Capitolo 17

Rimase incredula a guardarla apatica, senza riuscire a comprendere il senso di quella domanda e soprattutto chiedendosi quale risposta volesse dare.
Qualsiasi persona normale sarebbe rimasta offesa, magari si sarebbe infuriata, sbraitando di no, altrimenti sarebbe scoppiata in lacrime, o si sarebbe chiusa a guscio ferita per un simile oltraggio.
Invece Kat si immaginó di far vedere a tutti quelle righe rosse sulle sue braccia, si immaginó di sbattere negli occhi di tutti il proprio dolore, il proprio odio, la propria sana follia. Avrebbe voluto terrorizzarli e sconcertarli, solo per il gusto di strattonarli giù dalla loro realtà, solo per il gusto di farli precipitare rumorosamente sulle sue piastrelle rosso sangue, di sentire crepare il loro giochino del cazzo fatto di superficialità e obblighi sociali.

Guardò negli occhi verdi di Maeve e realizzò che lei non ne sarebbe stata né terrorizzata, né sconcertata. Al contrario la curiosità strisciava sulla sua spina dorsale allungandola tutta, alla ricerca di chissà quale sensazione, come un serpente lento e silenzioso.

Quella ragazza non aveva senso; doveva essere pazza.

«Perché?» riuscì soltanto a chiedere accigliata, osservandola meglio in faccia.
Aveva un piercing al labbro, notò, e peggio: non stava scherzando.

Paige alzò le spalle.
«Mi piacciono le cicatrici. Trovo siano eccitanti.» le dedicò un sorrisetto malizioso, ai limiti del malato.

Katherine rimase basita. Doveva esserci qualcosa di insano in quella ragazza, non doveva stare molto bene con se stessa per pensare cose del genere. Le guardò distrattamente le braccia in cerca di segni senza trovarne alcuno.
Forse la stava prendendo in giro; doveva essere un modo nuovo per prendere in giro la pazza lesbica suicida. Magari poi le avrebbe chiesto una foto delle cicatrici da condividere con tutta la scuola per ridere della sua voglia di morire.

Provò a pensarlo, a considerare quel opzione, ma quella spiegazione sembrava troppo sensata e razionale mentre Maeve di fronte a lei, al contrario, sembrava rappresentare la caoticità e impulsività totale.
I suoi occhi scintillavano sinceri, ed il suo sorrisino malizioso la provocò spontaneo: desiderava davvero vedere le sue cicatrici.

Kat rimase sinceramente colpita. C'erano un milione di cose che avrebbe voluto e dovuto dire, ma rimase silente a guardarla interdetta.
«Tu non sei normale… e se te lo dico io, è preoccupante.» lasciò perdere, riprendendo in mano la matita e tornando alla lavagna scritta.

«Grazie, tesoro.
Non c'è cosa peggiore della normalità.» le fece l'occhiolino decidendo anche lei di tirare fuori il libro, per lo meno per fingere di seguire.

Valentine la osservò, sorpresa per quella risposta. Era la stessa cosa che pensava, ma che non aveva mai avuto il coraggio di rispondere ai suoi bulli.

Scosse la testa ammonendosi, costringendo se stessa a seguire. Doveva lasciarla stare.
In dieci minuti era riuscita a stilare una lista lunga almeno due facciate dei motivi per cui Maeve Paige fosse una pessima persona; insensibile, immorale, instabile, poco affidabile e peggio di tutte: fastidiosa. Ma nonostante ciò qualcosa di lei, oltre al suo seno in bella vista, gliela rendeva impossibile da detestare o ignorare. C'era qualcosa della sua essenza che paradossalmente metteva la rossa immensamente a proprio agio. Maeve conteneva qualcosa di incomprensibile, che aveva la forma e il sapore dei lati che Kat ancora non conosceva di se stessa.

