Damned
Immersa nella luce calda e abbagliante del sole dei primi giorni di luglio, Villa Ludovisi si stagliava davanti a lei, fiera nella sua antica magnificenza. Era stata acquistata, nel 1621, dal cardinale Ludovico Ludovisi che ne aveva fatto la sede di numerose sculture. Si estendeva dalla porta Salaria alla porta Pinciana e fino ai confini dei conventi di San Isidoro e di quello dei Cappuccini.
Patience si riposava, seduta su una panchina all'ombra di un faggio dell'immenso parco della villa. Si sventolava delicatamente il ventaglio davanti al viso, respirando affannosamente per via dell'afa che permeava l'aria. Il vestito di mussolina a fiori che aveva indossato quel giorno le si era incollato alla pelle, per colpa del sudore che la impregnava. Sospirando si sistemò il capellino che aveva calzato in testa, adorno di fiori che aveva raccolto nei pressi della dimora del principe. I suoi piedi soffrivano e dolevano, stretti nelle scarpette nuove, provati dalla lunga camminata che avevano compiuto prima di giungere lì.
Poco lontano, in piedi davanti alla Fontana dell'Ombrello, suo marito era intento a conversare con il proprietario della villa, Luigi Boncompagni-Ludovisi.
Leroy Bloxham, il marito di Patience, era un appassionato d'arte e nei suoi numerosi viaggi all'estero, sempre accompagnato dalla moglie, aveva conosciuto Boncompagni-Ludovisi. Era anch'egli appassionato d'arte, sopratutto di sculture e aveva deciso di riportare in auge la villa romana, che era stata precedentemente abbandonata.
Per questo, aveva deciso di invitare a trascorrere qualche giorno a Villa Ludovisi, a Roma, tutti i suoi conoscenti che avessero interessi nel campo artistico, per condurli a visitare il Labirinto delle Statue. Era situato lateralmente alla villa, in un' area del giardino, composto da due quadrilateri che si estendevano simmetricamente in viali e spiazzi, in cui erano state posizionate ed esposte, agli occhi di tutti, un'innumerevole quantità di statue, che qualcuno mormorava raggiungessero l'ottantina e da rilievi molto antichi, che il padrone di casa aveva orgogliosamente detto essere parte dell'eredità del suo avo cardinale.
Suo marito e il principe si incamminarono verso il primo dei quadrilateri, dove una decina di statue stazionavano sparse sul prato. Continuavano a ciangottare tra di loro, anche se Patience non avrebbe saputo dire di cosa.
In quel momento aveva decisamente altri pensieri che le passavano per la testa. Quando sarebbero tornati a Londra, tre giorni dopo, avrebbero festeggiato il loro matrimonio che, purtroppo, non era stato celebrato per amore.
La sua, infatti, era un unione combinata.
Suo padre ,Lord Barret Fry, aveva incontrato il suo futuro genero ad una delle tante aste a cui partecipava abitualmente e, subito, aveva trovato in lui un perfetto compagno di discussioni. Si erano trovati talmente tanto in sintonia che, nel giro di poco tempo, lo aveva invitato a casa sua.
Qui, Lord Bloxham, si era imbattuto per la prima volta nella figlia di Lord Fry, di cui era rimasto affascinato. Quella giovane, così bella, calma e posata, rispecchiava tutto quello che lui aveva sempre cercato in una compagna.
Così, non c'era voluto molto tempo prima che egli domandasse ufficialmente la sua mano.
Patience, da perfetta gentildonna, si era sentita onorata dalla proposta che le era stata fatta ma, nonostante tutto, non ne era stata felice.
Lord Bloxham aveva appena compiuto quarant'anni e, anche se era un uomo di notevole aspetto che coltivava interessi simili ai suoi, aveva un carattere brutale.
-Patience, tesoro, perché non vieni qui con noi?- la voce roca e potente di Lord Bloxham la richiamò al presente, riscuotendola dai suoi pensieri.
Chiuse di scatto il ventaglio alzandosi, mentre un venticello fresco e piacevole le si insinuò tre le pieghe dell'abito, facendola rabbrividire per colpa del sudore che le aveva inumidito la pelle chiara.
Si diresse a passi svelti verso il consorte, che la attendeva a braccia conserte sul sentiero al limitare del prato.
-Eccomi- rispose, non appena giunse al suo fianco. Con un gesto preciso e metodico, come le avevano insegnato alle lezioni di galateo, aprì il ventaglio , mascherando la bocca come era di consuetudine.
-Il principe mi stava illustrando le sculture che ha deciso di esporre in questa parte del parco.- le spiegò Leroy, mostrandole con la mano le statue di cui stava parlando.
Ve ne erano diverse e di molte di esse Patience aveva già sentito parlare. Non era un'amante dell'arte ma le sculture l'avevano sempre affascinata.
Si avvicinò, prendendosi qualche istante per osservarle una ad una, senza fretta, per contemplare tutti i dettagli che rendevano quei pezzi di marmo vivi.
Ne passò in rassegna molte, finché lo sguardo non le cadde sull'ultima, situata in fondo al quadrilatero, sul sentiero perpendicolare a quello dove si trovava lei.
Senza dire mezza parola si incamminò, sentendo i sassolini che ricoprivano il terreno scricchiolare sotto le scarpette. Guardava davanti a sé, senza mai distogliere lo sguardo dalla statua che l'aveva catturata.
