Capitolo 3

«Sarei onorato se lei accettasse il posto di vicepreside, Signorina West.»

Jade sorpresa rimase senza parole ad osservare il vecchio; la guardava con occhi pieni di ammirazione, parlando in tono sommesso.
«Insomma, dopo ciò che ha fatto, i-il coraggio che ha dimostrato di avere...
Le commesse delle pulizie mi hanno parlato di quando l'hanno vista portare di forza la studentessa... in quello stato...
Come preside di questa scuola non posso fare a meno che premiarla per il suo spirito. Certamente, approfittando dell'assenza momentanea di un vicepreside in questa scuola.» terminò aspettando fiduciosamente in una risposta positiva.

«Oh, grazie mille.
Sta esagerando, non mi sembra il caso.
Ho fatto ciò che chiunque avrebbe fatto...» il falso sorriso, che le spezzava le labbra, le tirava le guance fastidiosamente, rendendosi più difficile da indossare. Le sporcava la lingua di un sapore amaro.

'Non ho fatto proprio nulla.
Che cazzo stai dicendo stupido vecchio.
Non merito nulla, è colpa mia.' la voce della verità le graffiava i pensieri, tirando ancor di più quella curva sul suo volto.

«Lei è troppo modesta.
Se non fosse stato per lei quella ragazza sarebbe di certo morta nei nostri bagni. Ha salvato non solo una vita, ma anche l'integrità della nostra scuola. Voglio, anzi, sono obbligato a consegnarle il titolo di vice preside dopo una tale prova di coraggio.» senza darle tempo di ribattere, continuò, appoggiandosi gli occhiali sul naso.
«Avrà il suo ufficio personale. Oltre all'aumento, un somma rispettabile. Non ci saranno molte scartoffie da gestire, glielo assicuro. Merita questo posto, anche solo per questi ultimi mesi, prima della fine dell'anno.» l'anziano le porse la mano, come a chiudere quell'accordo.
La mano di Jade ricambiò la stretta, riluttante.

«Ancora, la ringrazio Signorina West.
Allora...  ci sarà un'assemblea di istituto per parlare dell'accaduto e risolvere il problema del bullismo, se non le dispiace le chiederei di presentarsi per annunciare il suo nuovo titolo e… se vorrà dire qualche parola...» alluse alla situazione di Valentine.

Jade si morse il labbro nervosa. Annuì.
Quell'idea la disgustava, ma come avrebbe potuto rifiutare? Perché avrebbe dovuto? Sarebbe sembrata sospetta... ma non voleva parlare di fronte a tutti, non di Katherine.

«Ottimo! Ora la lascio andare.» aggiunse soltanto il preside prima di sparire tra i corridoi.
«"Signorina" 'sto gran cazzo.» odiava essere chiamata così. Nessun professore, o dottore in quanto laureato, sarebbe stato chiamato signorino. Che linguaggio sessista di merda. Sbuffò infastidita da tutto.
«Che schifo...» bisbigliò tra sé e sé. Come poteva essere così tranquillo dopo una cosa del genere? Dopo che una ragazza aveva fatto una cosa del genere nella sua scuola.
E quel coglione se ne andava semplicemente in giro a regalare nomine per sentirsi meglio. Quando era anche colpa sua. Era anche colpa di quella maledetta scuola, di quelle persone che non avevano aiutato Kat a diventare forte abbastanza, che non l'avevano apprezzata e l'avevano schiacciata lasciandola sola. Erano tutti complici.

West fece un sorriso di scherno, rivolto ai propri pensieri. 'Patetica'
Non sapeva nemmeno più prendersi le proprie responsabilità. Non ne era mai stata capace. Non poteva farlo, non era abbastanza forte per reggerle. Aveva imparato solo ad essere codarda ed ad addossare la colpa agli altri. Ormai  anche con un certo grado di consapevolezza.

«Jade... penso che dobbiamo parlare...»

