Insolente
Consiglio: Lady Wood - Tove Lo
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"Dirty on the inside, damaged goods with nothing but pride
Yeah, you give me wood, give me lady wood"
"Tesoro, non scordare l'impegno che abbiamo preso. Almeno stasera vedi di non inventare scuse. Sai che mi manchi." 18.50 P.M.
Finn Wolfhard lesse velocemente il messaggio, ricacciandosi il telefono nella tasca interna della sua giacca, un attimo dopo.
Si concesse di alzare gli occhi al cielo, ma fu un movimento delle pupille così fulmineo che nessuno se ne accorse.
"È già tardi." fu il pensiero turbato che attraversò la mente del giovane imprenditore, ancora seduto a quel tavolo in quella stramaledetta sala conferenze.
Era già tardi e lui doveva andare via: questa volta aveva promesso. Aveva promesso che ci sarebbe stato e non poteva disdire all'ultimo minuto, non di nuovo; lei ci sarebbe rimasta troppo male.
Finn sospirò pesantemente sulla sedia, prima di voltarsi verso il suo più fidato collega.
«Devo andare via Cal, e qui la stanno tirando troppo per le lunghe.» gli spiegò in un sussurro, sporgendosi un po' verso di lui.
«Che hai di meglio da fare, amico?» chiese quello con tono ironico, alzando un sopracciglio con aria incuriosita.
«Un impegno che non posso rimandare.» si limitò a rispondere Finn con aria di chi non ammetteva altre domande.
E Caleb sembrò comprenderlo, perché scrollò le spalle e fece finta di nulla.
«Dovrebbe esserci un'uscita secondaria dall'altra parte dell'edificio da cui siamo entrati per eludere i giornalisti all'entrata, ma... come pensi di eludere quelli qui?» disse l'amico, indicandoli con un guizzo degli occhi, spostando impercettibilmente il capo nella loro direzione.
«Non penso di eluderli in nessun modo: semplicemente mi alzerò e me ne andrò.» rispose Finn, come fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Cosa? Ma non puoi, siamo nel bel mezzo del convegno! Finn, davvero. Ti dipingeranno come un maleducato, come un insolente e– »
«Caleb, io sono un insolente.» ribatté il giovane imprenditore, interrompendo l'amico, voltandosi verso di lui con un sorrisetto sghembo, furbo, dipinto sulle labbra rosee.
«Finn, non puoi, è... scortese, lo sai anche tu.» cercò di convincerlo, ma lui non si degnò neanche di rispondere.
«Ormai starà finendo, non puoi ritardare un'altra mezz'ora?» continuò Caleb, sperando di riuscire a convincerlo.
Ma questo in tutta risposta, così dal nulla, scattò in piedi.
«Ma che cazzo!» imprecò Caleb sottovoce con tono frustrato.
Finn rivolse un sorriso educato alle persone di fronte a lui, i cui occhi adesso gli erano tutti puntati addosso, stupiti dal fatto che si fosse improvvisamente alzato.
«No, non posso.» rispose a Caleb tra i denti, un movimento delle labbra così impercettibile che nessuno se ne accorse eccetto per l'amico che, all'udire quella risposta categorica si strinse nelle spalle, rassegnandosi.
«Cosa sono tutti questi occhi curiosi?» fu il tono flessuoso, profondo, ammaccato da una punta di tagliente ironia di cui nessuno si accorse.
Finn sorrideva educatamente verso i giornalisti con occhi vispi, divertiti.
«Sapete com'è, anche un uomo come me ha bisogno dei suoi momenti... in cui deve rispondere al richiamo di madre natura.» spiegò Finn con un sorriso increspato tra le labbra e un'espressione sul viso che la diceva lunga.
I primi risolini si dispersero nella sala, mentre altri ancora lo guardavano interdetti.
«Che per coloro che non avessero ancora capito, significa che devo andare... al bagno.» spiegò, alzando piano le sopracciglia e abbassando di poco il mento, come a voler fare intendere qualcosa di ovvio.
