Capitolo 13

Katherine fece un respiro profondo. Non credeva che Jade c'entrasse con il suo tentato suicidio. Non voleva crederci; non ora che le cose andavano meglio, non dopo aver scoperto fosse l'unica persona a farla sentire normale.

Doveva solo farle quella domanda. Jade l'avrebbe rassicurata, e fine; sarebbe stata tranquilla, ma nel momento in cui i suoi dubbi passarono dal cervello ai nervi della sua lingua, una paura frenetica le batté al petto con la violenza di un estraneo che abbatte la porta di casa. L'agitazione la scosse violentemente, come una dose di adrenalina iniettata sottocute. Spaventata dalla propria reazione Kat rimase intrappolata nei propri pensieri.

«Katherine? Cosa devi chiedermi?» la riprese Jade vedendola persa nel vuoto.

L'alunna non voleva sentire quell'orribile sensazione. Era terrorizzata da quella domanda mai nata e dalla sua risposta. Strinse i denti, chiedendosi se fosse meglio abortire le proprie paure.

Osservò meglio l'insegnante per cercare in lei la causa di tanto terrore: indossava dei jeans neri, tenuti su da una cintura di pelle nera e una camicia da uomo bianca, infilata nei pantaloni. Era tutta stropicciata. Doveva essersi vestita di fretta.
La osservò intensamente.
Jade stava per chiederle di nuovo cosa volesse dire, schiudendo le labbra, ma le richiuse subito incrociando il proprio sguardo con quello della ragazzina. La sua serietà la pietrificó.

Anche West provava quella terribile sensazione. Affogò nella gravità di quello sguardo prima ancora che Kat aggiungesse altro.
Si bloccarono insieme nell'eterno non detto, sentendo la paura nel silenzio freddo di quella stanza. Si raccontarono senza parole, accettando il timore riflesso sui loro volti. Sequestrate dallo stesso mostro invisibile fatto di verità ignorate e attimi trattenuti.

West sentì la pelle d'oca, pronta a saltare nel vuoto.

«Come sta andando a scuola?» ruppe la tensione Kat.

Fece un favore ad entrambe.
Non ne aveva bisogno, decise, nascondendo la preoccupazione dietro l'apatia del proprio volto.

West si lasciò andare un sospiro. Aveva temuto il peggio, eppure era sicura si fosse trattato di quello, che stesse per chiederglielo, che quell'attimo fosse sfuggito via, forse per pietà del dolore di entrambe.
«A scuola... ci sono stati dei cambiamenti. Sono quasi due settimane che manchi.» rispose facendo luogo tra i propri pensieri, ancora scossa per lo scontro mai avvenuto.

«Hanno sospeso la tua classe e l'hanno divisa con l'altra terza, se non sbaglio.» con aria pensierosa batteva la punta delle dita sulle lenzuola candide: indice, medio, indice, medio, e così via. Sfiorava la mano di Valentine senza mai toccarla. Concentrandosi su quel gesto con la stessa ossessione di un bambino.
Una piccola ruga tra le sopracciglia.

Jade non voleva dire di essere diventata vicepreside. Quell'etichetta pesava su di lei come sangue indelebile sulle sue dita.
Non aveva provato mai tanta vergogna nel ricevere una promozione. Vantarsene l'avrebbe fatta sentire lurida, come a vantarsi del proprio marciume, provò a scordarsi di quella carica.

Katherine osservandola si chiese cosa stesse pensando. Non era la prima volta che Jade si fissava su piccoli particolari, perdendosi tra i propri pensieri. Aveva sempre un'aria indifesa, inconsapevole del mondo intorno a lei, quando faceva così. In qualche maniera riusciva ancora ad affascinarla.

La ragazzina lasciò l'insegnante ai propri pensieri, ispirandosi a quell'attimo di quiete. Gli occhi fissi sulla parete di fronte a lei. Quell'azzurro sbiadito trattenne il suo sguardo, lasciando libera la sua mente.
«I miei volevano cambiassi scuola...» rivelò con il solito tono piatto, privo di entusiasmo. Senza sforzarsi di staccare lo sguardo incantato dal muro.

