Capitolo 13

Credo sia ormai sera inoltrata, la luce della luna che illumina il salotto di Ines è intensa e argentea.
Forse sarebbe l'ora di tornare a casa, dovrei alzarmi e andare via. Ma non voglio. Qui mi sento tranquilla e al sicuro, mentre a casa con i miei genitori non potrei mai sentirmi così. Non più almeno.
"Posso rimanere qui questa notte, Ines?" le chiedo con la voce strozzata dalla timidezza.
"Certo, ne sarei immensamente felice"
So che è sincera e so quanto per lei sia importante avermi qui. Potrei dire lo stesso dei miei genitori, se sapessero chi sono?
Più ripenso al pomeriggio passato con loro e più mi sento in collera. Quella specie di imboscata sotto forma di cerimonia di fedeltà, quel giuramento pronunciato a mezza bocca, quell'orrendo pugnale che ancora porto dietro, mi fanno solo venir voglia di scappare e non tornare mai più. Ho passato tutta la vita con i miei genitori, sentendomi ovunque a casa purché fossi con loro. Ma in questo momento, se penso di stargli accanto, ho solo paura.
"Vado a prepararti il letto nella stanza di sopra" mi accarezza di nuovo la spalla e mi rilasso sotto il suo tocco. Pensare a miei genitori mi aveva reso rigida come un manico di scopa.
"Grazie, Ines"
"Appena te la sentirai, chiamami nonna, ti prego"
Io annuisco silenziosa mentre lei si alza e lascia la stanza.

"Forse è meglio che vada anche io"
Maddalena è in piedi, di fronte al divano, avvolta nella penombra del chiaro di luna. La luce che filtra dalla finestra sembra riflettersi sulla sua pelle come su uno specchio d'acqua, facendola apparire ancora più pallida del solito.
Il sangue, che le copriva mani e vestiti, è ormai secco e raggrumato, e lei sembra una vecchia bambola di porcellana corrosa dal tempo, con i cappelli rossi in disordine ad incorniciarle il viso.
Io vorrei dirle qualcosa, farle delle domande, ma non ne ho la forza. Forse sono giunta al mio limite. Oggi ho perso lei e i miei genitori, i miei capi saldi, e non so quando sarò in grado di muovermi nel mondo da sola, seppur con Ines al mio fianco.
Maddalena si avvicina lentamente alla porta e il suono dei suoi tacchi riecheggia nella stanza, praticamente avvolta nel silenzio fatta eccezione per il rumore dei miei respiri. Sento solo me respirare, lo realizzo solo ora.
Mi volto verso di lei e la guardo. È ferma sulla porta, il suo petto non si muove, sembra quasi una statua di marmo.
"Tu non respiri" le dico d'un tratto.
"Sono una vampira, mi basta poco ossigeno, non ho bisogno di affannarmi per prendere aria."
Sorride, di nuovo il suo sorriso presuntuoso.
Io non rispondo, anche se credo che lei si aspetti una mia risposta a tono, ma, sinceramente, non sono capace di darle quello che vuole.
"Per quello che può valere, Elizabeth, è stato bello esserti amica."
Detto questo si volta e lascia la stanza.
'Per quello che può valere, Mad, credevo lo saremmo state per sempre' penso, mentre il portone sbatte forte all'ingresso. È andata via, la mia migliore amica è uscita dalla mia vita così come ci è entrata: bruscamente e lasciando il segno.

La stanza che mi ha preparato Ines è molto accogliente ed essenziale. Ci sono due letti singoli sulla parete appena di fronte a quella della finestra, separati da un comodino su cui è posata una lampada da lettura. Solo uno dei due letti è preparato per la notte e quando Ines mi lascia sola mi sdraio subito su quello, sprofondando tra le lenzuola bianche che sanno di pulito. Dietro la testa ho ben tre cuscini e ai piedi del letto è stata adagiata una coperta rossa fatta di fili di cotone intrecciati. Ines si è preoccupata che avessi tutto il necessario per passare una notte tranquilla, ma non credo che a settembre a Roma soffrirò mai il freddo.
