Frammento: ripresa prima

• Ho scritto sulle note di "You were never gone", Hannah Ellis.

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"I cuori di carta si stropicciano facilmente, puoi accartocciarli e poi tenderli di nuovo: non succede niente."

~🕷~

Primo ricordo di Finn Wolfhard, 5 anni
5 dicembre 2001
Atlanta, Georgia


Non veniva via.

Sentivo le punte delle dita quasi consumate. Il rumore di quello strofinio costante a grattarmi i timpani, tremendamente fastidioso.

Il sapone era rimasto ormai una patina sottile contro il mio palmo, ma io non smettevo di sfregarlo contro il tessuto in una ististenza che mi bruciava la pelle.

Ma non m'importava... ero deciso a consumarlo tutto se fosse servito, fino all'ultima bolla di schiuma.

Il getto dell'acqua era talmente forte che i dorsi delle mani mi si erano arrossati, ma ero stato così assorto da non averci prestato attenzione.

La cognizione del tempo si era distrattamente sdillabrata, non sapevo più da quanto fossi chiuso nel bagno. I minuti erano sfumati, opacizzati dal quel bisogno... quel bisogno che mi aveva fatto crepitare piano il cuore, nel momento in cui l'avevo scorta, sgualcita sulla sedia...

Ero andato in camera da letto a cercare mamma.

Lei non c'era, però. Lo avevo realizzato in una successione di istanti, nel momento in cui avevo fatto scivolare gli occhi per la stanza e non avevo scorto nessuno.

Era vuota, talmente silenziosa nella sua penombra che avrei quasi scommesso di poter contare i battiti del mio cuore.

Restai immobile per istanti lunghissimi, la mano ancora aggrappata alla maniglia, la mia testa a far capolino dall'anta semiaperta della porta.

Era quel silenzio... che mi incantava lì. Quel silenzio che ascoltavo a fiato sospeso, come fosse musica d'orchestra. Mi si radicò dentro, lo sentì fluire tra sangue e respiri e per un attimo... solo per un attimo si depositò quieto, incastrato tra le assi crepitanti del mio cuore.

Se avessi potuto avrei fermato il tempo in quell'istante... e si può? Vivere di un attimo infinito?

Il mio cuore, quel cuore del bambino che non ero mai stato sperò– no, pregò di sì.

Poi qualcosa attirò la mia attenzione, un colore diverso.

Era... una camicetta di mamma. Abbandonata sullo schienale, non ci misi tanto a notare che fosse la sua preferita: quella lilla, le primule stilizzate sul tessuto scolorito.

Le gambe mi si erano mosse in avanti, senza che me ne fossi accorto. Ero entrato a piccoli passi, quasi intimorito a disturbare quella calma cheta, aria silenziosa che sentivo distendersi sulla pelle ad ogni passo. Mi avvolgeva il corpo in quel silenzio che tanto amavo e che tanto mi stava male indosso, sconosciuto a me, ai miei schiamazzi di pensieri e scalpitii di battiti– grida di labbra e preghiere di lacrime.

Avevo preso la camicetta di mamma, sporca com'era, l'avevo portata in bagno nella speranza di riuscire a ripulirla per bene: mamma ne sarebbe stata felice.

Adesso, però, avevo perso la cognizione del tempo.

Mi sembrava di sfregare quel tessuto da una vita, impregnato d'acqua e sapone e strofinavo, strofinavo, strofinavo. Eppure sembrava che più insistessi... più la macchia si espandeva.

La parte grumosa era venuta via quasi subito, solo... perché? Perché il resto non veniva via?

Sbruffai infastidito, prima di gettare il sapone nel lavello, gli occhi inumiditi da un velo di frustrazione.

Sarebbe dovuta essere una sorpresa, ma... che scelta avevo?

Chiusi il getto d'acqua e con la maglietta ancora gocciolante tra le dita mi diressi verso la cucina.

Superai il piccolo corridoio in pochi passi: era avvolto nel buio, le ombre della poca mobilia si protraevano sulle pareti, innalzandosi come simulacri pronti ad acciuffarmi– farmi nero e buio, come loro.