«Ah...» Jade si sentì stupida a non aver pensato a quella possibilità.
Era logico, perché sarebbe dovuta tornare? Chiunque avrebbe cambiato scuola dopo un evento del genere. Ciò significava che non avrebbe più potuto prendersi cura di lei tra i corridoi...
Inghiottí la saliva dispiaciuta.

Indice, medio, indice, medio.
Nel silenzio si poteva scorgere quel leggero ticchettio accelerare. Gli occhi ghiaccio tristi a seguire l'ipnotico movimento.

Valentine continuò.
«Ho rifiutato. Non ho paura di tornare.
Cambiare ambiente per stare sola o rimanere nel mio per stare sola, non cambia. Almeno qui conosco già i professori, le materie, lezioni…
Riniziare sarebbe troppo faticoso.»
West trovò buffo come si riferisse ai "professori" senza renderla parte di essi. Come se lei fosse qualcuno esterno, forse ormai lo era diventata. Rimase in silenzio ad ascoltarla, contendo il proprio sollievo, non riuscendo a nasconderlo.

Non alzò lo sguardo, sapeva che Valentine era troppo concentrata e temeva che guardarla potesse infastidirla, continuò a guardare i polpastrelli battere dolcemente sul bianco.

Senza dire niente Jade pensò di essere egoista. Sarebbe stato meglio per Kat non tornare in quella dannata scuola. Avrebbe dovuto spingerla ad andarsene da quella gente di merda, lei compresa. Invece si morse la lingua, nel silenzio del proprio egoismo.

Katherine nel frattempo osservava il proprio futuro sulle imperfezioni della parete. Alla ricerca di se stessa tra le crepe.
«Non ho più paura.
Non mi interessa cosa diranno o faranno quando tornerò.
Sono sempre stata guardata male, ancor prima di tutto questo, ma stavolta non ho paura.
Non mi importa.»

Finalmente West alzò il proprio sguardo sul volto perso della ragazzina. Le dita smisero di battere.
Jade capì che Valentine stava per affrontare un discorso difficile, glielo rivelò la fossetta tra le sue sopracciglia e la sua aria seria.
Aveva visto quell'espressione solo durante le sue ore, quando si sforzava con tutta se stessa per capire i passaggi più complicati.
Quella fossetta sulla sua fronte l'aveva sempre riempita di un certo orgoglio. Che riuscisse o no a capire, Kat ci metteva sempre tutta se stessa. Lo stesso orgoglio le riempì il petto: la sua alunna era stupenda.

Stava scavando tra i propri pensieri, nei passaggi più complicati, alla ricerca delle parole giuste. In silenzio attese la sua verità per quanto sarebbe stata dura e pesante.

«È come se nulla avesse più importanza. Tutte queste cose superficiali, di cui tutti si preoccupano. Non sono importanti.
Se mi dovessero deridere so che non mi importerebbe, non sentirei nulla. Non sentirei la paura di prima. Non ho più paura delle cose intorno a me, non c'è niente di più spaventoso di quello che è dentro di me.
È quello, che mi ha trascinato verso la morte, non loro. Solo io posso farmi tanto male, solo io posso uccidermi. Non ho più paura nemmeno del mio odio per me stessa. Ora che l'ho visto, è quasi familiare...»

Silenzio.
Il cuore di Jade sussultava ad ogni accenno alla morte, chiudendosi nella tristezza.
Capiva perfettamente il suo discorso.
Lei aveva scoperto ben prima quel segreto, anche se in modo diverso, lei aveva creato molto presto angoli oscuri nella propria mente e ci si era accoccolata dentro per non temere la vita che sfuggiva al suo controllo.
Con dispiacere, ma senza alcuno stupore, realizzò che la ragazza aveva ammazzato la propria fragilità per sopravvivere, ed era tutta colpa sua.

«È positivo che non hai più paura, no?» furono le uniche parole che le vennero in mente per rendere quella situazione meno amara. Erano le stesse parole che aveva ripetuto più volte a se stessa. Erano parole stupide, ma erano le uniche che era riuscita a dirsi e a dire.
Il peso di quella situazione storpiava l'espressione sul volto di Kat e rabbuiava quella dell'insegnante.