'Assolutamente no.' le mancava proprio di dover spiegare ad Erika, di come avesse trovato Katherine in un mare di sangue.
Per sentirsi dire cosa? Quanto fosse colpa sua?  Non le importava nemmeno cosa Violet volesse dirle.
Era tutto troppo, quella giornata a lavoro era un autentico inferno. Nulla smetteva di ripetere il nome di Valentine, e lei doveva solo sorridere, accettando sguardi di ammirazione e parole false di conforto.
Loro non sapevano quanto lei ci tenesse a Kat, come avesse cercato di proteggerla da quei mostri dei compagni.
Odiava. Li odiava tutti. Odiava tutti in quella dannata scuola, odiava quella dannata scuola senza Valentine.

«Magari un altro giorno.» tagliò corto superando la supplente.

«Ti prego, West. Sto malissimo.
Ho bisogno di te.» gli occhi di Erika turbati stavano dicendo la verità, ma a Jade non poteva importare meno.
Non era il momento, non poteva affrontare anche quello. Non voleva farlo.
E non le fregava un cazzo di quanto Violet avesse bisogno di conforto o di essere scopata. Doveva pensare a se stessa. Già era difficile così.

«Non è il momento e non è un problema mio.» tagliò corto Jade lasciandola sola.

Erika inghiottì la saliva ritrovandosi imbambolata in mezzo al corridoio.
Aveva perso il conto di quante volte aveva visto West abbandonarla, lasciandola a sé, ma tentò di giustificarla; probabilmente stava facendo fatica anche lei ad affrontare tutto quello. Probabilmente stava facendo i conti con le conseguenze delle proprie azioni… era anche ora!

Sapeva che avrebbe dovuto starle vicino, aiutarla ad affrontare tutto quello, ma Jade non le aveva mai dato la possibilità di farlo e lei proprio non sapeva come fare.
Ancora una volta non era abbastanza...

Si sentiva strana, l'ansia di quei giorni la stava divorando. L'insicurezza non la smetteva di perseguitarla. 
Non si riconosceva più. Le sembrava quasi di vivere in terza persona, di guardare i propri pensieri trasportarla senza tregua da Katherine a se stessa, da James a Jade, dal sonno alla veglia, dalla cucina al cesso.
Non aveva più nessun posto sicuro dove rifugiarsi. Era sola.
Abbandonata a sensazioni che la rincorrevano, la schiacciavano, la controllavano.

Aveva scritto ancora a James, ma si era rifiutata di incontrarlo o di sentire la sua voce.
Era un continuo pensare a James e volere Jade.
L'idea che lui fosse ancora disposto a vederla, sapere di non averlo perso del tutto la faceva sentire meglio. Eppure quella sicurezza la spingeva a volere di più West, e a non avvicinarsi troppo a James.
Perché? Perché si stava comportando così?
Forse perché voleva James con tutto il cuore, ma non pensava di meritarlo. Forse non aveva ancora accettato di meritare di essere felice.
A volte la felicità la spaventava, la vicinanza la faceva sentire insicura ferendola, mandandola fuori di testa.

Erika non si capiva.
Ma una cosa la capiva; era terrorizzata dalla solitudine. Non voleva rimanere da sola con la cosa che detestava di più: se stessa.


*

«Xandh... ho paura sia lei.» Jack tra le braccia del ragazzo appoggiò il mento al suo petto guardandolo in faccia.
«Cioè, davvero... e se fosse colpa mia?
Io avrei potuto evitarlo!» abbassò lo sguardo perdendosi nei propri tetri pensieri.

«Ehi... ciccio, senti non puoi esserne sicuro...  Anche se così fosse non puoi darti la colpa!
Una persona non compie un atto del genere per così poco.
Ha più senso sia colpa di quella professoressa, o del bullismo.» Alex passò una mano tra i suoi capelli neri dandogli i brividi. Dolcemente gli accarezzò il viso.

Era così bello, il suo ragazzo...

