4 · Lattice e biscotti

Ingrid seguì Avan fuori dalla stanza di Erianna.

La scala a chiocciola era larga almeno tre metri, con gradini di marmo bianco, un corrimano in bronzo stile art nouveau e uno spazio vuoto al centro da cui si poteva vedere il pavimento quattro piani più sotto. L'ambasciatore le scese saltellando come un ordinario scivolo di plastica.

«Ingrid, giusto? Esther dice che sei qui da mezzogiorno. Hai fame?»

«Sì» rispose lei, come se gli avesse appena confermato che il blu era il suo colore preferito.

«Anche io! Vieni, la mensa è al terzo piano.» Saltò per sbaglio due scalini insieme e si aggrappò al corrimano per non cadere. «Cioè, in realtà ho una cucina mia, ma è Esther quella che riesce a non bruciare il cibo.»

Raggiunsero il pianerottolo e passarono sotto l'ingresso a volta. «Il terzo piano è quello delle aree comuni. Mensa e cucine, sala conferenze, stanze inutili mai usate per i ricevimenti» illustrò Avan. «Il secondo ha le stanze degli ospiti. Ho sempre pensato che siano troppe, ma i miei genitori dicevano che non ce ne possono mai essere abbastanza in un'ambasciata. Il primo piano è quello degli uffici, anche se al momento gli addetti alle pulizie sono più numerosi degli impiegati. Il pianoterra per metà è casa mia e per metà zone di transito. C'è un'infermeria – e sorprendentemente anche un'infermiera che ci lavora. Non ventiquattr'ore su ventiquattro, ma la si può sempre buttare giù dal letto in casi di emergenza. Anche mia sorella se la cava, è brava a capire i sintomi dei pazienti, anche se non è efficiente con il pronto soccorso. E io... io me la cavo con i farmaci. Era mia madre quella ci capiva di più di queste cose. Scusa sto straparlando.»

Ingrid non sembrava infastidita. «Darete una camera anche a me?»

«Sì, almeno per stanotte.»

«Quindi sono un'ospite.»

«Sei la benvenuta finché non avrai un posto dove andare. O finché non infrangi qualche legge.»

«Avrò un posto dove andare?»

«Eventualmente. Prima dobbiamo scoprire chi sei. Tu forse non lo ricordi, ma non puoi essere spuntata dal nulla. Qui sei sotto la mia, la nostra protezione. Ci assicureremo che non ti sia stato fatto del male e in caso ti aiuteremo.»

«Come?» chiese Ingrid, e un attimo dopo: «Perché?»

«Domani Esther ti accompagnerà dagli arborei per farti visitare e eventualmente identificare. È un problema per te?»

Ingrid esibì un'espressione neutra, quasi indecisa. «È un problema?»

Avan non seppe cosa risponde. Si fermò davanti a delle doppie porte e frugò nelle tasche.

«Perché?» ripeté Ingrid.

Avan la fissò direttamente negli occhi – aveva delle iridi ametista e le pupille da rettile. «Perché è il motivo per cui esistono le ambasciate,» rispose, come se fosse la cosa più ovvia e più importante del mondo, come se ne andasse fiero. «Da prima che i mutaforma prendessero il potere, da prima che gli arborei diventassero un'autorità, le ambasciate sconosciute esistono per aiutare le persone quando il mondo umano non può.»

«E se io fossi umana?»

Avan aggrottò le sopracciglia. «Allora cosa? Saresti una specie come le altre.»

Ingrid sorrise e Avan estrasse un badge dalla tasca, lo strisciò in un apparecchio sulla parete e le porte produssero un click.

oOo

Dopo averla sperimentata un dozzina di volte, Dorothy cominciava a pensare che la penetrazione anale non facesse per lei.

Il lubrificante rendeva tutto viscido e non necessariamente più comodo e il massimo del piacere che ne traeva era una sorta di massaggio alle viscere che non aveva ancora imparato a gestire pienamente.