«Sai Jade, sento di non essere più la stessa persona... e questo un po' mi spaventa.» Katherine disse ad alta voce quello che entrambe pensavano.

Niente sarebbe stato più come prima.
Era un terreno sconosciuto per tutte e due e Jade lo stava attraversando in punta dei piedi, sospesa su un filo.
Quanto sarebbe resistita?
Quanto sarebbe andata avanti prima che Kat ricordasse?
Quanto era simile alla vecchia Kat e quanto era diversa la ragazza su quel lettino?

Valentine stessa sapeva di aver bisogno di tempo. Amava Jade e per ora si attaccava alla concreta sensazione di benessere e normalità che le portava averla affianco, ma quanto poteva durare? Quanto poteva essere compatibile con quella nuova lei tra le sue costole? Con la Kat che odiava il proprio passato…

«Lo so... la supereremo insieme.
Non sei sola.»
Jade si sbagliava. Katherine era visceralmente sola, quelle sensazioni private non si sarebbero fatte capire nemmeno spiegate ad alta voce. Quella battaglia era sua soltanto, ma a Valentine non dispiacque, si stava abituando all'assenza, alla comodità del vuoto che non sembrava mai troppo stretto a patto di non indagare ulteriormente. Se una cosa le era chiara era che cercare in profondità sarebbe significato impazzire di nuovo.

«Potevo morire...
La vita vale troppo per lasciarla rovinare dagli occhi e le parole altrui. Non ho più voglia di preoccuparmi degli altri, sono stanca di stare male. Sono fortunata ad avere avuto una seconda possibilità...
Grazie West. Immagino sia stato anche merito tuo.» Kat sorrise, per la prima volta sinceramente.
Per una qualche ragione sentiva di essere felice; sentiva la novità, la curiosità che provava per quella vita che aveva un colore totalmente nuovo, per quella nuova Kat che doveva scoprire, che avrebbe fatto tutto come le andava, senza pensare troppo agli altri.

Jade rimase in silenzio, sollevata dal fatto che Valentine non si aspettasse una risposta, altrimenti avrebbe voluto urlare e dire di smetterla. Avrebbe voluto dire la verità, ma il sapore metallico del sangue del labbro che mordeva con insistenza la obbligò al silenzio, a patto di non perdere tutto. Perché tutto sommato, non sarebbe potuta andarle meglio di così.

*

«Ti prego rispondi...» l'uomo strinse il cuore in petto e il cellulare tra le dita, per l'ennesima volta, camminando freneticamente avanti e indietro, in quello che un tempo era stato il suo appartamento. Il parquet chiaro scricchiolava sotto il peso dei suoi passi.

Non avrebbe risposto; lo sapeva, era inutile, tutto inutile. L'avrebbe persa definitivamente, ma non era quello a ferirlo.
La conosceva, sapeva che stava soffrendo; da sola, in balia di quelle paure autodistruttive.
Non poteva fare nulla da così lontano, solo sentirsi impotente. Si sedette sul letto basso, osservando il riflesso disperato di un uomo in mutande e maglietta, sullo specchio.

James non voleva lasciarla: lei era l'amore della sua vita, era la persona con cui voleva vivere, invecchiare. Erano gli occhi addormentati che voleva vedere al mattino e i baci dolci della buonanotte la sera. Era tutto ciò che aveva mai avuto tanta importanza. Era tutto ciò per cui aveva combattuto; quel loro amore, era tutto ciò in cui credeva, e l'unica cosa che poteva dare senso alla vita a parer suo.

Eppure un lato di lui fremeva stanco. Aveva paura che quel suo lato avrebbe preso il sopravvento. La verità era che non ne poteva più. Stare dietro ad Erika era troppo, era impegnativo, era amare il doppio qualcuno che non si amava. Sapeva che stava male, lo aveva sempre saputo, ma sperava che con la terapia e con il suo amore sarebbe migliorata. Invece il tempo era passato e il suo amore si era piegato sulle ginocchia; si sentiva esausto. Lo sapeva benissimo, la loro non era una relazione felice, al contrario Erika era una persona tossica, con tutti i suoi problemi e le sue fragilità e lo distruggeva di dolore il non poterci fare più di tanto.