«Sì, ma sono andato a controllare e non c'era! E tutti parlano di questa ragazza che si è tagliata le vene in bagno!
C'era persino la fila di gente che era andata cercare qualche traccia di sangue, che cazzo!»
Il tono di voce del ragazzo cambiò lentamente, diventando freddo come i suoi occhi, parola dopo parola.
«Io li odio tutti.
Odio tutti quei ragazzi, odio tutti i professori, odio quella stronza che me l'ha portata via.
Li odio.»
Alex sorrise rendendosi conto dell'influenza "dell'altro Jack" in quella frase.
Non aveva paura, né lo trovava strano. Lo trovava interessante. In ogni caso amava il proprio ragazzo e tutto ciò che potesse contenere.

«Lo so. Lo so che lui è fatto per odiare.
E di certo in qualcosa potrebbe aver ragione; la tua scuola è piena di stronzi, ma non devi pensare sia colpa tua o cadere in conclusioni affrettate. Vedi che domani Kat sarà a scuola.» lo rassicurò Alex stringendolo con l'altro braccio.

«Mh, lo spero...
Davvero... se fosse lei non me lo perdonerei.
E se fosse morta? Non riesco nemmeno pensarci... 
Io non me lo perdonerei mai. Non potrei sopportarlo, io... Sarebbe troppo, capisci?» gli occhi di Jack si riempirono di lacrime.
Se fosse morta non avrebbe mai smesso di farsene una colpa. Di odiare tutti quei problemi. Avrebbe iniziato una guerra contro quella voce nella sua testa, e sapeva di non poterla vincere.

«Amore...» Alex gli prese il viso tra le mani, lo guardò dolcemente prima di avvicinare le labbra alle sue e dargli un bacio dolce e bisognoso. Tenne le labbra sulle sue, assaggiando l'amore di quel bacio, nutrendo il proprio ragazzo di tutto il bene che potesse trasmettergli così; con un sospiro.

Jack lasciò scappare la tristezza abbandonandosi a tutte alla loro sicurezza. Affamato di conforto si spinse verso il ragazzo. Cercando il suo viso spinse le labbra contro le sue. Morse, baciò, assaggiò. Con passione spinse la lingua a cercare quella dell'altro, perdendo le proprie mani tra i suoi capelli, spingendolo a sé, bisognoso di lui, di loro, di quell'amore semplice.
Alexander arrossì scaldandosi, sentì l'eccitazione salire. Sapeva dove li avrebbe portati.

Jack sentendo duro sotto di sé sorrise malizioso.
«Oh, guarda chi si è svegliato...» gli sorrise, distraendosi. Fece scivolare una mano sul corpo del ragazzo, sfiorò i suoi addominali, coperti dalla maglietta nera, fin sotto, dentro ai pantaloni.
Alex svagó con lo sguardo arrossendo ancora.
«Ho il ragazzo più figo del mondo su di me, come potrebbe non svegliarsi?» Jack rise, portando una mano dentro ai boxer, senza fretta afferrò dolcemente il suo membro caldo.

Un lungo gemito sfuggì dalle labbra carnose del ragazzo blu. Jack si leccó i denti soddisfatto.
«Mh, e quello cos'era?» lo prese in giro, baciandolo sotto all'orecchio, accarezzandolo con le labbra lungo il collo e riempiendolo di baci.
«Mh...» un altro gemito imbarazzato.
«La gioia di avere il ragazzo più figo del mondo nelle mie mutande, probabilmente.» rispose ridacchiando e stringendo i capelli del moro per avvicinarlo a sé.

Jack sorrise, appoggiò la fronte a quella dell'altro e lentamente iniziò a ondeggiare la mano, osservandolo godere ad occhi chiusi. 
Pensò a quanto Alex fosse bello, che amava vederlo così, con le guance rosse, ansimante sotto di sé. Pensò anche che senza di lui sarebbe stato completamente vuoto, e che avrebbe fatto di tutto per non perderlo, perché lo amava. Pensò di amarlo, di amarlo per davvero.

Alex si strinse a lui, mordendosi un labbro per non fare rumore. Nascondendo il viso nel cavo del suo collo lasciò uscire quel pensiero che apparteneva ad entrambe.
«Ti amo...»

