Capitolo 6
Lo sguardo di Lawrence Anderson sembrava dotato di vita propria. Profondo come il mare, calmo come la quiete prima della tempesta. Suggeriva verità senza pronunciare parole e sussurrava che il peso delle cose mai dette avrebbe continuato a gravare su entrambi.
Till Zeigler lo sapeva, aveva perfino imparato ad apprezzare il suo modo di fare – così al di sopra delle righe, così calcolatore. E si era accorto di quanto questi fosse attento, di come non lasciasse accadere mai nulla per nulla. In ogni sua azione vigeva uno scopo ultimo – e che fosse o meno rilevante, in fondo, non importava: c'era. Accantonata la prima impressione, dunque, si decise a concedergli il beneficio del dubbio.
«Questa mattina siete andato a dormire tardi...» constatò Lawrence. Per farlo gli bastò guardare il volto di Till, le sue occhiaie leggere. Tuttavia mosse una mano con l'intento di minimizzare la propria indiscrezione e frenò sul nascere una qualsiasi replica. Disse: «Me lo ha confermato Hilbert Lange, l'uomo che vi ha aiutato a spostare le carcasse nel crematoio.»
Till annuì. «Sì, proprio così» ammise. Poi fece spallucce, si schiarì la voce e aggiunse: «A dirla tutta ho faticato a prendere sonno.» E non aggiunse altro, convinto di poter intrattenere una conversazione decente con Lawrence Anderson senza inscenare l'apocalisse.
«Niente di preoccupante» borbottò atono. «Dopo aver provato una tale adrenalina, Zeigler, direi che sia quasi normale.» Si accese una sigaretta con fare annoiato, continuando a guardarsi attorno senza il benché minimo interesse. Occhi silenziosi, occhi dediti alla circostanza. Vacui, quasi assenti. La sua espressività ridotta ai minimi termini, lontana dalla litania perversa che chiedeva chi avesse ucciso il pettirosso.
Nella testa di Till, però, ronzava tutt'altro. Una mosca fastidiosa, forse, la stessa che gli fece storcere di poco il naso nell'osservare il profilo dannatamente perfetto di Lawrence. «Nell'edificio speciale c'è ancora la sorella di una delle donne che mi avete fatto uccidere ieri notte» mormorò. Era certo di poter azzardare tanto, di potersi sbilanciare un po', perché le labbra di Lawrence Anderson erano piegate in una smorfia strana, complessa, che sembrava quasi tradire un che di diabolico.
«Non vi sbagliate, Zeigler» disse l'interpellato. «Io non vi ho fatto uccidere nessuno, siete stato voi e soltanto voi a decidere delle vostre azioni...» soffiò. Il volto apatico, tipico di quando non aveva sottomano nulla con cui divertirsi. «Quelle tre puttane erano una sorpresa per voi, dopotutto. E devo dire che siete stato molto bravo con le vitamine, perciò non avete nulla per cui crucciarvi.» Lawrence Anderson sollevò di poco le spalle e scostò la sigaretta dalle labbra. Vide lo sguardo di Till puntarsi su di lui con sdegno e si accorse di averlo colpito nell'orgoglio, così ridacchiò appena e disse: «Che una di quelle avesse o meno una sorella, dopotutto, non importa.»
«Si chiamava Teresie, non me l'avevate detto» sibilò Till. Il tono basso, roco, mentre l'odore della sigaretta di Lawrence gli riempiva le narici – e doveva ammetterlo: un po' lo infastidiva.
Nubi bianche, grigie, fatte di tabacco tostato e prese di posizione. «Non lo sapevo neppure io, Zeigler» fece con noncuranza, sollevando perfino le sopracciglia. Da bravo innocente quale voleva mostrarsi, ignorò il cipiglio contrariato dell'altro e continuò: «Di solito non ci si perde in convenevoli in un bordello, perciò anche il nome di quella prigioniera non era rilevante...» Scosse appena il capo per far ballonzolare qualche ciocca mossa della sua capigliatura corvina – chissà perché, forse per vanità. «Come tutti coloro che si trovano in questo campo, eccetto noi e gli altri membri del corpo dell'ordine, anche questa fantomatica Teresie aveva un altro nome appeso al polso.»