Nonostante tutto l'unica cosa che voleva per lei era la felicità. Se Erika fosse stata felice senza di lui, se avesse avuto bisogno di stare da sola per imparare ad amarsi, avrebbe accettato con gioia di lasciarla andare, ma un po' per esasperazione, un po' per istinto non credeva fosse così. Quella era la terza volta che si allontanava con una scusa, affogando nei propri problemi.

Il telefono continuò a squillare nel silenzio, seguendo i battiti del suo cuore.

Rispose.

Il cuore gli si bloccó in gola.
«Erika?» avrebbe riconosciuto persino il suo silenzio.
«Erika ti prego, voglio vederti.
Non sono arrabbiato, sono solo preoccupato.
Ti conosco; quando fai cosí è perché non stai bene. Vediamoci e spiegami almeno il perché.
Ti prego amore mio, lasciati aiutare.
Ci siamo già passati ricordi? L'abbiamo già superata e la supereremo anche questa volta.

Lo so che scappi quando stai male, che non vuoi davvero lasciarmi, che mi ami, ma vuoi solo punirti spingendomi lontano per rimanere sola e soffrire, senza nessuno che possa difenderti da te stessa. Ti conosco.
Ma lo sai anche tu che questa non sei tu, che è solo un meccanismo della tua testa.» James cercava di nascondere il proprio dolore sotto al tono calmo e rassicurante. Sentiva un taglio nel proprio sterno ed ogni parola lacerava e allargava la sua ferita. Provava solo rabbia e disperazione, provò il forte desiderio di urlare che non era possibile, che era troppo, ma la razionalità e ciò che sceglieva era tutto ciò che contava e nonostante tutto sceglieva Erika.

«Ma stavolta è diverso James...» la voce di Violet suonava triste, tra le lacrime, spaventata. James avrebbe voluto poterla stringere, ma erano lontani.

«Sono tornate cose del passato... loro mi stanno uccidendo, James.
Non riesco a resisterle, non posso rimanere, io devo affrontare questa cosa, posso affrontarla solo io, da sola.» la voce le tremava, i pensieri confusi. Voleva solo liberarsi di Jade, ma lei era nella sua testa, e aveva bisogno di vederla nella realtà per farla uscire da lì, ne aveva fottutamente bisogno. Doveva sistemare le cose per essere libera, altrimenti sarebbe rimasta per sempre nei suoi pensieri. Per sempre, senza darle tregua, nemmeno con James al suo fianco.

Desiderio e odio, bisogno e rabbia, dolore e piacere, amore e disperazione.
La follia era qualcosa di troppo complicato perché James, che era sano, potesse capirla.  Erika era sicura che nessuno avrebbe potuto capire, era sicura di non saperlo spiegare, di sembrare solo una troia incoerente, come diceva Jade.

Un forte mal di testa le fece appoggiare la fronte alla mano, socchiudendo gli occhi pieni di lacrime.
«Sto impazzendo. Mi dispiace...
Devo sistemare il passato.
Sarebbe sbagliato nei tuoi confronti, non posso darti anche questo peso, non posso...» le parole le morirono in gola.
«Ti farei schifo, mi odieresti... come lei.
Vedresti che faccio schifo, come prima. Ti ho lasciato... mi odi già. Ti conosco. Non mi sopporti più e mi va bene così.
È come tornare indietro...» singhiozzó frasi strappate senza senso. James chiuse gli occhi lasciandosi andare un respiro, voleva piangere ma non ci riuscì.

«Spiegami che succede. Lei chi?
Cosa è successo in passato? Lascia che ti aiuti. Ti prego…
Io ti amo, non posso odiarti; ti amo.
Tu mi hai lasciato... io no.» la accusò sanguinante. Niente di quello era giusto, non era rispettoso nei confronti del suo dolore. Perché Erika lo faceva stare così male? Per cosa? Come poteva tagliarlo fuori con tanta brutalità, senza nemmeno una spiegazione?

«Per piacere James...» lo supplicò di non insistere, soffocando tra i singhiozzi.