Le persone intorno a lui scoppiarono a ridere, ammaliate dal suo piccolo intrattenimento, da quello sprazzo di simpatia in un pomeriggio di seriosità.
Perché questo lui sapeva fare: sapeva soggiogare le menti, le prendeva in giro con i suoi sorrisi suadenti e le parole confacenti; le piegava al suo volere, le rendeva malleabili, vulnerabili alla sua tenace sicurezza– quella sicurezza che sembrava avere cucita addosso, di cui quegli occhi neri sembravano essere impregnati.
E fu con lo sguardo superbo e il mento alto, un sorriso sardonico ancora a dipingergli il volto, che si girò dando le spalle a quella piccola folla.
Così sparì dalla loro vista, tra i sorrisini delle giornaliste e le risate di compiacimento dei giornalisti, tra i colleghi furenti perché lui era riuscito a filarsela via, perché lui riusciva sempre a ottenere ciò che voleva, quando lo voleva.
Ovviamente nessuno aveva ancora capito che lui non sarebbe più tornato e nessuno lo avrebbe mai capito, perché il congresso sarebbe terminato da lì a un quarto d'ora.
Sì, Mr. Finn Wolfhard era stato, anche quella volta, il solito fortunato.
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Millie Bobby Brown stava ripercorrendo per la seconda volta il perimetro di quel maledetto edificio.
"Ci deve essere per forza." si ripeteva in mente, mentre con uno sguardo assottigliato e due occhi attenti sondava le mura bianche della struttura.
"Deve esserci per forza, no?"
Doveva esserci un'entrata secondaria, da qualche parte.
Doveva esserci un modo per raggiungere la sua migliore amica chiusa lì dentro ormai da ore, che non comprendesse falcare l'entrata principale, sicuramente ancora sbarrata da guardie di sicurezza e giornalisti.
La piccola Brown doveva solo trovarla, quella porta mimetizzata in tutto quel bianco candido, in quei vetri rifrangenti ogni immagine, ogni punta di luce, che non facevano altro che confondere e girar la testa nel momento in cui ci posavi sopra gli occhi per un secondo di troppo.
«Odio questo posto.» sussurrò, maledicendo quel pomeriggio sprecato a far nulla.
«Avrei potuto studiare.» continuò, borbottando tra sé e sé.
La tesi non si sarebbe di certo scritta da sola e neanche gli ultimi esami li avrebbe passati con il massimo se non si fosse decisa a studiare con costanza.
«Dovevo starmene a cas– »
Ma la ragazza non riuscì a terminare il suo monologo, perché qualcosa attirò la sua attenzione.
Fu un attimo, così veloce che in un primo secondo neanche ci badò, ma nel momento in cui i suoi occhi svegli ci riposarono sopra lo sguardo, ne fu certa.
"Eccola!" pensò in un fremito di eccitazione.
Ecco quella porticina, così piccola e bianca, davanti ai suoi occhi.
Troppo nascosta per quelli che erano state le sue occhiate frettolose quando era passata di lì la prima volta; non si stupì di non averla notata.
Scosse la testa, rimproverandosi.
"Fossi stata più attenta avrei risparmiato dieci minuti."
Si avvicinò a passo spedito verso la piccola entrata, grata di averla finalmente trovata.
Ci si fermò davanti, qualche centimetro di distanza, e portò la mano all'impugnatura della maniglia.
Nel momento in cui la mano si strinse, il metallo freddo le congelò le dita, provocandole una sgradevole sensazione lungo la schiena; un freddo che si diramò al resto del corpo.
La abbassò piano, attenta a non fare troppo rumore e pregando in cuor suo che la porta non stridesse, non fosse troppo rigida o troppo resistente; la ragazza non voleva attirare l'attenzione su di lei, non voleva che qualcuno la sentisse o la vedesse.
Dopo un attimo di esitazione, con ancora l'impugnatura abbassata ben stretta tra le dita, fece pressione, spingendo in avanti la porta.
Ma... non successe niente.