Till non disse niente, non subito almeno. Poté solo mordersi la lingua e constatare il peso della verità in silenzio, perché tutti i prigionieri di Buchenwald avevano l'immatricolazione appesa a una targhetta – e quello stesso numero di serie era l'identificativo che assumevano una volta varcata la soglia del campo. «Non potete catalogare chiunque come fosse una bestia» sbottò.
A detta di Lawrence non esisteva alcuna Teresie, quantomeno non gl'interessava che esistesse. I nomi dei deportati erano superflui, sorpassabili. E a pensarlo non era soltanto lui, ma tutte le SS di Buchenwald – Till Zeigler non poteva essere da meno, per questo dovette scontrarsi con il biasimo dell'altro. Una nenia: «Ma siete stato voi a trattarla come tale, non io...» Ghignò appena, indossando la sua tanto solita quanto fastidiosa maschera di strafottenza. «Badate bene ai sentimenti, Zeigler: non sono ben visti a Buchenwald» aggiunse in tono sommesso, aspirando ancora del fumo dalla propria sigaretta. Poi, quasi come un drago, lo lasciò scivolare via dalle narici. Un'irreale e diabolica espressione sul volto d'angelo, infine il silenzio.
Till deglutì a vuoto, intossicato dal fumo passivo. «Questi non sono sentimenti» dichiarò a gran voce. Una bugia evidente quanto la luna nel cielo, sì, perché il moto di ribellione che aleggiava dietro i suoi occhi chiari era di per sé un sentimento.
«No?» Squillò ironico, reprimendo una risatina e scuotendo ancora la testa. «Mi sembrate arrabbiato con me, ma semmai dovreste esserlo con voi stesso...» Schioccò a lingua, poi si affrettò ad aggiungere: «È davvero sciocco farsi dei problemi simili per qualcuno senza identità.» Vide le sopracciglia di Till aggrottarsi, tuttavia non frenò la lingua e disse: «Volevate diventare un'SS e lo siete diventato, volevate lavorare in un campo di concentramento e adesso siete qui a fare le ronde assieme a un vostro collega... Cos'altro volete, Zeigler?» Sibilino, Lawrence concluse il suo piccolo siparietto di biasimo. Tuttavia non terminò di pungolare l'animo dell'altro, anzi: lo fissò intensamente, quasi curioso, e continuò a perseverare senza alcuna remore in quello che poteva essere considerato un processo di annichilimento. Ghignò, sbuffò, assunse le sembianze di un burattinaio benvestito e tornò infine a tormentare Till Zeigler. «Quando vi ho parlato della fissazione di molti, voi non avete battuto ciglio e non avete fatto altro che confermare quello che già pensavo in principio: siete un uomo ambizioso, desideroso di potere.» Il tono mellifluo, diluito in un'amara verità. «Fino a prova contraria è soltanto questo che volete.»
«Non ho mai negato di stare bene così come sono» soffiò Till. Si sentì quasi spaesato dinanzi a tanta cattiveria gratuita, conscio che Lawrence avrebbe dovuto rivolgerla ai prigionieri e non a un collega. Poi si riscosse, batté le palpebre e constatò ciò che ormai avrebbe dovuto essere ovvio: Lawrence Anderson si trovava su un piano diverso – era più deciso di lui, a quanto poteva vedere, e senz'altro più sadico.
«Allora non pensate al nome di una delle puttane, non pensate a sua sorella e non fatevi venire sensi di colpa per cose così inutili» sibilò.
Till restrinse lo sguardo. Fissò gli occhi di Lawrence con fare contrito e infine disse: «Voglio parlarle.» Incurante di tutto e a sprezzo di quanto appena udito, allora, avanzò con passo fermo verso l'edificio speciale.
Lawrence lo affiancò subito con aria perplessa. «A chi?» Chiese. Il tono più alto del solito, prepotente. «Siamo di ronda, non ricordate?» Ironizzò, conscio del fatto che, spesso e volentieri, era stato proprio Till a tentare di ricordarglielo nelle sere precedenti.
«Alla sorella di quella donna» disse soltanto, ignorando la battuta sarcastica e lasciando che i passi di Lawrence lo seguissero fastidiosamente – era lui la mosca, non il senso di colpa. E aggrottò le sopracciglia, conscio che neppure lui sapesse bene cosa stesse facendo. Da una parte avrebbe volentieri dato ascolto alla ragione, ma dall'altra c'era qualcosa che lo spingeva ad agire in prima persona e a fregarsene di tutto il complesso che ruotava attorno al perché vero e proprio.