Contro cosa doveva combattere per salvarla? Avrebbe solo voluto saperlo. Perché non lo lasciava entrare? Era così complicato? Chi stava riducendo così il loro amore? Temette di non essere abbastanza. Provò rabbia pensando che nonostante tutto Erika potesse non fidarsi di lui, come poteva pensare una cosa del genere?
Si sentì impazzire per l'impotenza, la sua relazione stava andando in frantumi e lui era l'unico ad essere tagliato fuori e a cercare di sistemare le cose, da solo. Non si era mai sentito così solo e deluso in vita sua.
Nessun momento di crisi era mai stato così.

Provò rabbia per l'egoismo di Erika, per quel suo malessere che riusciva a strappargliela via, per le sue poche forze nel combatterlo per il loro futuro. La frustrazione di avere a che fare con una persona così problematica gli sbriciolò i nervi.

«Dimmi che non mi ami. Se vuoi che vada via, dimmi che non mi ami.» doveva sapere quanto ne valesse la pena. Doveva sapere se Erika voleva essere salvata o non voleva più stare con lui e basta. Aveva bisogno di sapere se il suo amore era finito e non bastava più a tenerli vicini. Lui per il loro amore sarebbe rimasto, ma se lei non voleva, allora avrebbe smesso di insistere. Qualsiasi cosa pur di capire come muoversi in quell'inferno.

Violet smise di singhiozzare rimanendo immobile, accoccolata sul divano, dentro la felpa che James aveva dimenticato lì. Guardò fissa il televisore spento, vedendoci sopra i propri pensieri.
Dicendo di non amarlo lo avrebbe liberato, lo avrebbe allontanato come voleva: avrebbe mentito. Si morse il labbro singhiozzando.
«Io...» doveva solo dirlo, bastava mentire e non essere una cazzo di egoista per una buona volta. James meritava di meglio, non una troia disperata come lei, lo credeva con tutta se stessa: James meritava di meglio, di essere felice e lei continuava solo a rovinargli la vita. Non era abbastanza.

«Non posso.»
Lo amava troppo per lasciarlo andare.

James frustrato rimase in silenzio, sentì distintamente il crack della propria pazienza sfracellata al suolo.
«Ma vaffanculo! Cazzo, Erika! Io non ne posso più! Parlami cazzo, parlami! Non puoi tagliarmi fuori così. È la nostra relazione, è anche la mia. Mi stai trattando da stronzo, come se non meritassi la verità. Hai idea di quanto sia frustrante per me? Ne hai idea?
Il tuo partner ti molla e tu non sai nemmeno per quale stracazzo di motivazione, anzi devi pure sostenerlo nel suo delirio mentre vieni pugnalato. Devi esserci mentre vieni spinto via. Devo sempre dare il triplo, il quadruplo. È tutto su di me Erika. Tu impazzisci e il problema non è che stai male, il problema è che non ti vuoi far aiutare da me, è che sei così malata mentale che non vedi fuori dalla tua bolla e non mi dici un cazzo, porco dio! E non sarà colpa tua, sarà colpa di quegli stronzi del cazzo dei tuoi genitori, ma io sono al limite. Sto malissimo, non ce la faccio più!
Ti amo. Vorrei solo amarti, ma tu me lo stai rendendo impossibile. Ogni volta è così: ti allontani, torni, ti allontani e poi ti dai la colpa. Ci sei solo tu, solo tu che decidi tutto, che fai tutto per i cazzi tuoi, e questa, cazzo, questa è la cosa più egoista ed infantile che tu possa fare. Non dare la possibilità di scelta e fare la "cosa migliore per l'altro" perché "meriti di meglio", è la cosa più fottutamente immatura ed egocentrica che una persona possa fare.
Se ti scelgo è perché ti amo. È una mia scelta quanto sto male, o bene con te. È una mia scelta se andarmene o sopportare. Non una tua. Non una TUA!»
Silenzio.
James stesso rimase shockato dalla propria reazione, gli era capitato di arrabbiarsi, ma non aveva mai raggiunto un livello tale di insopportazione.