Per un secondo pensò di aver applicato troppo poca forza, così riprovò, questa volta con più decisione.
Ma dovette riprovare ancora.
E ancora.
E ancora.
"È chiusa, cazzo!" pensò, con un'espressione di infastidita riluttanza sul viso.
Si allontanò, passandosi una piccola mano tra i capelli, tirati indietro dal solito chignon che portava sempre dietro la nuca.
Com'era possibile che non ci fosse un modo per raggiungere Sadie?
Poteva capire che dentro quelle quattro mura ci fossero persone di un certo calibro, ma erano davvero così importanti da dover essere segregate dentro, lasciando il mondo fuori?
Era tutto così ridicolo, così fuori luogo per la piccola Brawn che, questa, in un moto di rabbia, si avvicinò di nuovo alla porta.
Ci poggiò sopra entrambe le mani, afferrando la maniglia con sdegno; un'espressione tremendamente infastidita sul volto da bambina che chiunque l'avesse vista avrebbe riso di lei, riso di quanto quell'espressione stridesse contro quei lineamenti così dolci.
Ma Millie non ebbe neanche il tempo di fare pressione, questa volta. Anzi, non ebbe neanche il tempo di abbassare la maniglia: non ebbe il tempo di far nulla.
Non ebbe il tempo, perché la porta si spalancò in uno scatto veloce, un colpo secco.
Così fulmineo e violento da farle perdere l'equilibrio, sbattendole violentemente contro la fronte.
La ragazza cercò di mantenere saldo il peso del suo corpo sulle gambe, ma il colpò la stordì, facendole annaspare qualche passo e mozzandole il fiato dal dolore improvviso e lancinante.
Istintivamente Millie si portò una mano alla testa, un attimo prima di inciampare nei suoi stessi piedi e percepire il suo corpo scivolare all'indietro.
Sentì qualcuno, una voce sconosciuta e profonda, ringhiare un'imprecazione, ma non ci badò, non riuscì a prestarci attenzione, mentre aspettava di sentire l'asfalto duro e freddo cozzare contro la sua schiena.
Ma non accadde, perché l'unica cosa che Mille sentì furono due mani ferree stringersi intorno ai suoi avambracci, dure e fredde come il ghiaccio, sentì palmi larghi riempirle la pelle, dita lunghe e affusolate stringere la carne, che per un frangente si bloccò, intrappolata tra gli spazi di quelle dita definite.
Furono quelle stesse mani che la afferrarono al volo, evitandole di cadere a terra. Furono quelle mani che Millie sentì un attimo dopo sui suoi fianchi, lì, sull'orlo della maglietta leggera, le sentì riportarla dritta, i piedi adesso ben piantati a terra.
La percepiva, la flemmatica decisione con cui si erano serrate sul suo busto, senza gentilezza, senza neanche una punta di delicatezza, solo con risolutezza, ostentata determinazione– forti e scultoree.
Le sentiva ancora, le dita stringersi intorno alla carne dei suoi fianchi, tenerla stretta, per paura che cadesse, che perdesse nuovamente l'equilibrio, ancora scossa dal brutto colpo di un attimo prima.
Millie non aveva smesso di tenere gli occhi chiusi, ben serrati fino a quel momento, i sensi persi nell'attesa di cadere.
Ma adesso sentiva il sangue fluire rapido nel suo corpo, sentiva il cuore battere più forte, premerle contro il petto come richiamato da chissà quale percezione, come un'intuizione inconsapevole.
La piccola Brown aprì piano gli occhi, sbattendo più volte le palpebre nel bisogno di orientarsi.
Nel momento in cui mise a fuoco i contorni della realtà, il suo sguardo si ritrovò puntato sui suoi piedi.
Aveva la testa abbassata.
E sentiva ancora quelle mani fredde premere sulla sua vita, sull'orlo sgualcito, sul tessuto leggero della maglietta.
Un brivido le attraversò il corpo e il pungente bisogno di allontanarsi, di fuggire a quel contatto sconosciuto, così indelicato, scontroso– troppo spigoloso.