Ci pensò su, incuriosita, tra un mitocondrio e un ribosoma disegnati a matita. Non era solo il fatto che per davvero Maeve non fosse "normale". Era la sua libertà che la rendeva diversa dal resto della classe: Maeve non apparteneva a nessun gruppo; non aveva salutato nessuno e nessuno l'aveva salutata.
Si era seduta vicino a lei, anche se non per scelta, senza dimostrarsi turbata, e questo, qualcosa doveva pur significare. Perché anche con le migliori intenzioni, sedersi e parlare a Katherine "La cocca suicida dei Prof" significava comunque rischiare un minimo nella piramide sociale, significava prendere posizione e aggiungere peso ad una bilancia che ancora stava cercando il suo equilibrio.

La osservò di nascosto mentre scarabocchiava vulve e cazzetti ai lati del libro. Solo in quel momento la sua apatia di marmo venne messa a dura prova da un sorriso. Non se lo aspettava; Maeve stava facendo disegnini porno sul libro di Scienze, al primo banco. Certo era il banco a lato della classe, quello attaccato al muro, ma in prima fila sarebbe bastato poco per far sì che la Prof se ne accorgesse.

Capì meglio: a Meave non fregava un cazzo di nessuno.

Poteva arrivare in ritardo ed uscirsene con un "Dai Prof". Poteva sedersi vicino a lei, parlarle, dire cose assurde, folli e inappropriate. Poteva fare battute sulla morte ad una ragazza mezza morta. Poteva esternare con sincerità il proprio fascino per il malato. Poteva addirittura mettersi a disegnare organi genitali al primo banco davanti agli occhi della Prof.
Maeve poteva essere qualsiasi cosa, ovvero se stessa, perché nessuno si aspettava nulla da lei. Nessuno si aspettava che non lo facesse. Nessun insegnante si aspettava fosse in tempo, si vestisse meno provocante o parlasse con più rispetto.

Lei era qualcosa a parte, come il Jolly del mazzo. Qualcosa uscito dal sistema. Qualcosa di troppo resistente per piegarsi alle regole di quel mondo malato.

Un brivido di curiosità raggiunse Katherine nascosta nelle sue mura. Non si sarebbe fidata di Maeve; non aveva ragioni per farlo. Non le avrebbe permesso di farsi conoscere e non le avrebbe voluto bene, ma le avrebbe rivolto la parola di tanto in tanto, giusto per bisogno e curiosità.

*

Jade soddisfatta sistemò i propri oggetti sulla scrivania. La targhetta fuori dalla porta riportava la scritta "vicepresidenza" provocando in lei un certo vanto. Per quanto si sentisse in colpa doveva ammettere di amare il proprio nuovo ufficio, tanto quanto la possibilità di gestire: scuola, studenti ed insegnanti.
Si appoggiò allo schienale morbido ed imbottito della sua sedia girevole. Aveva già messo tutti i propri documenti in maniacale ordine, dividendoli per importanza e tematica. L'ultimo cassetto della scrivania era riservato alla custodia di tutte le sue prossime verifiche programmate.

Adorava quella solitudine; poteva isolarsi da tutti e far sembrare pure di star lavorando. Si chiese perché non ci avesse pensato prima. Le prossime volte avrebbe puntato immediatamente alla vicepresidenza; lo stipendio era più alto, il potere decisionale la gratificava e, soprattutto, aveva uno spazio proprio dove chiudersi quando non sopportava più l'intero genere umano.

Osservò il soffitto godendo del silenzio, quando questo le agguantò le viscere in una scarica d'ansia: Katherine era tornata a scuola.
Il pensiero picchiettava la sua corteccia cerebrale, e una perfetta reazione a catena le tendeva i nervi dandole angoscia.
Si sentiva soffocare costantemente dal senso di colpa. Non riusciva a perdonarselo. Sentiva il costante bisogno di Valentine per ricevere il suo perdono, ma Kat non poteva perdonarla per qualcosa che non ricordava.

Aveva bisogno di evadere da quel circolo. Dalla propria borsa estrasse il pacchetto di sigarette, in grande la scritta "West" nera sullo sfondo blu. Lo aveva comprato per ego, trovava divertente che ci fosse il suo cognome sopra, peccato non fossero una marca molto buona.
Lo aprì; era vuoto.