L'istinto di accendere la luce, però, lo avevo ingoiato giù da tanto tempo.

Mamma mi aveva intimato così tante volte di farlo il meno possibile, finché i miei occhi riuscivano a vedere:

"Tesoro, vedi di adattarti finché puoi, d'accordo?" sussurrava con un sorriso, le sue dita perse tra i miei ricci in una carezza delicata.

"La luce il mese scorso ci è costata una fortuna, sai che Garreth ha il vizio di lasciarle sempre accese..."

Sospirava, facendo scivolare lo sguardo via da me...e a quel nome il suo sorriso si incrinava sempre un po'.

"Tranquilla mamma." sorridevo io per lei, stringendole la mano tra le mie dita ancora troppo piccole, "arriveremo anche questo mese."

Lo dicevo a voce piena, sicura, nell'ingenuità del bambino che solo con lei, mi concedevo di essere.

A volte lei ricambiava il mio sorriso, a volte no.

Mi accarezzava sempre però, un bacio tra i ricci neri e io abbassavo le palpebre d'istinto, cullato da quel tocco: "Non sono problemi che devi avere tu, bambino mio."

Ma io per farla contenta, avevo finito per non accendere più la luce, mai a meno che non mi fosse ordinato.

All'inizio il buio mi aveva spaventato, tendevo ad accelerare il passo ogni qual volta passavo dallo stretto corridoio: le ombre che si diramavano come tele di ragno sulle pareti a prendersi gioco di me, quasi peggiori di quelle che oscuravano i miei sogni.

E allora guardavo avanti, puntavo dritto a passo di marcia, non volgevo mai loro lo sguardo.

Mi fingevo forte, aguzzavo le palpebre e spingevo il mento in avanti; i pugni stretti lungo i fianchi.

Tanto lo sapevo che le ombre non lo vedevano, il mio cuore palpitante.
Non lo udivano, il respiro che masticavo tra i denti, ricacciandolo giù.
Non le sentivano mica, le mie unghie strette, premute contro i palmi.

E allora io persistevo in quella sfrontatezza che solo gli ostinati sanno avere, passo dopo passo.

Attraversavo il corridoio protetto dal mio vello d'audacia. Ma era finto, solo un'illusione era– non vello, ma sudario, non coraggio, ma paure.

Era quello: un sudario a celare le mie paure.

Perché quelle ombre... quelle ombre le ripescavano tutte. Le sentivo ricamare con cura, un trama di ricordi mi si tesseva addosso.

E io lì, a lasciarmi intrappolare, come fossi preda di me stesso.

Ed era la paura del buio, troppo nero per non ricordarmi i miei incubi peggiori, quelli che non sognavo di notte. Allora acceleravo il passo, quasi correvo, quando lo sentivo stringermi persino il respiro.

Poi, un giorno, così d'improvviso... non ci feci più caso.

Perché si sa, fingi di essere qualcuno che non sei, fino al giorno in cui non lo diventi davvero.

Volente o nolente smetti di fingere, perché quella essenza ti si è cucita addosso così bene, così attentamente da apparire un riflesso naturale del tuo essere.

Me ne resi conto solo molto tempo dopo: i passi di finta sicurezza erano diventati sciolti e solidi, fiducia di muscoli e carne a rendermi intrepido. Avevo rilassato i pugni, le braccia morbide lungo i fianchi; il mento sempre alto, come a ricordare alle ombre chi fossi io, e chi fossero loro.

Non che non le temessi, ma avevo imparato a disprezzarle.

Le disprezzavo, – perché se non potevo liberarmene, se non potevo scacciarle via, allora non sarebbero state loro a prendersi gioco di me, no.

Sarei stato io.

Mi ero lasciato dilaniare dalla paura finché questa non mi aveva consumato, mi ero lasciato divorare da ricordi vecchi e nuovi, perché di nuovi ce n'erano sempre. E più ne collezionavo, più la tela si irrobustiva, mi avviluppava la carne. Quella tela che mi tesseva l'anima, la ammaccava in contorni che non avrei potuto addolcire mai più.

E allora per attrito mi rinforzai anch'io come lei; mi irrigidii tra le pieghe spigolose del mio essere, così tanto che a un certo punto mi si incrinò anche il cuore.