I suoi occhi si riempirono di lacrime, sentiva i singhiozzi di Erika dall'altra parte, ma era troppo. Non poteva continuare a mettersi da parte per lei. Non era il suo terapeuta, non l'avrebbe mai salvata, non sarebbe mai cambiata. Aveva sbagliato lui a pretenderlo. Sapeva benissimo che Erika aveva il disturbo di personalità borderline, glielo aveva detto fin dall'inizio, ma lui spinto dal proprio spirito da crocerossino non aveva voluto altro che salvarla a tutti i costi. Si sentì stupido e provò immensa infelicità realizzando che tutto quello non avrebbe mai portato a nulla, che sarebbe stato un infinito aspettare che le cose andassero meglio sprecando il tempo e l'energia di entrambe. Si sentì in colpa pensando a come aveva illuso Erika promettendole un amore infinito che infinito era davvero, ma il cui prezzo stava diventando insopportabile.

«Il problema non è quello che stai passando ora. Non so cosa ti sia successo, non so chi è tornato dal tuo passato, ma il problema non è "lei"…» James fece un respiro profondo.

«Siamo infelici insieme, ci facciamo male. Non ci incastriamo. Quando facciamo l'amore non mi vuoi come ti voglio io. Non mi cerchi e desideri come ti desidero io. Non sei davvero lì con me…
Mi dispiace se continuo a farti sentire inadeguata, a chiederti di più…
Lo so, è anche colpa mia; le cose si fanno in due. Senti le mie mancanze e ti sforzi di riempirle, ma tu sei così e basta. Non puoi essere diversa, non puoi darmi qualcosa che non hai e non è giusto che io lo pretenda.
Non posso chiederti di amarmi bene, se tu non riesci ad amare nemmeno te stessa, e non posso riuscire ad amarti per entrambe. Non riempirò mai il tuo vuoto e mi svuoteró soltanto provandoci. Finiró per odiarmi a furia di metterti davanti a me, a furia di farmi in cinque e darti pezzi di me da divorare per sentirti meno sola. Mi sto già svuotando, mi sto già odiando un po'. Ora sento anche il peso del mio di vuoto e non ho più amore rimasto per me, perché lo sto dando tutto a te, Erika. Mi sento solo triste e colpevole di non essermi amato di più e custodito meglio.

Non sentirti in colpa. Non te ne faccio una colpa. Amare è complicato, sistemare i propri casini è quasi impossibile. Non è colpa tua, è stata colpa mia. Io ti ho permesso di chiedermi sempre di più, io mi sono permesso di darti troppo senza pormi dei limiti. Sono anche felice di aver fatto tutto il possibile, sono felice se il mio amore ti è rimasto dentro perché…» la sua voce si incrinò in un singhiozzo.
«Perché la cosa migliore che io possa fare è riuscire ad amarti tanto da rimanere per sempre un po' con te, da ricordarti di prenderti cura di te come ho fatto io.» le lacrime gli rigavano il viso. Si sentiva più leggero, sapeva che era la cosa giusta, ma la consapevolezza di starlo davvero facendo lo riempì di tristezza. Singhiozzò in silenzio, accovacciandosi dal dolore.

«Mi stai lasciando, vero?» la voce spezzata, rassegnata.

«No, tu mi hai lasciato…
Io ti sto lasciando andare.
Devi… devi prenderti cura di te, Erika. Devi imparare a stare da sola e volerti bene. Nessuno sistemerà mai il tuo vuoto, devi farlo tu. Io non posso. Solo tu puoi. Devi scegliere, devi decidere che meriti felicità, nonostante il tuo odio, devi decidere di prenderti cura di te e fare le scelte giuste per il tuo bene. Ce la farai.»

Violet chiuse la chiamata.
Il silenzio le fischiava nelle orecchie, un miscuglio di sensazioni la travolse. Aveva perso ogni cosa e aveva guadagnato qualcosa di nuovo. Urlò più forte che poté, sentì il sapore delle proprie lacrime e si lasciò cadere di fianco lasciandosi andare alla tristezza e alla malinconia. I ricordi del suo ex la travolsero tutti insieme. La consapevolezza di aver perso ogni cosa la terrorizzò, ma la felicità del sapere fosse la cosa giusta, era ancora peggio.

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