Istintivamente, nel momento in cui quella consapevolezza la pervase, ancora a capo chino, provò a fare un passo indietro.
Tentò, ma non ci riuscì.
Le mani rimasero salde su di lei, le dita si strinsero ancora di più, impedendole qualsiasi movimento.
E fu in quella volontà negata, in quella ostentazione di autorità sconosciuta, che una voce profonda le carezzò i timpani.
«Non credo gli scatti improvvisi siano una buona idea dopo una bella botta in testa, Miss.»
Fu una voce melliflua, lenta ma decisa, e soprattutto... vicina. Troppo vicina.
Quell'inflessione di tono, quel suono che voleva essere scambiato per gentilezza, macchiato da una punta di indifferente ironia, così lieve che Finn Wolfhard pensò che la ragazzina di fronte a lui non l'avrebbe mai colta.
Ma Millie Bobby Brown la colse eccome– oh, se la colse.
E fu proprio quella a farle scattare lo sguardo in avanti, lo alzò senza vergogna in un movimento fulmineo del mento: sollevò il viso in un moto di disappunto.
Un paio di lentiggini le schiaffeggiarono gli occhi, riempiendoglieli di quelle sfaccettature colorate, di quelle macchioline così piccole che per un secondo le incastrarono lo sguardo nel dedalo indistricato di quei colori più scuri su una pelle diafana.
Poi, con improvvisa lentezza disarmante, i suoi occhi scivolarono sù.
Piano, ancora più sù, ancora e ancora.
E fu così che per la prima volta la preda fissò negli occhi il predatore, fu così che per la prima volta si guardarono negli occhi.
Nero cenere contro avano chiaro.
Durezza eterea contro la dolcezza del miele.
Non fu mai chiaro a chi fece più male, non fu mai chiaro chi dei due ne restò più ammaliato, non si seppe mai chi fu percosso da brividi più illogici, irrazionali; mai chiaro chi fu dei due il più inconsapevole.
Le pupille della piccola Brown si dispersero in quel nero, annegarono in quelle pozze d'inchiostro, troppo scure, troppo oscure, per un cuore leggero come il suo.
Ne restò incantata e nell'inconsapevolezza di quello stupore schiuse le labbra rosee.
E fu in quel momento che il contatto visivo si interruppe: fu quando gli occhi di Finn Wolfhard scattarono verso il basso, richiamate da quel lento movimento, da quell'incanto di morbidezza, da quelle labbra piene.
Il giovane si ritrovò a pensare che non avrebbe avuto bisogno neanche di assaggiarle, neanche di toccarle, perché sapeva già benissimo che si sarebbero modellate come velluto tra le sue labbra, strette tra i suoi denti, tra le carezze della sua lingua– oh, lui lo sapeva eccome.
Nel momento in cui Millie si accorse della rotta che avevano preso gli occhi neri, nel momento in cui li vide staccarsi dai suoi, per scendere in un punto impreciso del suo viso, si rinsavì nella frazione di un secondo.
Si riprese, come se i sensi si fossero riattivati in un tilt, rendendola consapevole di quale fosse la realtà.
E la realtà non le piaceva.
Il suo corpo era ancora stretto nella presa ferrea di quell'uomo e lui era troppo vicino.
Adesso riusciva a percepire il calore che irradiava il suo corpo, che proveniva da una parte indecifrabile di lui, che le avvolgeva la pelle, le strideva sul pelo dei muscoli, irrigidendoglieli, come in un istinto di difesa, come a volersi proteggere.
E Finn Wolfhard dovette accorgersene, dovette sentire la pelle della ragazza tendersi sotto il suo tocco, perché la lasciò istintivamente in uno scatto, come se si fosse improvvisamente scottato.
Ma Millie non tentennò, non diede segno di cadere: i suoi piedi erano ben piantati a terra da un po', esattamente come i suoi occhi adesso lo erano di nuovo in quelli del ragazzo sconosciuto... aspettate un attimo... sconosciuto?