«Siamo di ronda» cantilenò ancora Lawrence, facendogli storcere il naso e aumentare il passo.
«Per due notti consecutive siamo stati al bordello» disse aspramente Till. «Lo abbiamo fatto per far divertire voi, Anderson.» E schioccò la lingua, inspirando a pieni polmoni. «Adesso è possibile che io decida di andarci per conto mio, non credete?»
«Per parlare, di solito, non si va in un bordello.» L'interpellato rallentò la propria andatura, certo che di lì a breve avrebbe fatto altrettanto anche Till.
E così accadde: i passi si fecero più lenti, tentennanti. «Pensate ai vostri affari, piuttosto» si limitò a dire con fare scocciato. Deglutì, poi, e iniziò a ragionare sul da farsi. Dentro di lui vigeva il perenne alternarsi delle emozioni umane, l'indecisione incarnata. A tratti era certo di essere dispiaciuto per il proprio gesto e per il modo brusco con il quale la ragazza era venuta a conoscenza della dipartita di Teresie, ma d'altro canto c'era da dire che parlarle fosse un'azione sconsiderata, quasi imperdonabile per un esempio di pura Razza come lui.
«Questi sono anche affari miei» soffiò Lawrence. «Sembrate come impazzito e solo per una mia piccola sorpresa.» Inclinò la testa da un lato e lasciò che Till si crucciasse ancora un po'.
Complice della sensazione d'insoddisfazione che gli dava l'insensatezza stessa della situazione, chiese: «Ammettete che è colpa vostra, dunque?» Nella sua voce si percepì una certa nota di disapprovazione, perché subito non mancò di notare come l'interpellato si mostrasse completamente estraneo al discorso: sguardo fisso, noncurante, e labbra arricciate in una smorfia confusa. Gli dava letteralmente ai nervi.
«Affatto. E neppure parlo di colpa.»
«Allora pensate alle vostre vitamine anziché alle cose che riguardano il sottoscritto» sibilò Till, dandogli subito le spalle per andarsene laddove voleva sin dal principio.
A fermarlo, tuttavia, fu ancora una volta la voce di Lawrence: «Dove credete di andare, Zeigler?» Forte e chiaro, il suo tono infido si propose come una sfida. «Pensate davvero che una puttana come quella, dopo aver visto sua sorella morta e trascinata come una vacca al macello dalle vostre mani, sarebbe felice di parlare con voi?» Puntò lo sguardo sulle spalle di Till, conscio che la propria risatina fosse in grado di farlo rabbrividire. «A quale proposito, poi?» Schioccò.
Senza neppure accorgersene, Till rallentò di nuovo l'andatura fino a fermarsi. «Non desidero essere seguito quando si tratta di affari personali» disse. Infine si voltò a fronteggiare Lawrence Anderson che, noncurante della sua stizza, aveva comunque avanzato verso di lui per stargli dietro e vedere fin dove fosse in grado di spingersi.
«Allora tanto meglio, Zeigler» sibilò. «Divertitevi e poi tornate qui a dirmi quanto ho ragione su tutta la linea.» Arricciò il naso con sdegno, ghignando fino a mostrare i denti perlacei con una cattiveria più unica che rara. «Quella nelle baracche è solo feccia, ricordatevelo bene!»
L'eco di quelle parole rimbombò nelle orecchie di Till fin quando la porta del Sonderbau non cigolò alle sue spalle per poi chiudersi di netto. Solo allora deglutì e represse l'impulso di lasciarsi andare a un sospiro di sollievo. Finalmente lontano da quella frustrazione personificata quale era Lawrence Anderson, dovette considerare il fatto di non sapere alcunché sulla sorella di Teresia.
Dose si trovava? Qual era la sua stanza? Tutte domande senza risposta.
Di sicuro non poteva mettersi ad aprire tutte le porte dell'edificio speciale, no davvero – magari avrebbe potuto incappare in un suo superiore e chissà come sarebbe stato in grado di giustificarsi.