Jack sorrise emozionato.
«Ti amo anch'io.» lo baciò sulle labbra proseguendo, sicuro che si sarebbero goduti la serata.

*

«Merda.» Dayana imprecò vedendo il bordello di gente.
Liz manco le rispondeva più, mentre le luci e la musica muovevano quell'anima unica di corpi. E lei che avrebbe giurato di non finire più in una situazione del genere, non con quella nuova Elizabeth, fredda ed indistruttibile.
E invece, eccola lì; sullo scenario di un passato sbiadito e dolorante.

Cercò il retro di quel posto. Conoscendola sapeva che l'avrebbe trovata da quelle parti.
Andava sempre sul retro a vomitare, dove c'era abbastanza tranquillità per poter telefonare.
Sbracciando tra la gente, col cuore in gola, sperava Liz non fosse in pericolo o non stesse troppo male.
Perché? Perché era tornata a ridursi così? Quale ragione aveva di buttare tutto a fanculo dopo anni?
Dayana non capiva... oppure capiva fin troppo bene, ma non voleva accettarlo.
Adeline mancava terribilmente anche a lei, e non avrebbe mai smesso di mancarle.

West stava vomitando appoggiata alla parete, con il trucco sbavato dal pianto, tenendosi i capelli con una mano. Si svuotava di tutto il proprio dolore, espellendolo fuori dalla propria gola. Consapevole di sé, reggendosi ai propri pensieri, come se quella di svuotarsi fino a diventare il nulla fosse una cosa da fare, un suo dovere. Stava affrontando tutte quelle emozioni, stava fronteggiando se stessa. Non conosceva altri modi per scappare dalla propria apatia, per costringersi ad ascoltarsi, a sfogarsi. Di certo non ne conosceva di meno dolorosi.

«Liz!» Dayana corse a soccorrerla, prendendole i capelli con una mano e accarezzandole la schiena con l'altra.
Il cuore le bruciò in petto. Quanto avrebbe dato per non rivederla in quelle condizioni.
Era proprio lì, ad autodistruggersi di nuovo.

«Hai preso qualcosa?» chiese. Il suo tono di voce sicuro scaldò le ossa di West.
Ora che c'era Dayana sarebbe andato tutto bene. Ci avrebbe pensato lei a portarla a casa.
Scosse la testa rispondendo alla domanda. Niente droghe, solo tanti, troppi drink.
Non aveva più alcol da vomitare, eppure sentiva il bisogno di svuotarsi, sentiva ancora il peso schiacciarla. Non lo voleva lì, voleva solo rigettarlo fuori.

Si infilò due dita in gola nella speranza di liberarsi, ma il violento conato che le scosse le viscere non fu abbastanza per farla sentire meglio, al contrario le bruciò i muscoli affaticati.
Niente da fare, il suo dolore la stava ancora perseguitando.

«Questo posto fa schifo. Portami a casa.» borbottò mangiandosi le lettere, come se la sua lingua fosse troppo stanca per muoversi.
Dayana sorrise a malapena. Se riusciva a lamentarsi, come sempre, allora stava meno male di quanto immaginasse.
La prese sotto braccio trascinandola via, fino alla macchina.

«Non mi vomitare in macchina... di nuovo.» commentó ironica. Lo faceva sempre ai tempi, per sdrammatizzare.
Liz rise ricordando.
«È successo solo un paio di volte...» scoppiò a ridere di nuovo dimenticando la propria sofferenza.
L'alcol la faceva sentire così leggera, non aveva mai riso tanto, si sentiva un'altra persona.
La foschia nella sua mente la cullava, in alto e in basso. La svuotava portandola nel rassicurante nulla, per poi farla precipitare nei ricordi, nella commiserazione.

Vagando nelle proprie colpe si rese conto; cercava il dolore di Adeline per non morire di quello di Katherine.
Troppo tardi.
Pensato quel nome l'inferno si riaprì attanagliandole le viscere.
Sorrise amaramente, bloccata nei propri pensieri. Il dolore era sempre diverso.