Scalcio via i sandali dai piedi, che finiscono a terra insieme al kimono rosa che ho indossato tutto il giorno. Il terzo cuscino lo lancio sul letto rimasto vuoto e sistemo i due rimanenti per stare più comoda.
Mi porto il braccio destro davanti agli occhi e lo guardo di nuovo, come ho fatto tante volte in questi giorni. Mi immagino il marchio completo che copre tutto il braccio e mi chiedo come mai non sia spaventata all'idea. Mi sono sempre piaciuti i tatuaggi, ne avrei voluto qualcuno, magari piccolo e delicato, ma il marchio è davvero oltre ciò che avrei mai immaginato.
Mi piace tanto però, e mi piace la sensazione che mi dà guardarlo, mi aiuta svuotare la mente.
Mi stendo finalmente sotto le lenzuola e chiudo gli occhi, desiderosa di porre fine a questa giornata.

Fa freddo. L'aria è gelida, carica di ghiaccio. Il cielo è coperto da una pesante coltre di nebbia, che ingrigisce l'ambiente e lo colma di austerità. Non riesco a capire se sia mattina o pomeriggio, la poca luce che passa attraverso la fitta nebbia non mi permette di capirlo.
Non riconosco nulla attorno a me. Dovrebbe essere una specie di parcheggio, ma solo poche macchine vi sono posteggiate. Non sembrano macchine di nuova generazione, le carrozzerie sono spesse e in alcuni punti anche arrugginite.
Alle mie spalle vedo una specie di capannone, forse si tratta di una rimessa agricola o di una specie di magazzino industriale. Le pareti sono fatte di vecchi pannelli di plastica e il tetto, che un tempo doveva essere in rame, è ormai totalmente ossidato e appare verde. È una struttura quasi fatiscente, ma non credo possa definirsi abbandonata.
Sento delle voci provenire dall'interno, riesco a distinguere delle persone parlare ad alta voce, ma non riesco a seguire il filo del discorso. I toni si fanno accesi e qualcuno inizia ad urlare. Sento della grida femminili stagliarsi sopra le altre e poi, all'improvviso, piomba il silenzio. Non si sente più nulla, ad eccezioni del fruscio del vento che ha iniziato a soffiare. La temperatura si fa ancora più bassa e ad ogni sferzata il vento mi taglia la pelle come affilate schegge di vetro.
Mi guardo intorno, ma tutto tace. Sembra quasi che il tempo si sia fermato.
Il rumore di uno sparo mi buca i timpani con violenza, all'improvviso. Il mio corpo prende a tremare, sicuramente più per la paura che per il freddo. Percepisco delle grida dilanianti provenire dall'interno della struttura, esprimono puro dolore. Fa male il solo sentirle. Dalla vecchia porta arrugginita escono due uomini vestiti di nero, sembrano incolumi. Solo guardandoli con più attenzione noto che sono armati;;alla cintura portano legata una fondina dalla quale sporge il calcio di una pistola, mentre stretta attorno alla gamba vedo una fodera con all'interno un pugnale in bronzo. Riconosco subito lo stemma sulla fodera, lo stesso che spicca sulla spilla che portano legata al bavero del cappotto. Fanno parte della Lega. Sono cacciatori. Non sembrano affrettarsi a raggiungere la macchina, anzi appaiono piuttosto appagati. Le urla non si placano e continuano a squarciare il silenzio di quel tetro parcheggio. Mi avvicino alla porta del capannone, lasciata spalancata, e guardo dentro. Sento subito gli occhi riempirsi di lacrime, che respingo via insieme al conato di vomito che mi brucia l'esofago. Il corpo di un uomo giace a terra, coperto di sangue. È legato con pesanti catene d'argento, che gli si stringono persino attorno alla gola e nei punti in cui sono a contatto con la pelle, questa appare lacera e bruciata. C'è tanto sangue, ovunque. Zampilla ancora da un'ampia ferita al centro della fronte, inzuppando vestiti e capelli. La bocca dell'uomo è tenuta aperta da un mazzetto di fiori viola, che deve essere stato spinto dentro a forza fino a rompergli i denti. Ne sono certa, perché li vedo sparsi a terra e come piccole isole di ghiaccio spiccano subito a contrasto con il mare rosso cremisi su cui galleggiano. Sugli occhi sono posate due monete, sempre argentate, che fumano a contatto con i bulbi.
