavo? Ma cosa significa l'amore, Violet? Amavi il tuo ragazzo prima di lasciarlo per me? Mi amavi prima che ti distruggessi? E ora? Mi ami? Cos'è l'amore? Quello che ti fa stare bene, o quello che ti fa tanto male da volerne di più? Lo sai? No, non ne hai idea. Sei una malata mentale, cosa sai tu dell'amore? Conosci solo l'ossessione, come me.
No, non ti amavo. Sì, ti amavo.
Cosa cambierebbe saperlo? Nulla. Le cose sono andate così e ora sei qui».
Gli occhi di Erika si riempirono di lacrime e Jade ne fu grata, perché si annoiava, perché era stanca di subire in silenzio. Non era giusto che fosse sempre e solo responsabilità sua. Era il suo turno di pensare a se stessa, di sfogarsi, di incolpare gli altri. Si rifiutava di prendersi la colpa, non poteva essere tutta colpa sua. D'altronde era solo un essere umano e le cose si facevano sempre in due.
«È quello che volevi sentire? Ti basterà ancora una volta? Dio, non ti sembra patetico farti trattare così anche alla tua età? Cosa vuoi da me, Violet?
Dolcezza? Scuse? Rispetto? Non ci saranno scuse per qualcosa che, alla fine, ti è piaciuto e che ancora cerchi. E di certo non ci sarà rispetto, figuriamoci dolcezza. Erika, quando ti guardo, vedo una puttana da scopare. Non vedo nulla che meriti rispetto. Lo so, so che sei una persona con la tua vita e altre stronzate. Non è colpa tua, non puoi farci niente, ma io ti vedrò sempre così. Così come tu mi vedrai sempre come la tua aguzzina, qualcuno da compiacere o da cui essere terrorizzata. Quando ti guardo, vedo la tua paura, la tua disperazione, e cresce in me un desiderio violento di farti a pezzi. Ti giuro, Violet, che faccio quasi fatica a trattenermi, e sappiamo entrambe che tutto ciò è solo patologico».
Il corpo di Erika era paralizzato sul divano, le gambe molli tremavano. Sentiva le lacrime scorrere sul viso. Si sentiva come una bambina indifesa di fronte a un mostro imponente pronto a divorarla. Jade aveva ragione su tutto. Erano due persone disturbate mentalmente che alimentavano le malattie l'una dell'altra. Per quale motivo aveva pensato che Jade fosse cambiata? Per quale motivo aveva pensato che Jade fosse degna di perdono? Perché era lì?
«Ma perché sei qui? Davvero, perché sei qui? Questo sono io, lo sai, lo hai sempre saputo. Sai perché sei qui, Erika? Perché ancora ci speri, perché una parte malata di te ci spera. Lo sappiamo entrambe, vero? Se volessi... ora, mi basterebbe prenderti, spogliarti, metterti a novanta e usarti. Vero? Mi basterebbe stringerti la gola, sentirti godere, vederti bagnare. Basterebbe un attimo; darti un ordine, darti uno schiaffo, costringerti in ginocchio a fare il tuo dovere tra le mie gambe. Ed è terribile, tutto questo è terribile, vero? Eppure sarebbe ciò che ti darebbe il maggior piacere in vita tua, una scopata del genere, attesa per sette anni, desiderata, sognata, con così tante emozioni passate e rimaste. Te lo immagini? Una scopata piena di rabbia, dolore, odio, abbandono, disperazione. Per una masochista come te e una sadica come me, sarebbe qualcosa di così intenso da farci impazzire. È il tuo peggior incubo e il tuo desiderio più grande. Questa è lussuria pura, è malattia mentale, tesoro mio».
Il corpo di Violet fu scosso da quelle parole, tremò violentemente, e un peso sul petto la fece piangere silenziosamente. Al contrario, il suo ventre fu assalito da fitte violente, così calde da farle male, suscitando in lei un desiderio doloroso di cedere e goderne.
Scosse la testa, osservando prima incredula la sua aguzzina e poi il vuoto. Un vuoto fitto di ricordi.
Jade si avvicinò pericolosamente, il suo sorriso sibilò all'orecchio di Violet come la lingua di un serpente a sonagli.
«Sei pronta a provare un piacere tanto intenso, amore mio?» appoggiò una mano sulla coscia di Violet e inspirò il suo profumo fresco e familiare. La bramava brutalmente.
Spazio scrittrice:
Oggi pensieri liberi in questo spazio...
È amore qualcosa di talmente distruttivo? È amore solo ciò che è sano? Cosa significa amare? Di chi è la colpa poi se la maggior parte di noi è stato mutilato affettivamente, se non ha labbra per parlare ma solo denti per mordere? Il vuoto è un luogo comodo dove abitare quando c'è di peggio in giro. La vita tutta è una delirante tempesta di sogni e emozioni. E se io la prendo e ne scrivo degli attimi, delle sensazioni, dei pensieri. Se la smonto in frammenti e la riordino come piace a me e ne scrivo, allora scriverei proprio tutto ciò che state leggendo. Spero vi piaccia tutto ciò che ho capito e non ho capito nell'esistere. Perché DT non è meno di ogni lacrima che ho versato, di ogni risata, di ogni persona che ho amato, distrutto, perdonato. Non è meno delle notti passate su un tetto a guardare le stelle, non è meno dei parchi che ho scoperto, delle persone che ho incontrato, dell'amore che avrei voluto dare a me stessa.
Buona lettura ❤️ stellinate, commentate, uscita a passeggiare nei parchi e accarezzate i gattini
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