«Il dolore è sempre diverso.» disse ad alta voce, senza nemmeno sapere il perché.
Dayana lasciò che parlasse; era un bene che riuscisse a farlo.
«Ci sono alcuni... dolori, che sono belli, dolci. Dolori dove vai così tante volte a rifugiarti che alla fine diventano casa, perché un po' ti ricordano di quando eri a casa.» si inumidì le labbra con la lingua, appoggiando la testa al sedile e chiudendo gli occhi.

«Oddio, Dayana!
Ma il dolore è una droga...
Non ci avevo mai pensato! Oppure sì?
Comunque… tutti fuggono dalla realtà, c'è chi si droga, chi beve... » rise pensando a se stessa ubriaca di nuovo in quella macchina a delirare senza nessun controllo, come una ragazzina.
Come faceva Dayana a sopportarla?

«Cosa stavo dicendo?» si perse stringendo gli occhi chiusi.
«Che il dolore è una droga...» rispose l'amica sorridendo appena, intenerita dal ripetersi delle cose.
«Ah sì! C'è chi usa sostanze e poi c'è chi soffre. Chissà perché...
Tipo quando non sopporti più vivere e ti metti sul cuscino e ripensi a cose passate che fanno male.
O quando stai male e quindi cerchi un male passato ancora più grosso che renda quello nuovo meno spaventoso.» finì il proprio discorso amaramente.
Vedeva tutto sfocato, quanto aveva bevuto? Non era più abituata, non riusciva più a reggere come una volta.

«Perché l'uomo più del dolore ha paura di non avere il controllo.
Soffrire per scelta fa molta meno paura che soffrire senza averne alcun controllo.
Soffrire per scelta è sapere a cosa si va incontro, è conoscere il male tanto bene da renderlo rassicurante, familiare.
Il dolore che ci colpisce da fuori ci fa molta più paura di quello che custodiamo dentro...» rispose Dayana riflettendo seriamente sull'argomento.

«Anche tu lo fai, vero?
Ripensi a quando era qui, anche se ti fa male… proprio perché fa male...» Jade sorrise mentre una lacrima le scivolò sul volto.
Si sentiva così emotiva.
Solo da ubriaca riusciva a provare emozioni, era spaventosamente gratificante sentirle, ricordarsi di essere viva, di esistere ancora.

La donna sul sedile a fianco deglutì.
Per quanto avrebbe potuto reggere?
«Sì...» ammise stringendo i denti.
Dayana non aveva paura della verità, e West lo sapeva.
Quella donna era più forte di chiunque avesse mai conosciuto.
Day avrebbe potuto odiarla per averle portato via Adeline, e invece... invece sceglieva di esserci.

Non come lei, lei che non sapeva nemmeno accettare le proprie colpe. Lei che giocava a vivere senza un briciolo di responsabilità, che fuggiva dai propri errori giustificandoli, giustificando il proprio dolore, tanto da renderlo eterno.
Lei che vuota combatteva contro il nulla della propria anima, odiandosi ed amandosi, spaventata e bisognosa di qualsiasi calore.
Lei che sacrificava cuori, vite, corpi, alla ricerca di una droga nuova che funzionasse meglio dell'autodistruzione.
Lei che semplicemente cercava in tutti i modi di stracciarsi il cuore di petto, macchiandolo di qualsiasi atroce peccato.

Quanto sangue aveva nascosto sotto la propria pelle? Quanti segreti? Quanta solitudine? Quante bugie ripetute a se stessa, iniettate nelle vene fino a non saper più distinguere la realtà?

Il baratro la rigetto dentro di sé.
Sentì la testa girare, la nausea spingere alla gola. Il sangue, tutto quel sangue. Il volto di Kat pallido. Le sue parole, di nuovo intrappolate nei pensieri. Quella poesia, intrappolata su carta.

Il mondo giró vorticosamente intorno a lei. Un dolore atroce le infettò il petto. Non poteva più salvarsi dalla realtà.