Una donna esile, davvero troppo magra, è legata con le stesse catene dall'altro lato del capannone. Urla, scalcia e si agita disperata, cercando di avvicinarsi al corpo che giace a terra.
I suoi occhi sono rossi, luminosi come rubini. Con le unghie, lunghe e aguzze come artigli, cerca di liberarsi dalle catene che le tengono le braccia strette attorno alla vita. I suoi sforzi, però, non servono a nulla se non a provocarle altre ferite, dove la pelle sfrega contro le catene.
Quanta violenza! Come si può essere capaci di fare una cosa del genere senza sentirsi dei mostri?
I due uomini fuori si dirigono verso una vecchia Lotus nera, sicuramente una delle macchine dall'aspetto meno usurato in quel parcheggio. Aprono le portiere, senza nemmeno fermarsi a guardare indietro, come se l'orrore che si stanno lasciando alla spalle non sia degno di essere ricordato.
Il rombo del motore di una moto, fino a poco prima udibile solo in lontananza, si fa sempre più vicino fino a quando non irrompe nel parcheggio. Si ferma di fronte la Lotus, bloccandole la strada. I due uomini all'interno dell'abitacolo sembrano sorpresi, ma per nulla spaventati. Istintivamente, però, portano entrambi la mano alla fondina.
La figura alla guida della moto si sfila il casco e lo lancia a terra con irruenza, rivelando il proprio volto ai due cacciatori. Occhi grigi, capelli castani e zigomi spigolosi, tratti che ormai mi sono fin troppo familiari. Un volto e degli occhi che ormai conosco bene, ma che celano uno sguardo così cupo da mettermi i brividi. È proprio da quello sguardo, dall'inquietudine che mi suscita, che capisco che quello non è Daniel, sebbene la somiglianza sia impressionante. Sulla guancia sinistra spicca una marcata cicatrice rossastra, che gli deturpa il viso da perfetto angelo caduto.
Non credo di averlo mai visto in altre visioni, eppure mi sembra di averlo già conosciuto in qualche modo. Quello sguardo, così aggressivo e duro, non mi è nuovo. Sento il solito nodo allo stomaco, che ormai ho imparato a riconoscere come un campanello di allarme, stringersi quasi fino a togliermi il respiro. Sono sicura che questa visione mi farà più effetto del solito.
Mentre fissa i cacciatori i suoi occhi si tingono di cremisi e un potente ululato fuoriesce dalla sue labbra, lasciando poi intravedere le zanne. Li sta apertamente sfidando a combattere.
I due cacciatori escono dall'auto con le pistole puntate verso il loro nuovo bersaglio, le dita pronte a premere il grilletto. Parte il primo colpo, che viene magistralmente evitato. L'uomo si muove agile e veloce, e si porta subito alle loro spalle. Porta il braccio attorno al collo di uno dei due cacciatori, quello dai capelli castani e gli occhi tondi. Lo stringe così forte da farlo annaspare in cerca d'aria, mentre le labbra gli si fanno violacee e lascia cadere a terra la pistola. L'altro cacciatore, dai capelli brizzolati e ordinatamente tirati indietro, gli punta la pistola alla testa. Parte il secondo colpo, ma l'uomo si fa scudo della sua vittima, che urla nel momento in cui viene colpito dal proiettile. Lo lascia cadere a terra agonizzante e portandosi di fronte al cacciatore brizzolato si tira su le maniche della giacca di pelle nera, sfoderando gli artigli.
"A noi due, Dorato"
Dorato? Ma perché si scopre sempre che alla fine c'entra un membro della mia famiglia. C'è sempre qualcuno coinvolto.
"Alexander, ti stavo aspettando" risponde serafico il cacciatore.
A terra giace esanime il corpo del suo del suo compagno, ma non sembra destare preoccupazione in nessuno dei due, entrambi sono concentrati l'uno sull'altro, in posizione di guardia.
