III

27.08.1274, ore 07:12

Quella mattina v'era un gran trambusto nel villaggio.

Una trentina di cavalieri erano arrivati a gran velocità, distruggendo al loro passaggio tutto ciò che trovavano. Barili di frutta, recinzioni, balle di fieno per gli animali; tutto cadeva a pezzi e essi non si fermavano.

Un uomo, che tutti riconobbero come nobile per gli abiti che indossava, si fermò dinnanzi ad Andre e gli puntò una spada alla gola.

"Dove si trova?" urlò.

Il gran trambusto e le urla fecero affacciare Dominga, ma fu costretta a rientrare immediatamente in casa, dopo aver riconosciuto il conte che l'aveva cacciata dopo la morte di Alejandro: il conte Alvaro.

Guardò per un istante Domenico, che stava ancora dormendo tranquillo sul letto, poi si affacciò alla finestra per osservare ciò che stava accadendo e capire cosa avrebbe potuto fare.

"Vi prego, non so di chi parlate." Rispose Andre sinceramente. Quel pover'uomo era tremante dalla paura.

"Dove si trova quella sgualdrina che ha rubato l'eredità di Alejandro?" urlò ancora il conte, spingendo di più la spada sulla gola di Andre. La spada non lo colpì in profondità, ma lo ferì e un rivolo di sangue scese dal suo collo.

"Signore, non sappiano nulla. Credo che abbiate sbagliato villaggio." Urlò una donna tremante di paura, alle spalle di Andre.

Tutti gli abitanti del villaggio erano terrorizzati da ciò che stava accadendo. Non avevano mai fatto del male a nessuno ed avevano vissuto in pace e tranquillità per più di settanta anni.

"Vigliacchi!" urlò frustrato. "Smettetela di coprirla!"

Nessuno rispose. Nessuno accennò a muoversi.

Alvaro si guardò intorno.

"Uccideteli. Uccideteli tutti!" tuonò, alzando la spada al cielo e i cavalieri cominciarono ad uccidere tutti gli abitanti del villaggio.

V'erano solo urla e disperazione.

Dominga, incapace di vedere ancora una scena tanto cruenta, svegliò Domenico, lo prese in braccio.

"Mamma, che succede?" chiese il piccolo ancora assonnato.

"Tesoro, ascoltami attentamente. Qualsiasi cosa accada non uscire da qui. Non muoverti e non fare rumore per nessun motivo." Ordinò piangendo.

Lo fece nascondere sotto al letto, in modo che non potesse essere trovato da alcuno. Il bambino annuì e si coprì la bocca con le mani. Dominga, a quel punto, uscì fuori e si fece vedere dal conte.

"Conte Alvaro!" urlò per attirare l'attenzione. "È me che cercate. Ve ne prego, lasciate andare questa povera gente. Non c'entra e non sa nulla."

Il conte scese da cavallo e si avvicinò pericolosamente a lei. la sovrastò con la sua altezza. Era alto, muscoloso. Aveva lunghi baffi neri e lunghi capelli dello stesso colore. Le mise le mani intorno al collo e la spinse al muro.

"Dove si trova?" le urlò contro. "Dove hai nascosto il mio tesoro."

"Non possiedo nulla che appartenga voi!" rispose.

Sapeva bene a cosa si riferisse l'uomo, ma non aveva alcuna intenzione di sottomettersi a lui.

"Non mentire, donnaccia!" ringhiò stringendo le mani intorno al collo.

Lei boccheggiò un po' alla ricerca d'aria e afferrò le mani dell'uomo con le sue, nella speranza di riuscire ad allentare la presa.

"L'unico tesoro che possiedo è l'eredità di Alejandro e, in quanto sua moglie, mi spetta di diritto!" sibilò la donna.

Alcune donne del villaggio la udirono.

"Di cosa sta parlando?" chiese una.

"Dominga, ci hai sempre mentito?" chiese un'altra.

Lei le guardò.

"Mi spiace, vi chiedo perdono. Non era mia intenzione ingannarvi, ma non potevo dire a nessuno della mia vera identità."