Era così forte che i suoi occhi decisero di piangerla fuori, e anche se li chiuse per fermarli, loro continuarono imperterriti a gridare emozioni che West non voleva provare.
Anche se li chiuse per non vedere, convinta che ad occhi chiusi sarebbe stato meno reale, sentì le lacrime bagnare le guance, accarezzarla amorevolmente, quasi avessero dispiacere della sua cecità.

«Siamo arrivate Liz.» la voce rassicurante di Dayana la prese e fece uscire dalla macchina. Non si era nemmeno accorta fossero arrivate a casa.

Appena in piedi vomitò sul viale.
«Brava che non l'hai fatto in macchina.» sdrammatizzó. Jade avrebbe voluto sorridere, ma non ci riuscì.
«Ora andiamo dentro, ok?» tenendola sotto braccio l'amica, la accompagnò fino a dentro casa.

Il mondo vorticava sotto ai suoi passi.
Doveva tenere gli occhi aperti per non cadere, eppure così facendo tutte quelle lacrime si palesavano davanti al suo sguardo offuscandole la vista, parlandole di quel dolore, del suo dolore. Come poteva ignorarlo?
Era come essere tornata ad otto anni prima, come se non fosse cambiato nulla, se non il peso della sua anima, il numero dei suoi peccati, delle sue colpe, dei suoi sensi di colpa.
Tutta quella corazza per cosa? Perché lasciarsi cadere così?
Avrebbe dovuto chiudersi di più, avrebbe dovuto ricordare da cosa stava scappando. Ricordare per cosa stava pagando quel prezzo.

Viveva in bilico tra l'odio per la propria fragilità, e l'odio dell'assordante silenzio. Combattuta tra il bisogno di apatia e quello di sentire qualcosa.
Soffocare la propria voce, uccidere per non morire, uccidersi per non farsi uccidere.
Il patto col diavolo, firmato con se stessa, a tavolino con le proprie emozioni.

Tutte quelle urla palpitarono dentro al suo cuore: il volto di Adeline, la voce di Kat, il sangue, il suo riflesso dagli occhi vuoti, una ragazzina sola, svuotata, in una stanza piena di lamenti.
Stava soffocando, voleva soffocare.
Ammutolì il proprio respiro alla disperata ricerca di un modo per trattenere tutte quelle lacrime, ma più le spingeva dentro, più loro le bruciavano gli occhi, stanche di essere trattenute, stanche del silenzio, bisognose di vita.

Trattenne il fiato, il peso nel suo cuore bruciava.
Trattenne le lacrime, il dolore faceva le capriole nel suo sterno.
Trattenne se stessa, i polmoni bisognosi d'ossigeno bruciarono insieme a tutta la sua sofferenza.
La tensione la schiacciava, supplicandola di respirare ancora.

L'apice della sofferenza la pugnalò tra le costole.
Non trattenne più.
Esplose.
Mille singhiozzi esplosero sulla sua bocca.

L'amica automaticamente la abbracciò, portandola a sedere sul divano.
Le piangeva il cuore a vederla ridotta così.
Vedere l'alunna doveva essere stato uno shock...

«Sono una testa di cazzo. Come ho potuto lasciarmi cadere di nuovo?
Perché cazzo sono sbronza?» la frustrazione soffocata dalla sofferenza le esplose in petto, i singhiozzi la scossero tanto forte da farle male.
L'odio per se stessa, per tutta quella fragilità, per tutti gli sforzi vani. Tutta la strada percorsa solo per ricadere.

Dov'era tutta la sua forza in quel momento? Dov'era la sicura ed indistruttibile Jade West? Era stata solo una bugia?
Perché tutte le sue paure non erano morte nel silenzio di quegli anni?
Non era servito a niente.

«Sono così debole!» la rabbia le si ritorse contro.
Avrebbe voluto farsi male, aprirsi le braccia per provare ogni goccia di dolore che aveva inflitto. Avrebbe voluto distruggersi e spegnersi, spegnersi per sempre, ma sapeva che non avrebbe potuto, che non ci sarebbe riuscita, per tutte quelle volte che ci aveva provato.
Amava troppo la vita per avere la forza di gettarla via.