«Fanculo.» lo gettò nel cestino mancandolo di poco. Ghignò un'imprecazione a denti stretti. La fragilità continuava a palpitarle dentro. Non si era mai sentita sospesa in un limbo del genere. Certo aveva provato molte angosce diverse nella sua atipica esistenza, ma mai un bruciore simile e costante.
Era un vortice, un ciclo senza fine: senso di colpa, bisogno di perdono, paura che Kat ricordasse, terrore del rifiuto, bisogno di fuggire e di nuovo senso di colpa, allora il ciclo ripartiva senza fine.

Le sembrò di tornare indietro, all'adolescenza, all'instabilità delle sue emozioni.

Frustrata uscì dal proprio ufficio seguendo il proprio pattern, alla ricerca di una distrazione qualsiasi. Nella speranza di beccare qualche insegnante fumatore da cui scroccare un attimo di tregua.
«Oh salve.» la bidella la salutó. Ricambiò gentile. Era la stessa che l'aveva vista salvare Valentine, lo ricordò quando si rese conto della sua confidenza ed ammirazione.
Cercò gli altri insegnanti notando Violet alle macchinette.

«Se lo merita sa… Intendo il posto da vicepreside. È stata davvero forte a portarla fuori nonostante lo spavento.» continuò la signora.
West esaminò gli insegnanti disseminati tra le macchinette e la sala professori. Guardò la donna negli occhi come aveva imparato a fare, il giusto per far sentire le persone ascoltate. Non più del necessario.
«Esagera, ma la ringrazio per le belle parole.» mantenne il distacco professionale, mettendo l'altra a disagio.
«La prego mi dia del tu. Cioè possiamo darci del tu.»
West le sorrise falsa.
No, nella sua testa non c'era alcuna logica per cui, lei con le sue lauree, avrebbe dovuto essere sullo stesso piano di una pulisci pavimenti. La detestò in silenzio, chiedendosi perché tra tutti doveva capitare proprio lei, che l'aveva vista in lacrime e senza alcun controllo. Il ricordo di Kat sporca di sangue tra le sue braccia le diede freddo, un freddo malaticcio o pungente.

Osservò di nuovo Violet intenta a sorseggiare il proprio caffè ignara di essere guardata.
«Certo. Perdonami la richiesta, ma non è che potresti dire alla supplente Violet di raggiungermi nel mio ufficio? Grazie mille.» la indicò, e prima che potesse risponderle si ritirò nel proprio ufficio.

Andò a sedersi, pichiettando il legno della propria scrivania con le unghie delle quattro dita. Non aveva idea del perché avesse chiamato Erika. Non c'era nulla di razionale, solo fame, solo bisogno di qualcos'altro, di far passare il tempo, di respirare, di non pensare più.
Violet entrò a testa china, titubante e confusa e quello bastò all'ego di West per sentirsi un poco meglio. L'effetto che aveva Erika su di lei era rassicurante. Le permetteva di tornare indietro, ma non troppo. Le dava la possibilità di tornare ad essere la stessa persona apatica, senza responsabilità o colpe di qualche anno fa.

«Mi hai fatta chiamare? Cosa vuoi?» chiese acida sulla difensiva. West aggrottò le sopracciglia infastidita. Odiava quando qualcuno non le portava rispetto, specialmente Violet.

«Raccogli la spazzatura e buttala.» fece cenno al pacchetto di sigarette per terra. La rossa rimase confusa. Guardò il pacchetto di sigarette e poi lei.
«Cosa?» borbottò interdetta. L'orgoglio di Erika sobbalzò, per quanto fosse assuefatta dalla sua ex, provava sempre a farsi valere.
«La spazzatura. Ci senti?» la prese in giro curiosa di vedere come avrebbe reagito.
«Non sono la tua donna delle pulizie.»