A Jo invece sembrava piacere, e Dorothy era pur sempre una mutaforma, le parti del suo corpo erano come mattoncini lego che poteva riarrangiare a piacimento. Poteva spostare il proprio clitoride se voleva, o poteva farsene spuntare più di uno.

Tutto diventava estremamente fluido e malleabile durante il sesso. Il suo intero corpo reinventava le leggi della dinamica. La sua vera forma, le sembianze a cui la sua carne tornava automaticamente prima o poi, era l'unico residuo di coerenza della realtà.

Jo le spostò i capelli dalla spalla e fece scorrere la lingua sul suo collo. Dorothy inclinò la testa di lato per esporre quanta più pelle possibile. Lo sentì ansimare contro il suo orecchio e afferrò il braccio con cui le stringeva il petto e le spalle. Le loro dita si serrarono in una morsa.

Lui le strinse l'inguine e la mano affondò nella sua gamba come in un cuscino antistress.

Dorothy percepì le proprie ossa polverizzarsi e ricomposi mentre le spinte si facevano più profonde e più ravvicinate. Si ritrovò a corto di fiato e un brivido inaspettato le attraversò la colonna.

Si puntellò con una mano al materasso e assecondò i movimenti del proprio partner finché non lo sentì perdere definitivamente il ritmo e gemere vigorosamente contro le sue scapole.

Rimasero immobili per un po', dopo, lei inginocchiata sul bordo del letto sfatto e Jo in piedi dietro di lei. Intrecciati, incastrati, sovrapposti.

Dorothy si sentiva la testa leggera e lo stomaco pieno di farfalle come dopo ore sulle giostre. Aveva la pelle d'oca nonostante il sudore. E la schiena – la schiena era stata frammentata e ricostruita da capo.

Jo si ritrasse con delicatezza, poi arrotolò su se stessa l'estremità del preservativo interno e lo sfilò con mano ferma.

Avevano finito quelli esterni la sera prima e ora stavano usando quelli interni di riserva perché entrambi erano troppo pigri e troppo lussuriosi per fare una passeggiata fuori dal parco e andare a comprarne di nuovi.

Dorothy si lasciò scivolare sul materasso a pancia in giù mentre lo ascoltava allontanarsi per buttare il profilattico e poi venirsi a stendere accanto a lei. Le accarezzò un fianco e poi la abbracciò da dietro, stringendola contro il proprio petto così che entrambi potessero sentire il battito accelerato dell'altro attraverso la pelle.

«Tutto okay?» mormorò Jo sollevando leggermente la testa anche se non poteva vederla in faccia.

«Mmh-hum» fece lei, gli occhi chiusi e i muscoli abbandonati al rilassamento più totale. Sollevò le loro mani intrecciate e gli posò un bacio sulle nocche.

Non sentì il rumore della testa di Jo che tornava sul cuscino. «Sicura?»

Dorothy aprì pigramente gli occhi e si voltò dall'altro lato senza sciogliere l'abbraccio.

«Ti sembra che mi stia lamentando?» lo rimbeccò, passandogli un braccio sul fianco e accarezzandogli la schiena.

«No.» Jo la fissò attraverso le ciglia con i suoi intensi occhi vermigli. «Il che è insolito dati gli interminabili resoconti fisiologici delle altre volte.»

Dorothy rise suo malgrado. E Jo catturò la sua risata in una serie di baci leggeri. Dorothy avvinghiò con una mano i suoi capelli rossi e lo baciò più forte. Strinse l'altra mano a coppa sotto la sua mandibola e sprofondò con la lingua nella sua bocca. Si lasciò issare a cavalcioni su di lui, sentendolo ancora caldo e teso contro l'internocoscia.

Con una risata maligna lo scavalcò e scese dal letto dall'altra parte.

Jo protestò e cercò di trattenerla per un braccio, ma lei volteggiò via e si infilò nel bagno senza chiudere la porta.