"Potevi prepararti almeno una frase che fosse un po' più d'effetto, se sapevi che sarei arrivato"
"Cerchi di guadagnare tempo o hai solo paura di attaccare?" Alza la pistola e la tiene ben salda puntandola verso Alexander. "Pensavo saresti arrivato prima, e magari, se non ti fossi perso per strada, il tuo amico sarebbe ancora vivo adesso" getta una rapida occhiata al capannone e io sento di nuovo i conati scuotermi lo stomaco al solo pensiero.
"E se tu fossi stato un po' più bravo con la pistola, magari anche il tuo sarebbe vivo" fa una pausa e sospira "ma si vede che in quella specie di setta non vi insegnano molto. Figuriamoci se potrei avere paura di uno come te". Serra la mandibola disgustato e sfodera di nuovo gli artigli, pronto ad attaccare.
Dorato fa un passo indietro e stringe ancora di più la pistola tra le mani, spingendo il grilletto. Spara un altro colpo. Alexander lo schiva di nuovo, sparendo poi nella nebbia, che ormai è calata alla nostra altezza. Ululati e rumori di spari si susseguono in fretta, Dorato sembra sparare a caso nel vuoto, completamente nel panico.
"Se fossi un lupo o un vampiro, avresti le capacità per capire dove mi trovo in questo momento- fa una pausa e la sua risata beffarda riecheggia nell'aria come una tetra sentenza di condanna- e magari avresti conservato qualche proiettile" la voce di Alexander è carica di scherno, nascosta come lui tra la nebbia, sembra che provenga da più punti contemporaneamente . Dorato preme di nuovo il grilletto e il caricatore si inceppa, ha davvero finito i proiettili. Getta la pistola a terra con noncuranza e estrae il coltello dalla fodera alla gamba. Il suo petto si alza e si abbassa con forza, ha paura adesso. Teme per se' stesso.
"Non ho bisogno dei proiettili d'argento per ucciderti, mostro!"
Gira su stesso, alla ricerca di Alexander, ma la nebbia è ancora più fitta e persino le figure delle auto non sono più distinguibili. Dorato indietreggia fino a sentire il metallo freddo della sua auto a contatto con la schiena; è in trappola.
Continua ad agitare in aria il coltello, ma senza riuscire a fendere nemmeno l'aria. È visibilmente disperato, sa di non avere via di fuga.
"Pensa che a me bastano gli artigli" sussurra Alexander e noto la sua figura stagliarsi al di sopra del tettuccio della macchina. Salta giù agilmente, con un gesto fluido gli passa gli artigli sul volto, accecandolo.
Dorato allora cade in ginocchio, con le mani davanti agli occhi che velocemente si bagnano di sangue. Anche il pugnale è finito a terra, è completamente disarmato. Alexander ringhia e lo colpisce con un calcio allo stomaco, facendolo cadere a terra, rannicchiato ormai come un bambino. Lo colpisce di nuovo con un calcio. Dorato non si scompone, non urla, non ha le forze per rialzarsi, ma non si umilierà di fronte ad Alexander implorando pietà.
Calci e pugni si susseguono veloci e Dorato li incassa tutti, stoicamente. Lo vedo agonizzare in silenzio, mentre annaspa cercando di far passare un po' d'aria attraverso le vie aeree collassate.
"Che questo sia di lezione a tutti quelli come voi. Il mondo sovrannaturale tornerà in mano agli Ibridi e prima di quanto pensate la vostra organizzazione da quattro soldi crollerà."
Dorato sputa una buona quantità di sangue e poi, come una sorta di rantolo, dice: "smettila di blaterare e uccidimi, se ne hai le palle"
"Non spetta a me darti il colpo di grazia-si interrompe abbassandosi al suo livello fino a far combaciare i loro sguardi-anche se lo vorrei tanto, bastardo"
Alexander si rialza e, dopo aver scosso via la polvere che gli si era depositata sui vestiti, si avvia verso la sua moto.
"È tutto tuo, Alissa. Fatti giustizia."
