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"Quando l'universo vuole salvare un essere umano, gli manda l'amore"
OLIVIA
Respira. Cazzo. Respira.
Di nuovo, di nuovo.
Respira.
Mi succedeva spesso di sentirmi così...affogata dal mio stesso respiro, dalla mia stessa aria.
Mi riprendevo solo dopo aver pianto per ore. Quando gli occhi facevano così male da sembrar voler uscire dalle orbite o volersi spegnere per sempre.
Brutti pensieri, mi ripetevo nella testa.
Ma non potevo fare a meno di averli.
Quella cosa aveva un nome: ANSIA
Eravamo cresciute insieme, mano nella mano, come due sorelle che si odiano ma non possono fare a meno l'una dell'altra. Da piccola tutto sembrava più semplice, tutto più limpido. I pianti erano limitati, il respiro non mi mancava mai, il peso sul petto era più leggero, anche se c'era sempre stato. Poi era peggiorato tutto. Come se una valanga avesse travolto quella bambina interiore che voleva restare per sempre all'interno di me, e che ora sentivo essere scomparsa.
Avevo paura dei posti affollati, della gente che parlava troppo forte, delle litigate, come quelle dei miei, avevo paura di me stessa e delle mie stesse reazioni.
Da quando ci eravamo trasferiti a New York dall'Italia dai miei nonni materni, dopo la separazione dei miei le cose erano rimaste statiche, ansia si, ma l'ultimo attacco era stato mesi prima e stranamente non si era più ripresentato. Forse era stanco persino il mio cervello di farmi stare male. Forse eravamo stanchi entrambi.
"Oliviaaa faremo tardi! Scendi e vieni a fare colazione!"
La voce di mia madre tuonò, ma non me ne importò molto.
Preparai un finto sorriso allo specchio, indossai la mia maschera quotidiana e scesi le scale a chiocciola in legno che portavano dritte al salotto.
"Eccomi mamma" esordii con un ghigno, più che un sorriso.
"Quando toglierai quella maledetta felpa e indosserai qualcosa di più consono alla scuola? Qualcosa di più sofisticato? Non ricordi più chi sei?"
Abbassai lo sguardo sulla mia larga felpa nera e jeans strappati sotto. Non risposi. Era l'unica cosa che riuscivo ad indossare da settimane, lavandola di tanto in tanto, perché mi faceva sentire al sicuro. La me di prima, prima che la situazione peggiorasse intendo, sarebbe inorridita.
Entrammo in macchina e costeggiammo Central Park. Dopo uno scarso quarto d'ora arrivammo e scesi senza ricambiare il saluto di mia madre che se ne andò confabulando parolacce.
La scuola era enorme, un enorme vespaio centinellato da aule, lunghi corridoi in legno, e studenti, centinaia di studenti. Adoravo studiare ma non adoravo di certo la scuola. Amavo leggere ma non ciò che mi veniva obbligato.
Nonostante ciò ero una studentessa modello, proprio come voleva mia madre. Entrai nell'aula, e dopo pochi secondi mi ritrovai letteralmente a terra.
Ahi, cazzo.
La mia faccia dolorante spalmata sul parquet freddo come la temperatura esterna. Le mie braccia e gambe contorte come una bambola lanciata a terra da una bambino che si è stufato di giocare. Mi alzai tra le risate della classe, e il viso sconvolto del professore.
"Signor Harper, è solo il primo giorno..." sospirò il Professore di Filosofia "si rechi dal Preside, immediatamente."
Vidi con chi stava parlando il Professore solo mentre usciva, non mi era importato di farlo prima. Un ragazzo alto, con i capelli neri scompigliati e un grande tatuaggio dietro il braccio. Notai solo questo perché era di spalle.
Mentre ero in cerca di un posto in cui sedermi, mi sentì chiamare "Signorina...Love, giusto?"
Annuii debolmente, mettendomi una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio. "Si rechi anche lei in Presidenza, perché non ha indosso la divisa scolastica."
"E' il mio primo giorno... dissi in mia difesa, peggiorando la situazione "io no-non sapevo nulla della divisa"
"Signorina Love è stata mandata una lettera a tutti voi settimane fa, col nuovo regolamento scolastico"
Mannaggia, la lettera accidentalmente bruciata da mio nonno, pensai.
Abbassai la testa e uscii dalla classe, chiesi ad una ragazza dove fosse la Presidenza e dopo un po' di giri contorti, ci arrivai. Mi sedetti in una delle sedie d'attesa e riconobbi affianco a me il ragazzo che mi aveva fatto inciampare solo una decina di minuti prima.
"Grazie mille!" dissi al ragazzo.
"Non c'è di che" rispose senza alzare gli occhi dal cellulare.
"Scherzerai vero?" sbottai "Mi hai fatto finire in Presidenza, il primo giorno! Grazie a te verrò espulsa!"
"Prima cosa, non è colpa mia se vieni a scuola come una barbona" disse senza distogliere gli occhi dalla home di Instagram "Seconda, qui non espellono nessuno, almeno che tu non sia me. Solo io ho questo onore."
Finalmente a salvarmi dall'uccidere quel ragazzo, irruppe il Preside.
"Ciao David, entra" disse l'uomo alto e pelato con occhi color castagna.
Ciao David? Non era certo questo il modo in cui mi aspettavo che trattasse un delinquente come quello.
Finalmente il ragazzo alzò la testa, mimò il gesto di un bacio con la mano rivolgendomi un'occhiata sfuggente. Aveva due occhi verdi smeraldo, o verde foresta, non saprei bene come definirli e non sapevo neanche perché mi ero ritrovata a pensarci.
Il colloquio con il Preside durò poco, mi sorrise soltanto e mi disse che era normale sbagliare e che però, da quel momento in poi, avrei dovuto indossare sempre la divisa.
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