Lo sentì alzarsi dal letto e aprire il mini frigobar mentre lei si sforzava di ricordare come usare i muscoli per urinare.

«Abbiamo finito proprio tutto?»

C'erano buone probabilità che in effetti avessero consumato tutte le scorte di fluidi e viveri.

«Vedi nella mia valigia!» disse sporgendosi inutilmente in avanti.

Lo sentì frugare.

Quando uscì dal bagno lo trovò steso al centro del letto in tutta la sua gloria di corpo maschile, la pelle azzurro ghiaccio appena più colorita del solito e i capelli rosso fiamma più disordinati che mai.

«Solo i tuoi tremendi cubetti di zenzero candito.»

«A quale elfo non piacciono i cubetti di zenzero?»

«A questo elfo.»

Dorothy attraversò l'arcipelago di vestiti che ricopriva il pavimento per arrivare al comodino e vedere l'ora dal cellulare. Un quarto alle otto – un orario decente per la cena.

Recuperò i propri pantaloni della tuta e li indossò senza intimo, poi infilò i piedi nelle scarpe da ginnastica senza cercare i calzini. Infine si rimise la propria polo bianca e sopra la felpa di Jo abbandonata su una sedia.

«Vado in cerca di cibo» annunciò.

«Sei la donna della vita, Doth!» replicò Jo dal letto prima che avesse chiuso la porta.

oOo

La mensa era più grande di quanto sembrasse, ma i separé blu e oro che isolavano frammentavano l'ambiente e ingannavano l'occhio.

Ingrid aveva la sensazione che visti dall'alto i separé formassero qualche tipo di disegno o composizione. Un semplice mandala forse, o un arabesco più snodato.

Avan la guidò attraverso il labirinto di tavoli di legno, sedie di plastica e acciaio e pareti di stoffa fino al fondo del locale dove un lungo bancone di compensato separava i tavoli dagli scaffali da tavola calda che occupavano l'intera parete. Solo in uno c'era cibo.

«Serviti pure» invitò Avan mentre passava in rassegna i piatti già pronti dall'altra parte del vetro. Selezionò della frittura in insetti e un'insalata di pomodori e olive, poi si voltò a vedere che cosa avesse scelto Ingrid.

La ragazza aveva impilato contro il petto un piatto di salmone, una ciotola di riso, una porzione di verza rossa e--

«Quello è cervello, lo sai, sì?» si assicurò Avan.

Ingrid immerse un dito nella poltiglia grumosa e se lo mise in bocca. «Di 'osa?» mugugnò.

«Pecora, credo» rispose Avan sedendosi sul bancone e posando i propri piatti davanti a sé.

Ingrid si arrampicò di fronte a lui. Prese un insetto fritto dalla sua ciotola e lo studiò un momento prima di lanciarselo in bocca.

«Non ti schifi di nulla, eh?»

Ingrid lo guardò con aria interrogativa e Avan scrollò le spalle. «Finché digerisci tutto per me non c'è problema.» Le passò delle posate prese da un cassetto e un tovagliolo di stoffa tirato fuori da un altro.

«Cosa mangia un fuoco fatuo?» chiese Ingrid impugnando il coltello con insolita destrezza e osservando distrattamente la lama.

«Sole e sali minerali» scherzò Avan addentando un paio di libellule fritte. «Non è una creatura in carne ed ossa, non si nutre come noi.»

Ingrid lo fissò con la bocca piena riso e cervello come per incitarlo a dirle qualcosa che non sapesse già.

«Per un po' ha posseduto le persone, quando ancora non sapeva che tipo di spettro fosse. Ora credo che sia in quello stadio in cui esiste e basta. O qualcosa del genere.»

«O qualcosa del genere» ripeté Ingrid.

oOo

A Dorothy piaceva particolarmente il terzo piano. Per via del drago.

L'immenso scheletro dell'animale era sospeso tra il soffitto e una lastra di plexiglass, congelato in posizione di volto, le ali spiegate, il collo proteso in avanti, le zampe dritte ai lati della coda. Maestoso e gigantesco anche dopo secoli dalla sua morte.