La ragazza, che avevo visto legata dentro il capannone, è ora libera e cammina a quattro zampe verso Dorato. I suoi occhi sembrano essersi illuminati come torce, accesi da una rabbia che chiede solo vendetta. Dalla bocca aperta spuntano fuori denti appuntiti e affilati come coltelli, che si aprono solo per far uscire puri versi bestiali. Il suo corpo, esile e magro, inizia a contorcersi ed è come se le sue ossa si spezzassero per ricomporsi subito dopo in un'altra forma. Braccia, gambe, tronco e viso vengono ricoperti da una folta pelliccia bianca. È una lupa. Non avevo mai visto una trasformazione del genere.
Passano solo pochi secondi prima che lei si scagli con violenza su Dorato, squarciando la pelle con gli artigli e affondando le zanne nella carne. Non vedo in questa scena meno violenza, rispetto a quella inflitta all'uomo nel capannone. Non è giustizia questa.
Alexander, con il casco appoggiato sotto il braccio destro e il motore accesso, si gode la scena da lontano. Ed io, da semplice spettatrice, riesco a percepire la soddisfazione che prova nel vedere il suo nemico perire. Non avrebbe potuto convivere con il rimorso di averlo lasciarlo lì a morire, senza nemmeno essere presente, la sua sadica mente desiderava godersi quel momento.
Solo quando il corpo di Dorato è ridotto così male da non lasciare nemmeno la possibilità di ipotizzare che sia ancora vivo, Alexander va via.

Mi sveglio in preda a brividi che scuotono violenti tutto il mio corpo. Ripenso a ciò che ho visto e quelle visioni di morte mi opprimono come se fossero macini posati sul petto. Cerco velocemente qualcosa con cui coprirmi e, quando trovo la coperta rossa ai piedi del letto, la afferro e mi ci avvolgo, cercando un po' di calore. Coprirmi e celarmi dietro quel mantello di torpore, che odora di tranquillità, mi aiuta subito a calmarmi.
Pochi raggi di luce filtrano attraverso le sottili tende che coprono la finestra di fronte il letto, starà sicuramente sorgendo il sole. Arrivo all'amara conclusione di dover tornare a casa dai miei e così raccolgo tutte le mie cose da terra, ancora avvolta nella coperta.
Mentre scendo le scale con le scarpe in mano, la mia preoccupazione è quella di non far rumore per non svegliare Ines, non vorrei rischiare di farla pentire di avermi concesso di rimanere qui.
L'idea di dover lasciare questo luogo sicuro mi fa sentire di nuovo angosciata e le emozioni di quel sogno tornano a scavarmi il petto. Vorrei potermi rannicchiare sotto questa coperta e sparire dal mondo ancora per un paio d'ore.
Passando di fronte alle tante cornici appese sul muro, una mi colpisce subito. Quegli occhi grigi e cupi, duri e severi, mi paralizzano, sento mancarmi l'aria mentre quegli occhi mi trafiggono come frecce. Mi sembra di non riuscire più a respirare e, nel portare le mani al collo, le scarpe mi cadono a terra. Un rumore sordo si diffonde in tutta la casa e Ines sbuca dalla porta accanto alle scale, che si apre nella cucina.
Il collo brucia, come se fosse ferito, e mi sento nel panico esattamente come nella visione della mia morte. Quegli occhi, che nella foto appartengono ad una ragazzino di forse 12anni, si proiettano sul volto di Alexander, il protagonista della visione di questa notte, e all'improvviso il suo volto sembra invecchiare; gli zigomi diventano ancora più pronunciati, i capelli si ingrigiscono, la cicatrice si sbiadisce, ma lo sguardo rimane sempre lo stesso. E nella mia mente compare il volto dell'uomo che mi aveva uccisa, che mi aveva tagliato la gola e mi aveva lasciata a morire distesa in una pozza del mio stesso sangue.
Ines spunta sul pianerottolo in cima alle scale e, vedendomi agonizzare in preda ad una visione, si getta subito al mio fianco, stringendomi tra le sue braccia. Il mio cuore batte all'impazzata, ma lentamente riesce a calmarsi, a contatto con il suo sembra voglia seguire lo stesso ritmo.
"Calmati Elizabeth, ci sono io"
"Lui-indico il quadro, mentre sento ancora l'affanno- lui mi vuole morta".

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