«Tu.» fu la parola di Finn Wofhard, nel momento esatto in cui il ricordo tornò a galla nella sua mente, proprio nell'istante in cui accadde lo stesso alla piccola Brown.
Questa non fece in tempo a rispondere, che il ragazzo parlò nuovamente.
«Tu sei la ragazzina della moto.»
Millie non riuscì mai a spiegarsi se fu per il tono dispregiativo che lo sconosciuto usò nei suoi confronti, se per il suo sguardo granitico, privo di espressione che non fosse disappunto, non seppe spiegarsi mai se fosse stato per la mancata gentilezza nelle parole, nel modo in cui l'aveva toccata e quasi soggiogata sotto il peso del suo sguardo ostinato.
In sintesi, non seppe mai perché, quando rispose, lo fece con così poco riguardo alla cortesia, esattamente come la prima volta che lo aveva incontrato.
«Sì, Mr. Perspicacia, sono proprio io.» furono le parole ironiche della ragazza nel momento in cui faceva un passo indietro.
Millie non aspettò di veder dipingersi l'espressione stupita sul volto del ragazzo, anzi abbassò volontariamente lo sguardo su di sé, fingendo noncuranza, passandosi piano le mani sui vestiti sgualciti, come a volerli ripulire, riordinare nella loro comune e scialba anonimia.
«Noto che la cortesia non è una sua dote.» fu l'osservazione divertita e puramente disinteressata del giovane imprenditore, mentre un ghigno sardonico gli attraversava il volto.
Ma fu un'osservazione sbagliata, perché poche persone al mondo sapevano esser più dolci e gentili della piccola sconosciuta di fronte ai suoi occhi, ma questo lui ancora, beh... non lo sapeva.
E fu per questo che Millie si sentì punta da quella critica che mai l'avrebbe rispecchiata, da quelle parole superficiali pronunciate da un uomo la cui personalità sembrava grondare, di superficialità.
«Oh no, Signore.» rispose la ragazza, rialzando decisa lo sguardo verso di lui, senza esitazione, cercando con tutta se stessa di non farsi intimorire da quello sguardo fiero, quel mento alto, quelle sopracciglia folte stropicciate in un'espressione di muta e divertita attesa.
«La cortesia è una mia dote... quando non include insolenti come lei.»
Lo disse in un tono così gentile, così leggero e ben educato, che Finn dovette impiegarci un secondo in più per afferrare ciò che la ragazza avesse davvero detto di lui.
«Mi ha appena dato dell'insolente?» fu lo sguardo duro, gli occhi ridotti a due fessure.
Fece un passo avanti verso la ragazza, in un moto di incontenibile irritazione.
Ma come si permetteva, come, quella piccola sciocca? Come osava rivolgersi a lui in quel modo? Come poteva essere lei così insolente?
Perché Finn Wolfhard era certo che se ci fosse stato un insolente tra i due, quello di certo non sarebbe stato lui.
«Così sembra, Signore.» rispose cristallina la ragazza, con occhi vispi ben puntati su di lui.
E in quel momento Millie Bobby Brown pregò, pregò che non si sentisse il battito accelerato del suo cuore, che non si notasse il respiro che aveva appena iniziato a rincorrersi nella gola improvvisamente secca.
Pregò che il giovane uomo di fronte a lei non notasse il suo disagio, i suoi muscoli tesi, mentre lentamente, un passo dopo l'altro, si avvicinava a lei.
I movimenti misurati, leggeri ma decisi, dispersi in tutto quel nero– neri gli occhi, neri i ricci che gli sferzavano il viso, nera la giacca che portava.
E fu in quell'ultimo dettaglio che le pupille di Millie si concessero di perdersi per la frazione di un attimo: scivolarono sulle gambe flessuose, lunghe e magre, avvolte da un pantalone nero che le rendevano ancora più snelle.
