Capitolo 8

Il telefono squilla ancora, un rumore costante della giornata di ieri e della mattina di oggi. So che è Maddalena a chiamare, per sapere come sto, per avere degli aggiornamenti. E io vorrei davvero  risponderle, vorrei poter accettare la chiamata e raccontarle tutto, come negli anni ho sempre fatto. Ma non posso, non posso ancora parlare di tutta questa storia del marchio, dell'essere un ibrido, non posso rischiare di spaventarla. Perché la verità è che non potrei accettare l'eventualità che non mi creda. Un conto è credere ai miei sogni, credere che vedevo persone morire, un altro è accettare l'esistenza di un mondo nascosto, popolato da esseri sovrannaturali, e di dimensioni che collegano mondo terreno e ultraterreno. Solo quando avrò  chiarito tutti i miei dubbi, saprò  finalmente come raccontarle tutto. Perciò, fino a quel momento, lascio che il telefono squilli.
Alla fine mia madre e mio padre non si sono accorti di nulla, né del bernoccolo, né del marchio, camuffato sotto orribili vestaglie di cotone. Ogni giorno il marchio si espande a coprire una porzione maggiore di pelle; oggi riesco persino ad intravedere la prima foglia, quella liscia con le macchie rosse. Sarà sempre più difficile nasconderlo, specialmente ai miei genitori. Ma non posso rischiare che lo vedano. Non ancora. Forse prima o poi arriverà  il momento in cui potrò parlarne anche con loro.
Mia madre non ha nemmeno commentato il fatto che non avessi trovato un vestito nuovo da indossare per l'inaugurazione di oggi, ma le ho assicurato che non avrei messo i jeans e che sarei stata la figlia perfetta, intonata alla famiglia perfetta, come voleva lei. Scelgo di indossare un vestito nero e stretto, in cotone, lungo fino al ginocchio, ma a maniche corte. Devo trovare qualcosa per coprire il marchio. Non voglio che lo vedano i miei, figuriamoci tutte le persone che saranno presenti. Frugo in fretta nell'armadio e tiro fuori una specie di kimono in finta seta rosa, decorato con una stampa di fiori di ciliegio. Per anni lo avevo usato solamente come copricostume, ma fuori è ancora troppo caldo per indossare una giacca e quindi me lo faccio andare bene.Mi siedo alla scrivania  e stendo un leggero velo di correttore sulle occhiaie troppo marcate, nonostante abbia a passato l'intera giornata precedente a dormire. Ma il mio sonno non mi offre mai il riposo di cui avrei bisogno. Aggiungo un po' di blush rosa per dare colore alle guance, un rossetto rosa tenue e un po' di mascara. Nulla di esagerato, ma nel complesso appaio una tranquilla e serena diciottenne. Mi guardo un ultima volta allo specchio mentre indosso scarpe e orecchini, poi sistemo velocemente i capelli ricci. 'Pettinarsi' non è una parola che fa parte del mio vocabolario.
'Non sto male' penso e mi guardo ancora, riflessa nello specchio
'Sembro la stessa Elizabeth di sempre', ma so che, seppure l'immagine che vedo apparentemente non sia cambiata, io non sono più la stessa. Mi sembra assurdo pensare di essere cambiata in due giorni, ma forse è solo ora che ho compreso l'entità di un cambiamento iniziato da tempo. 