Eppure West moriva dalla voglia di rendere Erika la sua donna delle pulizie, piegata a raccogliere la sua immondizia. In un gioco perverso di ruoli e potere. Voleva che Erika le obbedisse, ne aveva bisogno. Aveva bisogno di sentirsi Dio almeno per un attimo, per distrarsi dal dolore.

«Seriamente? Ti sto chiedendo un favore. Che ti costa? Mi sembra il minimo dopo tutti i danni che hai fatto.» pizzicò il suo senso di colpa, aspettandosi di sentire la melodia dell'obbedienza graziarle l'udito. Adorava sbeffeggiarla, adorava la confusione sul suo volto, il senso di perdita in cui riusciva a spingerla.

Erika non capì. Si sentì stupida, come una bambina che si impunta, che fa un capriccio. Si sentì esagerata, perché West la trattava come se stesse esagerando. Perché comunque raccogliere da terra la spazzatura era un gesto semplicemente civile che chiunque avrebbe fatto. Anzi no, era il minimo che poteva fare, era un favore insulso rispetto a ciò che doveva.
Jade le causava tanto stress ed ansia da rizzarle tutti i peli e farla sentire un animale spaventato, sempre pronto a chiudersi a riccio.

In silenzio raccolse il pacchetto vuoto e lo nel cestino. Si chiese se fosse davvero solo un favore, si chiese se Jade stesse godendo nel darle degli ordini, se non fosse un altro dei suoi giochi malati che non poteva capire.
Lesse la marca di sigarette e fece una smorfia; non la sorprese ci fosse il suo nome sopra, solo ricordò che la sua West non ne avesse mai avuto bisogno.
«Da quando fumi?» chiese curiosa.

«Non sono affari tuoi. Siediti, dobbiamo parlare.» il tono freddo e distaccato la preoccupó. Non aveva idea di cosa West potesse volere ancora da lei.
Turbata andò a sedersi su una delle due sedie poste di fronte alla scrivania; d'istinto scelse quella di destra, quella più vicina all'uscita.
Le fece strano. Le diede il panico; era come tornare in classe, alla cattedra a farsi interrogare, con la stessa Jade fredda ed esigente che la giudicava.
Lo detestava.

«Cosa c'è?» ripeté agitandosi sulla sedia. La sua voglia di fuggire passava lungo la sua gamba tremolante.
«Intanto modera i termini. Non penso parleresti così al preside. Sono in veste di vicepreside, non siamo al bar, quindi mostra rispetto.»
'Cha antipatica.' pensò d'istinto, ma poi pensò avesse ragione. Pensò che se l'avesse chiamata il preside effettivamente non si sarebbe riferita a lui con quel tono.

«Scusa. Hai ragione…»  piegò la testa intimidita dai suoi occhi di ghiaccio. La sua gamba tremava più che mai. Era lo stesso incubo di quando era interrogata alla cattedra.

«Bene, signorina Violet. Il punto è questo; perdonami il francesismo, ma non fai mai un cazzo. Ti vedo sempre alle macchinette.
Non penso tu stia prendendo seriamente il tuo lavoro. Non vanno assolutamente bene queste modalità.» la serietà con cui la la fece morire dentro. Era sempre peggio.
Non poteva credere di essere passata da collega a subordinata. La sensazione di non andare bene ed essere un fallimento la distrusse. Era il suo primo anno come insegnante, mentre West aveva anni di esperienza alle spalle e anche il coltello dalla parte del manico. Per l'ennesima volta Jade era nella posizione di giudicarla, di darle un voto, di farla sentire uno schifo. Erika iniziò a tremare per la pressione. Le veniva da piangere.

«Non è vero. Sto facendo del mio meglio. Amo i ragazzi. E poi sono una supplente! Non ho una classe fissa! Non ho tante ore. Mi mettete nei buchi. Cosa dovrei fare di più?» riuscì a ribattere trattenendo il magone.