Ma lo feci così piano da non accorgermene nemmeno... scorcio di pelle dopo scorcio di pelle, labbra dopo occhi, naso dopo orecchie, ossa dopo muscoli, anima dopo cuore.

Una pazienza meticolosa, attenzione magistrale– ero io che non sapevo che la rigidità... è vetro fragilissimo. Ero io che non sapevo... che ciò che è inflessibile si spezza a un battito di ciglia.

«Finn ma cosa... che stai facendo tesoro?»

Sussultai nell'udire la voce di mia madre, alzai gli occhi su di lei in un tremolio di palpebre.

«Io stavo... venendo a cercarti.» balbettai incerto, cercando di metterla a fuoco, nel buio del corridoio.

«Oh, tesoro...»

Poi la luce si infranse contro le mie iridi, fui costretto a stringere le palpebre.

«Mamma!» protestai, una mano a coprirmi gli occhi.

La sentii ridere in quel modo che aveva lei, così leggero da ricordare tintinnii di conchiglie, bisbiglio di mare quando ci poggi contro l'orecchio.

«Finn te l'ho già detto, puoi accendere la luce quando si fa–»

La sua voce si arrestò, così come i suoi passi.

Provai a distendere le palpebre, una smorfia di fastidio a lamentarsi della luce improvvisa; alzai lo sguardo per osservare meglio la mamma.

Non rideva più, la sua bocca era schiusa in un'espressione indecifrabile, gli occhi granitici piantati sulla maglietta che ora stringevo in una mano, ancora bagnata e insaponata e... sporca.

La vidi boccheggiare... poi colmò la breve distanza che ci divideva: pochi passi incerti, silenziosi.

«Questa è la mia maglietta, Finn.»

Non era una domanda. Semplice e pura constatazione, una voce atona su un viso marmoreo, occhi cristallizzati in una sfumatura che non riuscii a cogliere.

«Sì beh, ti cercavo ma ho trovato questa e... siccome so che è la tua preferita ho provato a...» sospirai, incerto su come spiegarmi, «Ma non viene via, mamma.» conclusi semplicemente, gli occhi ancora su di lei.

Sperai che non si arrabbiasse con me, di non averla macchiata ancor di più, rendendo il danno irreparabile.

Il panico mi assalì, presi fiato nell'improvviso bisogno di spiegare: «Doveva essere una sorpresa, ma –»

«No Finn.» mi interruppe, un timbro privo di calore che mi agghiacciò sul posto.

Lei sembrò notarlo, perché protese una mano, lasciandomi una carezza sulla guancia; fu una delicatezza che mi rincuorò, di cui mi cullai, abbandonando il viso contro le sue dita.

Poi, con la stessa mano... mi sfilò via la camicia bagnata dalle dita.

La prese lei, portandosela al grembo, i suoi occhi si persero un attimo in più tra le primule stilizzate, imbrattate di un colore che non apparteneva loro.

«Non devi più entrare in camera mia, siamo intesi?» mi ammonì, la fronte aggrottata in quella tipica espressione che non ammetteva un'altra disobbedienza.

Sospirai, le mani bagnate adesso strette in una presa spigolosa.

«Ma tanto mamma lui non c'è e...»

«No.» asserì di nuovo, decisa.

E io ci avevo davvero provato, a far felice la mamma. Ma non era venuto via, il sangue.

Mi impietrì lì, nel corridoio.

Mia madre mi superò, un'ultima carezza leggera tra i ricci. Mi superò, portando via la luce con sé ed io rimasi lì, anima al buio accarezzata dalle ombre.

Immobile... senza sapere che il ragno ero io.





~ 🕸 tra le fila...

Partiamo col botto proprio 😹
Per i lettori che seguivano precedentemente la storia: come avrete notato e come vi avevo accennato, l'ho impalcata un po' in modo diverso, ma posso assicurarvi che adesso filerà molto meglio :)

Sto dando una forma diversa anche alla caratterizzazione di Finn 🕷 ... prenderà più forma tra qualche capitolo, ma spero vi piacerà 🤗

... a presto ♥️

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