Gli occhi della Brown salirono lentamente, lungo i fianchi stretti, restarono imbrigliati un attimo di più sulla sua vita, nella cintura luccicante, lì dove la camicia bianca si nascondeva dentro i pantaloni.
Si costrinsero a salire ancora, sui bottoncini bianchi che gli decoravano il petto, così magro, e al contempo così ampio.
Le braccia morbide lungo i fianchi, le dita rilassate, mentre con movimenti istintivi accompagnavano ogni passo del loro padrone.
Gli occhi spalancanti della ragazza, inconsciamente avidi di vedere di più, si persero sul contorno delle spalle del giovane, fasciate da quella giacca nera che si mimetizzava tra i ricci folti, così disordinati, così neri, da contrastare la pelle diafana del viso...
Quel viso che adesso si trovava a un palmo dal suo.
Millie non riuscì a contenere un refolo di sorpresa, quando il suo sguardo terminò il tragitto esplorativo, puntandosi negli occhi vispi del giovane.
Perché la verità era che la piccola Brown si era talmente persa tra la perfezione fastidiosamente ostentata di quel corpo, tra i tratti spigolosi delle spalle, degli zigomi, della mascella, quei tratti che costringevano chiunque a soffermarsi un secondo in più su ogni centimetro di lui– sì, si era talmente persa da dimenticare che quel giovane stesse avanzando verso di lei.
E lo aveva fatto, era avanzato piano, era avanzato anche troppo.
E adesso i suoi occhi duri incontravano quelli spaesati e intimiditi della ragazza.
Finn Wolfhard manteneva il mento basso per riuscire a guardarla: così piccola e bassa confronto a lui.
Il viso leggermente inclinato, una smorfia indecifrabile a storcergli il contorno delle labbra.
Ed eccolo il licantropo intimidatorio, quella pronto ad attaccare, ad aspettare un passo falso, quello che Millie, però, aveva già fatto.
E adesso che era così vicino, persino la coraggiosa ragazzina non riusciva a non sentirlo, non riusciva a evitare quel sentore di imprudenza pomparle nel sangue, che la avvertiva di non stargli così accanto, come se lui emanasse un sentore malfido.
La cosa peggiore era che neanche lei sapesse spiegarsi il perché, neanche lei sapeva il motivo di quell'inadeguatezza che sentiva improvvisamente protrarsi in tutto il corpo.
Sapeva solo che era lui, era lui a infonderglielo sotto il peso di quello sguardo intimidatorio, era lui a farla sentire sbagliata, a farle pentire di aver anche solo aperto bocca in sua presenza.
Finn inclinò il busto lentamente, si sporse verso di lei, verso il suo orecchio, ben attento a non sfiorarla in nessun modo.
A quella vicinanza improvvisa i muscoli di Millie si tesero come corde di violino, il petto che si alzava ed abbassava velocemente, senza più riuscire a nascondere i respiri mozzati e l'inquietitudine; gli occhi spalancati di fronte a lei.
«Ti consiglio di evitare, ragazzina... se mai dovessi incontrarmi in futuro...» fu il sibilo tra i denti serrati, la mascella tesa.
«...Di rivolgerti a me in questo modo.» e poi il fiato leggero che le solleticò l'orecchio, riscaldandola di un calore che di caldo non aveva niente.
Lui fece una pausa, non parlò più per qualche secondo, ma non si allontanava: stava fermo, chino su di lei, il viso quasi rasente la sua guancia morbida, terribilmente arrossata.
Millie vedeva con la coda dell'occhio i ricci neri, così vicini, troppo vicini da non percepire l'odore pungente del suo corpo pizzicargli le narici...
"Allontanati ti prego, perché... perché non ti allontani?"
«Anzi...» soggiunse lui, in uno schiocco di lingua.
«Forse meglio se non ti rivolgi a me in nessun modo.» esalò, un respiro corrosivo che le graffiò il timpano.
Poi tutto accadde velocemente: Finn si spostò in un movimento secco del corpo, portandosi indietro con il busto. Fu così veloce che lo spostamento d'aria fece scivolare nel vento le ciocche sul viso della ragazza, le fece tendere verso di lui.