Un pezzo del genere doveva essere costato una fortuna ai De Angelis, e anche con tutti i soldi del mondo Dorothy non si capacitava come e da chi lo avessero ottenuto.

Si sfilò dal polso uno degli elastici e raccolse i capelli in una coda di cavallo, poi recuperò il badge di Jonathan dalla tasca della felpa per entrare nella mensa.

Non si preoccupò di cambiare faccia. Aveva una scusa ufficiale per trovarsi lì, si era registrata con il suo vero nome, al contrario di Jo, e gli abitanti dell'ambasciata l'avevano vista più volte nelle sue vere sembianze. Probabilmente la sensitiva cieca aveva anche assistito ai suoi orgasmi.

Prese la via più diretta attraverso i tavoli. Chissà se c'era ancora del salmone. O lo spezzatino di pecora – Jo era peggio di una pianta carnivora, non ne aveva mai abbastanza. Non le sarebbero dispiaciute delle verdure, con tanto olio e tanto sale. E doveva ricordarsi di prendere delle bottiglietta d'acqua e del--

La riconobbe prima di vederla davvero. La mise a fuoco prima che entrasse del tutto nel suo calmo visivo.

Fu solo una sagoma. Una cascata di boccoli neri e il naso appena all'insù. Le braccia magre, il modo in cui stava seduta, in cui muoveva la testa.

Dorothy continuò a camminare per inerzia, ma il suo sguardo rimase incollato alla ragazza seduta davanti all'ambasciatore.

Ingrid alzò gli occhi su di lei e registrò la sua presenza, ma non diede segni di riconoscimento.

L'ambasciatore le fece un cenno di saluto che Dorothy ricambiò automaticamente.

Raggiunse gli scaffali con le pietanze, grata di dare loro le spalle.

Che ore erano? Le otto di sera. La sensitiva era già sveglia? Probabilmente sì.

Doveva controllare i propri pensieri. Ma la sua mente era stata svuotata.

Lo spezzatino di carne. Eccolo. Prese entrambi i piatti e li mise su un vassoio. E l'insalata. Le bottigliette. Cos'altro?

La stavano guardando?

Si avvicinò al bancone a testa bassa. Aprì i cassetti a caso in cerca delle posate. E dei tovaglioli. Erano fette biscottate quelle?

«Anche oggi cena in camera?» L'ambasciatore non sembrava guardarla in modo diverso dal solito. Ingrid era disinteressata.

«Riporto i piatti domani mattina.»

«E le posate!»

«Ho mai creato problemi?»

L'ambasciatore sollevò le mani in segno di resa e Dorothy si allontanò stringendo forte il vassoio. Si costrinse a camminare lentamente attraverso la mensa, ma una volta fuori accelerò il passo. Si precipitò giù per le scale, poi attraverso il corridoio del secondo piano fino alla propria stanza.

Si fece sdoppiare un avambraccio e con la nuova mano recuperò la chiave e aprì la porta.

Jonathan aveva messo i Guns N'Roses a tutto volume. Si stava tamponando i capelli bagnati con un asciugamano. Si irrigidì appena vide l'espressione sul volto di Dorothy.

«Cosa?»

Dorothy lasciò il vassoio sul tavolo. «Devo chiamare mia madre. Dobbiamo fare sesso.»

«Adesso?»

«Si, adesso!» urlò sopra la musica.

«...okay.»

Scalciò le scarpe e si sfilò i pantaloni. Si allungò per prendere il cellulare dal comodino mentre si sedeva sul letto, le gambe allargate.

«Doth.» Jonathan era proprio davanti a lei.

«Non farmi pensare» lo fissò negli occhi perché capisse. «Ti prego non farmi pensare.»

Lui annuì, una sola volta.

Dorothy digitò il numero di sua madre mentre Jo si metteva in ginocchio.

oOo

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