"Stai benissimo" esordisce mio padre quando mi vede scendere in salotto. Lui e mia madre sono elegantissimi, lei con il suo perfetto tailleur color lavanda, lui con il suo impeccabile completo nero.
Mi sento così stonata rispetto a loro, che appaiono così formali, ordinati e distinti, mentre io, invece, sento di essere esattamente l'opposto.
"Sei bellissima, tesoro mio" aggiunge mia madre ed entrambi si avvicinano per abbracciarmi. So per certo che lei ha notato il mio disagio, lo vedo da come mi guarda, lei sa sempre come mi sento.
"Prima andiamo e prima torniamo" aggiungo io e loro due ridono, sanno che ,se fosse per me, avrei evitato quest'occasione come un'interrogazione in filosofia.
"Sono sicuro che rimarrai sorpresa dall'evento, Elizabeth".
Mio padre e mia madre si scambiano uno strano sguardo, come se sapessero qualcosa che io non so. Ma prima che io possa fare domande, mia madre apre la porta di casa e ci fa segno di uscire. "Preside Dorato, sono quasi le cinque, non vorrà tardare per il suo discorso" dice con estremo rigore e un leggero sarcasmo nella voce. E quando lui le si avvicina per varcare l'uscio e lasciarle un leggero bacio sulla guancia, lei coglie l'occasione per sistemargli la spilla con lo stemma della scuola sul bavero. Perché si ostini a indossare quella vecchia spilla non lo capirò mai. Sarà pure lo stemma della scuola, ma io la trovo un vero pugno nell'occhio, con quelle tre spade dorate incrociate.
Non voglio proprio andare, quella brutta sensazione allo stomaco si è ripresentata , e ormai ho capito che dietro queste sensazioni c'è spesso un motivo reale. So già che mi pentirò di essere andata.

La scuola che mio padre dirige è un liceo privato, il San Michele, oltre a questo non so molto e non ho mai conosciuto in prima persona nessuno che lo frequentasse. Fino ad oggi non avevo mai nemmeno  varcato la soglia dell'ingresso, avevo l'abitudine di aspettare mio padre fuori, se andavo a trovarlo, e non mi era mai venuta la minima curiosità di entrare. L'edificio così imponente e antico mi aveva sempre intimorita. Persino il portone dell'ingresso riusciva a rappresentare al meglio l'austerità della scuola, alto, di legno tutto intarsiato, con i battenti in oro che richiamavano lo stemma con le tre spade.
Mio padre ci scorta attraverso l'ampio ingresso verso quella che dovrebbe essere una palestra, ma che in realtà sembra essere tutt'altro. Non ci sono pavimenti in gomma, reti da pallacanestro o tribune, non vedo palle, racchette o attrezzi da gioco. Il pavimento è coperto da un lucidissimo parquet in mogano, illuminato dalla luce calda del pomeriggio che filtra attraverso  un lucernario dallo stile moderno, incorniciato da una rete di travi in legno identiche a quelle del pavimento. Le pareti sono coperte da enormi teche espositive, lasciate però vuote. Al centro della stanza si erge invece una struttura che per l'occasione deve essere stata adibita a palco, come testimoniato dall'asta del microfono e dalla casse posizionetevi al di sopra, ma che sembra in realtà una specie di pedana da combattimento, alla quale è  stata rimossa la rete. Mi domando che razza di sport pratichino in questa scuola e perché tutto sembri essere così fuori dal comune. Intanto però quella sensazione di costrizione, di disagio non mi lascia libera e continua a mordermi lo stomaco. Dovrei ascoltarla e scappare fin quando sono in tempo. Ma prima che possa meditare la fuga, mia madre mi prende sotto braccio e mi tiene stretta a lei, quasi come se sapesse che non intendo rimanere.
Mio padre cammina accanto a me, con una mano posata sulla mia spalla. Sono entrambi così tanto impostati che quasi non li riconosco.
La palestra è gremita di persone e non immaginavo ci sarebbero stati tanti ragazzi. Noto che alcuni di loro sono accerchiati dai genitori, così come i miei stanno facendo con me. E non mi sfugge il dettaglio che almeno un membro di ogni famiglia porta la stessa spilla di mio padre. Qualcosa mi insospettisce, perché qui sembra che nulla sia lasciato al caso.
Mia madre continua a tenermi stretta, mentre rivolge sorrisi di circostanza alle persone che incontra, come se fossero vecchie conoscenze, ma io non riconosco nessuno. Mio padre invece si è defilato tacitamente.
"Attenzione prego" la sua voce riecheggia nell'ampia stanza. "Avvicinatevi tutti"
Sento il cuore iniziare a battere veloce ed è  come se l'istinto preparasse il mio corpo alla fuga.
"Finalmente è giunto il giorno dell'arruolamento- la sua voce è ricca di orgoglio, la sua postura richiama fierezza- oggi finalmente avremo nuovi soldati tra le nostre fila"
La situazione si sta facendo più strana del previsto. E per la seconda volta, in meno di una settimana, so che sto per sentire qualcosa a cui farò fatica a credere.

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