Lo sguardo del giovane sembrò essere rapito solo una frazione di secondo da quei fili di capelli caramellati, del colore del miele, ma fu solo l'insensatezza di un attimo.
L'attimo dopo Finn Wolfhard le aveva già voltato le spalle.
Millie rimase paralizzata, il fiato ancora imprigionato tra le labbra, mentre con occhi sbarrati guardava quella schiena allontanarsi, quelle gambe muoversi in passi sinuosi e veloci, lunghe falcate, mentre il giovane metteva distanza tra di loro.
Non si voltò neanche una volta, nella sua camminata decisa non sembrò scomporsi mai: in quell'armonia di passi perfetti e misurati, scomparì in pochi secondi dalla sua vista, voltando l'angolo del grande edificio e lasciandola lì.
La ragazza non riuscì subito a muoversi, rimase impietrita, come se lo spettro di quel giovane sconosciuto le fosse rimasto imbrigliato tra i capelli, attaccato sulla pelle, riusciva a sentirlo ancora intorno a sé.
Prese fiato, portandosi in un gesto istintivo una mano sul petto, come a voler contenere il cuore, come a volerlo trattenere dentro al petto, mentre lo sentiva pulsare contro il suo palmo.
"Va tutto bene." si ritrovò a ripetersi.
"Tutto bene. Tutto bene."
Millie non seppe quanto tempo impiegò a riprendere il pieno controllo delle sue facoltà mentali: non riuscì a realizzare se fosse passato solo un minuto oppure dieci, semplicemente, a un certo punto, le sue gambe iniziarono a muoversi in avanti.
E si sentì in difetto, si sentì incredibilmente scomoda nel ripercorrere la stessa strada che lui aveva fatto solo poco prima, a mettere i piedi dove lui li aveva messi, ad attraversare lo stesso spazio vuoto.
Camminava piano, a piccoli passi e a capo chino, riattraversando il perimetro dell'edificio per tornare nel parcheggio principale: avrebbe aspettato lì Sadie, senza nessun dubbio– no, non si sarebbe mossa più.
E fu quando arrivò nel parcheggio, che i suoi occhi guizzarono in avanti, al suono di quella voce.
I suoi piedi si arrestarono, il corpo improvvisamente rigido, gli occhi attenti su quella figura austera, proprio di fronte a lei.
Era nero su nero, buio su buio, scuro nella notte scura.
Millie Bobby Brown a quella vista si rese conto che il sole era ormai tramontato da un pezzo e non poté fare a meno di notare che il colore della sera gli stava addosso d'incanto, valorizzava il candore della pelle chiara, ricamava in quei ricci neri la luce flebile della luna, glieli adombrava in uno schiaffo di crudele bellezza.
Finn Wolfhard era lì, davanti a lei, che imprecava al telefono, così arrabbiato che a quel tono di voce alla piccola Brown un brivido percosse tutto il corpo.
Lui non si era ancora accorto di lei alle sue spalle, lei immobile, lei che lo guardava rapita senza via di fuga.
Lei, nella cui mente una sola domanda lampeggiò, una sola forte e chiara, una che la invitava a muovere le gambe, che la incitava a spostarsi dal suo campo visivo, che le gridava di andare via di lì.
"Perché lui è ancora qui?"
~🌷~
Suvvia Mr. Wolfhard, un po' più di buona educazione è ben gradita, sai?
E poi che ci fai ancora nell'angusto parcheggio di quel posto, eh?
Spero che questo primo (anche se in realtà è il secondo!) incontro vi sia piaciuto ⭐️, sono curiosa di sapere cosa ne pensiate, quindi fatemi sapere!
A presto 🐯
Curiosità: "Lady Wood" è un'espressione gergale, uno slang inglese utilizzato per intendere l'eccitazione femminile.
Forse qualcuna è rimasta inconsciamente infatuata dai modi di fare di questo rude e sgarbato sconosciuto, chissà...
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