West si sentì bene. Sinceramente bene. Più Violet dava segni di sconforto, più il suo umore migliorava. Era divertente, molto più di qualsiasi altra cosa. La gratificava avere il potere di ammonirla. Aveva odiato scoprire fosse una sua collega; Erika non era alla sua pari, non l'aveva mai considerata tale. Era debole, incapace, imbarazzante. La detestava, con cattiveria e bisogno.

«Beh, intanto potresti imparare a gestirla la classe. Non avrai mai la cattedra se continui così. Dei colleghi sono venuti a lamentarsi che i ragazzi fanno casino quando hanno te, che non sai tenerli.» mentí. Non aveva idea di come lavorasse la rossa, tantomeno aveva interesse nel saperlo. Voleva solo fare un po' la sadica e godersi il suo nuovo ruolo.

L'insegnante arrossì, il suo volto bruciò dalla vergogna. Gli occhi le si riempirono di lacrime e West per un attimo ricordò una scena simile, di quando anni prima l'aveva ripresa ed umiliata davanti a tutta la classe. Sorrise, toccata dai ricordi.

Violet si asciugò le lacrime.
«Non pensavo… ecco…
Mi spiace di aver disturbato. Forse non so bene… Devo imparare meglio. Ecco.» tremava. Non riusciva a sopportare anche quello. Solo in un brutto sogno la sua a professoressa ed ex amante, si poteva trasformare nel suo capo sadico. Pregò di svegliarsi da quel sogno di merda, ma disgraziatamente sapeva quella fosse la realtà.

«Sarà meglio. Nel nostro liceo non accettiamo insegnanti mediocri. Vedi di impegnarti di più perché così non va affatto bene.»
Erika si sentì masticare e sputare al suolo insieme a tutte quelle critiche. Non trattenne le insicurezze e le lacrime. Annuì in silenzio.
La sua vita stava andando a pezzi da ogni parte, in ogni ambito. Il sogno di insegnare era l'unica cosa bella che le fosse rimasta, e ora West stava contaminando anche quello. Stava scivolando nelle sue crepature, rendendola terribilmente fragile ed insicura anche nell'unica cosa in cui si sentiva soddisfatta.

Provò veloce ad asciugarsele, terribilmente umiliata. Si odiava. Odiava la propria sensibilità. Non riusciva mai a trattenersi quando le veniva da piangere, nemmeno in pubblico, nemmeno davanti alla peggiore persona del mondo. Capì subito che per quanto ora West fosse nel ruolo della vicepreside, in realtà stava godendo. In realtà non era altro che un'estensione del loro rapporto malato. Non era altro che un nuovo modo di punirla.

Jade soddisfatta sentì tutto il proprio corpo formicolare in estasi. Si appoggiò il mento alla mano, accavallando le gambe e allargando le spalle. Si sentiva potente di nuovo e Violet di fronte a lei, in pezzi, le dava la voglia aggressiva di scoparsela. Le sorrise maligna.
«Suvvia, Violet. Non c'è bisogno di piangere. Non sei una bimba, o la sei?» si alzò per prendere un pacchetto di fazzoletti che aveva nella borsa. Le si avvicinò porgendogliene uno, godendo della propria clemenza. Con le braccia incrociate appoggiò il culo alla scrivania alle sue spalle, osservando dall'alto Violet, seduta, intenta a soffiarsi il naso.

«Oh tesoro.» le accarezzò la testa.
«Puoi sempre imparare, non ti preoccupare. Come hai imparato ad essere una cagnetta devota, no? Ricordi?» la sua carezza le scivolò sul collo facendola sussultare per la sorpresa.

Erika rimase scossa da quel brusco cambio di discorso e ruoli, eppure le suonò particolarmente familiare. Non era la prima volta che viveva una situazione del genere. Il deja vu la obbligò a rimanere ferma, per la stranezza di un ricordo scritto sulla realtà. Non rispose. Non credendo nemmeno alle proprie orecchie.

«Lo sai? Vederti in lacrime mi mette davvero voglia di prenderti e piegarti a novanta sulla mia scrivania. Sarebbe commovente non trovi? In memoria di tutte le volte che ti sei fatta sbattere sulla cattedra.»






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