Così serrò i denti, li sentì stridere tra loro in un moto di nervosismo, e si appoggiò con la schiena vicino al montante dell'ingresso. Restò lì qualche attimo, immerso nei propri pensieri, senza aprire bocca o retrocedere. Era pressoché certo che il corridoio avrebbe presto rigettato fuori dalle stanze un qualcuno abbastanza rilassato da non avere remore a rispondere a qualche domanda. E si umettò le labbra, si morse l'interno delle guance. Scosso da un fremito di frenesia si tolse il berretto.
Sembrava che il tempo non avesse granché voglia di trascorrere velocemente – tipico delle situazioni ad alta tensione. E, inceppato come una pellicola, continuò a stanziare lì, nel ticchettio dell'orologio da polso di Till Zeigler che, suo malgrado, dovette aspettare un po' più del previsto per scorgere un collega.
Deglutì e tenne lo sguardo basso per i primi momenti, poi si scostò dalla porta e cercò di schiarirsi la voce. Dalle sue labbra, tuttavia, non uscì una sola parola. Forse per imbarazzo o forse per codardia, lasciò spazio all'SS e fece un solo cenno con il capo per non risultare troppo maleducato. Infine si decise ad avanzare nel corridoio vuoto per raggiungere la stanza appena libera. E non si fece alcuna remore nello spalancare la porta – non bussò, no, tantomeno chiese il permesso per varcarne la soglia.
Batté le palpebre e vide soltanto una ragazza spaesata tra le lenzuola di un letto sfatto che non aveva nulla a che spartire con quello dell'ultima porta a sinistra – quella dove Lawrence aveva messo mano al regalo per la cagna di Buchenwald. Perciò la osservò nella penombra, mentre questa cercava di coprirsi come possibile, e non badò a nulla se non al suo iniziale cruccio. «Tu...» l'apostrofò. «Sai dirmi dov'è quella ragazza che questa mattina è stata colpita alla guancia?» Non fece il nome di Teresie, non si espose affatto, cercò di essere oltremodo impassibile nello sfilarsi un guanto di pelle.
Lei annuì. Lo sguardo basso, seguito da un lieve sospiro di sollievo. Deglutì e si umettò le labbra turgide di una passione non richiesta e non voluta. Ma non disse niente, attese l'ordine di Till Zeigler con la paura che continuava a scorrere in abbondanti lungo le braccia infreddolite.
Gli attimi che trascorsero in quel frangente divennero puro odio per Till. Questi non riusciva a concepire tutto quell'inutile tergiversare, perché aveva fatto una domanda ed esigeva una risposta immediata da parte di una ragazza qualunque e senza nome che sapeva non potersi opporre a qualsivoglia ordine o richiesta.
Lei si morse le labbra, notò perfino il bagliore di fastidio che baluginava nelle pupille dilatate di Till. «È nella stanza di fronte» mormorò appena. Poi deglutì e face sospirare il suo interlocutore – forse per via della poca pazienza, perlomeno così si disse. «Non so altro, se non l'avete trovata io...» La voce le si mozzò in petto e prima ancora che potesse aggiungere altro, perché Till le chiuse la porta in faccia e la fece sobbalzare sul posto.