La conosceva bene, ne aveva sentito spesso parlare dal marito. Lui, oltre dell'arte, era un'appassionato di mitologia greco-romana e di quella particolare statua aveva scritto una trattazione. Lei, invece, che aveva sempre amato disegnare, aveva più volte tentato di riprodurre i tratti della scultura ma, non ne era mai stata capace fino in fondo. Aveva qualcosa in sè che non le dava la possibilità di esprimere a pieno il suo potenziale.
Si fermò, proprio a pochi passi dal marmo che riposava sull'erba.
Leroy gliela aveva spesso descritta nei minimi dettagli ma, ora che poteva vederla con i suoi occhi, si rese conto che lui non le aveva fatto giustizia.
Il Ratto di Proserpina era un'opera davvero particolare. Era affascinante e la storia che rappresentava rendeva quella statua drammatica e struggente.
Patience la osservava, rapita dai tratti estremamente espressivi dei due soggetti, stretti l'uno all'altro in una morsa amara. Plutone, il Dio degli Inferi, era un uomo possente e muscoloso, che con la sua maschia presenza, riempiva l'ambiente, portando quelli che lo osservavano a temere di lui. Proserpina, giovane e bella, aveva uno sguardo disperato, di una donna costretta a sottostare al volere altrui senza possibilità di parola.
Patience si era spesso ritrovata a pensare come le donne del suo secolo fossero la personificazione della dea.
Come Proserpina, Patience si era ritrovata prigioniera di un'unione mai voluta, dominata da un uomo che, dalla prima volta che l'aveva vista, aveva voluto farla sua. Anche lei si era disperata e aveva pianto, alla ricerca di una via d'uscita che non avrebbe mai trovato. Quando il padre le aveva annunciato la notizia lei aveva dovuto fingere di essere felice ma, una volta nella sua stanza, avrebbe tanto voluto strapparsi i capelli. Lei, che era sempre stata uno spirito libero, abituata fin da bambina a decidere per se stessa in una società che predicava l'opposto, con un padre che la considerava la luce dei suoi occhi, si era ritrovata improvvisamente intrappolata.
Aveva pianto quella notte, così tanto da inzuppare le lenzuola del cuscino e da diventare rossa in viso.
Non aveva potuto fare niente; a nulla erano valse le grida e lamenti. Lei si era sentita l'ennesima sposa sacrificale, condannata ad una vita infelice a causa dell'egoismo degli uomini che la facevano da padroni.
Avrebbe tanto voluto scappare ma, nel profondo, sapeva che non ci sarebbe mai riuscita.
Proprio come Proserpina, anche lei era stata avvolta nelle spire di Plutone, destinata a rimanere per sempre sottomessa, in un inferno che sarebbe cessato solo con la sua morte.
Sua madre, quella dolce donna, aveva tentato di dissuadere suo padre, ma nulla era successo.
Così lei era diventata la signora Bloxham e, da quel giorno, le porte dell'aldilà si erano spalancate.
Aveva tentato in tutti i modi di sfuggire al marito ma, a differenza di Proserpina che era riuscita a tornare per un tempo breve sulla terra, lei non aveva potuto.
Lord Bloxham l'aveva costretta crudelmente a consumare quel matrimonio, rendendola schiava. La prima notte di nozze aveva pensato a tutte le debuttanti che affollavano la città e aveva pregato per loro, domandando la salvezza per le loro anime innocenti.
Le aveva sollevato frettolosamente i vestiti, affondando le mani nei suoi fianchi, divaricando le cosce con le sue gambe, imprimendo una pressione che le avrebbe lasciato dei lividi.
L'aveva reclamata, come Plutone aveva fatto con Proserpina, agendo egoisticamente, senza pensare alle emozioni e ai sentimenti della sua preda. Patience si era divincolata, in preda ad una furia violenta, arpionando la barba soffice dell'uomo, come un appiglio nel mare in tempesta.
Lui l'aveva osservata con bramosia, estasiato e colmo di lussuria. Quel corpo voluttuoso che si dimenava tra le sue braccia lo aveva eccitato è reso più determinato. Il suo membro si era gonfiato mentre Patience, in un disperato tentativo, si era slanciata in avanti, cercando di fuggire dalle sue spire.
Aveva pianto, mentre l'uomo la denudava, completando l'opera che aveva iniziato. Aveva gridato, il volto stravolto dal dolore e dalle lacrime, vergognandosi delle sue nudità e della sua dignità ormai infranta.
Leroy si era sdraiato su di lei, bloccandole le gambe, impedendole di muoversi e di poter correre a chiedere aiuto.
L'aveva reclamata, con violenza e brutalità mentre, ai piedi del letto, sedeva il cane del padrone, vigile. Quell'essere che quella notte lei aveva odiato con tutte le sue forze, impotente di fronte a quello scempio.
Era un guardiano e, come Cerbero, aveva impedito che chiunque entrasse nella stanza o avesse pietà delle sue urla.
Il marito l'aveva avvolta tra le sue braccia mentre lussurioso, la rendeva sua, penetrandola. Patience aveva gridato, spalancando gli occhi terrorizzati. Aveva continuato a dimenarsi ma, quando lui era giunto al culmine, riversando il suo seme in lei, aveva capito di aver perso la battaglia.
Lui l'aveva marchiata e l'aveva condotta all'inferno con sè.
Profondamente disgustata da quei ricordi che erano tornati così vividi nella sua mente, Patience si allontanò bruscamente, come se fosse rimasta scottata.
Improvvisamente capì.
Comprese il vero motivo che le aveva impedito di riprodurre quell'opera su una tela.
Quella era la sua vita.
Lei era Proserpina e Leroy il suo Plutone e quella statua raccontava al mondo intero che era stata stuprata.
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