«Liz calmati! Che stai dicendo?» la prese per le spalle cercando il suo sguardo, e per una volta lo trovò, acceso dal rossore sul suo viso, intorno ai suoi occhi; sconfitto, arrabbiato, stanco, stanco della solitudine.
E se ne sorprese; dopo tanto tempo finalmente vedeva Liz, non più gli occhi di vetro della sua maschera.

Jade voleva urlare tutto, tutto quello schifo che aveva dentro. Tutta la rabbia per se stessa, per la vita, per il mondo, per quell'orrore che l'aveva costretta a diventare così, che l'aveva piegata sulle ginocchia rendendola incapace di vivere, di respirare.
Per quel mondo che si ostinava a farla vagare come un fantasma, premiando il vuoto che aveva al posto dell'anima, costringendola ad essere amata e sola, per l'eternità.
«Perché sono una cazzo di malata mentale. Perché non merito la tua amicizia, non merito niente di quello che tutti mi danno: "La Fantastica West","Eroina", "Ragazza prodigio", "Geniale", "Stupenda".
Cazzate, cazzate, cazzate, solo un mucchio di cazzate!» urlò sbraitando tutto il proprio disgusto.

La rabbia scivolava via.
Non era abbastanza, doveva gridare più forte.
«Perché le persone mi adorano?
Più faccio schifo, più non sento niente, più sono fredda, più mi amano! Chi non mi vorrebbe? Anche sapendo quanto sono crudele, mi amano comunque. Anzi di più!
È tutto così sbagliato. Fottutamente sbagliato. È tutto così finto...
Sono una persona orribile, un mostro.
Cosa sono diventata? Come sono diventata questo? Io non volevo diventare questo, lei non lo avrebbe voluto...
Ma va bene! Ma piace, piace finché non diventa troppo, finché il meccanismo non impazzisce e crolla, soffocando qualcuno, distruggendolo. Ma non me, perché io sono fantastica, una vera eroina! Perché è colpa mia, dovevo esserci io al suo posto.
Dayana è tutta colpa mia.» si accasciò contro il corpo della donna, lasciandosi a peso morto tra le sue braccia.

Il senso di colpa la stava uccidendo un'altra volta. Un'altra volta lei distruggeva, distruggeva tutti, tanto da farli scivolare via e perderli per sempre.Tanto da rimanere sola.

«Cosa è colpa tua? Io non capisco, di che stai parlando?»

«Sono una bugiarda. Solo una bugiarda.
No, tu non sai di che parlo, perché non ho mai parlato di niente, di tutto questo, di quale mostro sono sotto le apparenze.
È colpa mia Dayana...
Se quella ragazzina si è... se Katherine, se lei...
È colpa mia, è solo colpa mia.»
Doveva solo dire la verità, per una volta, dirla ad alta voce.
Tirarla fuori, sputarla insieme al sangue, strapparla via dalle proprie costole e condannarla. Condannarsi con tutto ciò che comportava. Senza pensare a sé per una volta.
Urlare la verità a pieni polmoni, lasciarsi impiccare. Sola e morta, perché è quello che meritava, è quello che si aspettava.
Non voleva essere perdonata per i propri malati sbagli, non sarebbe mai stata perdonata. Non da se stessa. Non esisteva pace per una persona corrotta come lei.

«Katherine? Pari della tua alunna che si è tagliata?»

La frenesia dell'alcol la gettò in quel mare di emozioni facendole vomitare parole, pensieri, uno dopo l'altro.
«Sì, sì! È tutta colpa mia!
Noi avevamo una... una relazione.
No, le ho detto di non chiamarla così.
No, perché, perché io l'ho usata e, come fosse un oggetto, l'ho buttata via e... lei mi amava.
Una ragazzina! L'ho uccisa. È tutta colpa mia.»

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