"Smettetela!" urlò il conte. "Voi cosa state aspettando? Uccidete tutti, ho detto! Li voglio tutti morti!" ordinò ancora ai cavalieri.

Essi eseguirono gli ordini ricominciarono a perseguitare ed uccidere quei poveri innocenti.

"No!" urlò Dominga, ricominciando a piangere. "Basta. Perché? Perché?" urlò disperata. Il conte la afferrò da un braccio e la trascinò all'interno della casa.

"Dammi il mio tesoro!" ordinò.

Lei gli sputò in faccia e lui le diede uno schiaffo che la fece cadere a terra. Domenico, nascosto sotto il letto, vide tutta la scena e per non urlare spaventato, strinse di più le mani intorno alla sua bocca e gli occhi si riempirono di lacrime.

"Dammi il tesoro o ti ucciderò qui e adesso con le mie stesse mani."

Non volendo far vedere a Domenico una scena tanto cruenta, confessò, indicando la porta di una piccola stanza alla sua destra.

"Lì dentro troverete l'eredità di Alejandro." Sussurrò. Il conte rise.

"Non provarci!" sibilò. L'afferrò nuovamente dal braccio e la costrinse ad alzarsi. "Tu vieni con me!"

Aprì la stanza chiusa a chiave e trovò diverse sacche colme di oro. Sorrise felice.

"Lasciatemi andare!" ordinò la donna.

Lui rise ancora e la spinse fuori dalla stanza. Ella cadde di nuovo a terra e lui si avvicinò.

Domenico, da sotto al letto riusciva a vedere perfettamente la figura della madre.

"L'ultima volta che ti ho vista eri gravida, non è vero?" chiese, piegandosi su di lei.

"Sì." Sussurrò lei, abbassando lo sguardo.

"Dov'è il moccioso?" chiese puntandogli la spada alla gola. Lei chiuse gli occhi e mentalmente si scusò con il figlio per ciò che stava per dire.

"Non ho alcun figlio!" rispose tremante, cercando di non guardare sotto al letto.

Domenico sgranò gli occhi e pianse di più, continuando a tenere le mani sulla bocca per non far rumore come lei gli aveva chiesto.

"Menzogne!" urlò il conte.

"No!" urlò lei guardandolo con gli occhi colmi di lacrime. "Il bambino è nato morto." Mentì.

Lui rise.

"Come sospettavo." Le puntò la spada alla gola. "Non sei stata in grado neanche di donargli un figlio. Credi davvero che dovrei lasciare in vita tale rifiuto?" chiese.

Non le diede il tempo di parlare e le trafisse la gola con la spada, uccidendola. Domenico voleva urlare, ma si morse le labbra per non farlo.

Entrò un cavaliere nella casa in quel momento.

"Signore." Chiamò il conte. "Non v'è sopravvissuto in questo villaggio." Informò.

"Bene. Prendete tutto l'oro in quella stanza e torniamo al castello!"

E così fecero.

Quando il silenzio tornò a regnare, Domenico uscì lentamente e tremante da sotto al letto.

"Madre." Sussurrò. "Madre, che succede?" chiese, scuotendola da una spalla.

Le mani si riempirono del sangue che scendeva dalla gola della donna. Cominciò a piangere e scuoterla sempre di più, chiamandola. Finché, sia per la stanchezza, che per la disperazione, crollò addormentato sul corpo della donna.

Si svegliò tre giorni dopo.

"Madre, madre." Sussurrò chiamandola disperatamente. "Ho fame." Sussurrò.

Si alzò e si asciugò il viso dalle lacrime che erano tornate a scendere.

"Vado nella piantagione, madre." Sussurrò. "Aspettami qui. Prendo della frutta anche per te. Dopo mangiato ti sentirai meglio."

Uscì e cominciò a camminare barcollando. Non conosceva la strada per la piantagione, non la ricordava. Camminò e camminò per ore, finché non si ritrovò in un bosco folto. Si sedette sotto un albero e ricominciò a piangere quando capì di essersi perso.

"Madre!" urlò disperato, ma nessuno lo udì. 

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