«Nella stanza di fronte» si ripeté, aggiungendo alla sua attesa una sensazione di vuoto quasi irreale. Avrebbe dovuto attendere, dunque, perché a detta di Hilbert Lange era una donna molto ricercata per le sue capacità amatorie. Eppure schioccò la lingua, s'indispettì fino ad accostare l'orecchio sulla porta di legno. Nessun suono, nessun sibilo, meno che mai un gemito o un grugnito – gli altri, in fondo, provenivano ovattati e confusi dalle altre stanze del Sonderbau. Allora aggrottò le sopracciglia, increspando la fronte con piccole rughe d'espressione, e tirò la maniglia verso il basso senza pensarci oltre. Spalancò la porta con aria funesta e per sua fortuna non incontrò lo sguardo di biasimo di nessuno. La vide in lontananza, distesa sul letto e illuminata dal tepore che proveniva dal corridoio. Sembrava come addormentata, quieta – almeno così si disse. Perciò le si avvicinò lentamente – non prima di aver chiuso la porta alle sue spalle, ovviamente – e, senza dire nulla, si sedé sul letto. Gli occhi fissi sulla parete ombrosa, le spalle che volgevano alla ragazza distesa. «È difficile parlare di qualcosa di simile, ne sono consapevole» soffiò. «In effetti non so neppure io il motivo del bisogno che sento in questo momento...» Si schiarì la voce, concentrandosi sul guizzo dei lampioni che, poco distanti dall'edificio speciale, illuminavano una porzione di pavimento. «Ieri notte ho esagerato un po', ecco» continuò. Non capì bene il motivo che lo spingesse a parlare tanto, meno che mai il perché fosse una ragazza senza nome ad attirare i suoi dannatissimi sensi di colpa. Ma voleva liberarsi di quel nodo in gola e non gl'importava affatto se quella fosse o meno considerabile come bestiame. «Non pensavo che tua sorella sarebbe morta» ammise in un soffio, sentendosi più uno sciocco che altro. Ancora una bugia, una menzogna in prima regola. Sollevò lo sguardo verso la piccola finestra dal vetro rotto e batté le palpebre un paio di volte, respirando a pieni polmoni quell'aria satura della sua confessione fallace. Solo allora, sollevandosi di scatto dal letto, sentì qualcosa pungergli le narici. Si voltò a osservare la ragazza stesa su un fianco e si chiese perché, nonostante quanto appena udito, continuasse a fingere di dormire. Allorché tornò ad osservare la finestrella e comprese che doveva senz'altro esserci qualcosa di strano: nessuno avrebbe permesso che una prigioniera restasse incustodita a tal punto, con la libertà a portata di mano – sempre ammesso che fosse riuscita a superare il recinto elettrificato.
L'aria era satura di un odore pungente, ferroso. Altri lo avrebbero identificato subito, ma non Till Zeigler – oh, lui era talmente pieno di sé e dei suoi maledetti sensi di colpa che pareva un pesce fuor d'acqua.
Quando si chinò verso di lei, quando le posò una mano sulla spalla, represse un ringhio frustrato e la voltò supina. Uno scatto irritato, offeso, poi il braccio di lei che cadeva ciondoloni sulle lenzuola sporche di sangue. Till boccheggiò. Le labbra schiuse, poi spalancate. Sconvolto e con le palpebre sgranate, osservò la gola recisa e il vetro conficcato nella giugulare della ragazza per quelli che parvero istanti interminabili. Sembrò sul punto di voler dire qualcosa, ma poi si rese conto che fosse terribilmente inutile – nessuno lo avrebbe ascoltato. E tornò a osservare la finestra rotta, impiegando meno di una frazione di secondo per fare due più due. Tutto aveva un senso, per questo non mancò di deglutire e darsi dell'idiota. «Parole sprecate» si disse a denti stretti. Fece dietrofront senza aggiungere nulla e, dopo essersi infilato di nuovo il berretto, uscì dalla stanza per procedere spedito lungo il corridoio.
«Zeigler...» La voce di Lawrence Anderson parve riscuoterlo ancor più della frescura serale.
Questi voltò la testa di lato e osservò alla sua destra solo per scorgere la figura di Lawrence. Sospirò spazientito, indurendo i muscoli del viso quasi automaticamente. Poi serrò entrambi i pugni, improvvisamente colto dall'incredibile voglia di colpire lui anziché la propria stupidità emotiva che era riaffiorata senza una ragione precisa. «Avevate ragione, Anderson» disse, vedendolo sollevare un sopracciglio con fare da gnorri. Quasi si diede per vinto e serrò nuovamente i denti per sentirli stridere tra loro. Spostò lo sguardo verso la porta dell'edificio speciale e aggiunse: «Non c'era bisogno che parlassi con nessuno.»
Lawrence annuì. «Immaginavo che non vi avrebbe ascoltato, non potete di certo biasimarla per questo...»
«No, affatto» disse. Sollevò di poco il mento per inventarsi chissà cosa, ma le sue parole presero a scorrere veloci, inconsistenti, formando una bugia che avrebbe segnato il senso stretto di tutte le azioni a venire: «Non volevo parlarle di sentimenti o sensi di colpa, Anderson, ma solo liberarmene.»
«E come?» Incalzò divertito, fissandolo di sbieco. Le spalle posate contro il muro e una sigaretta quasi finita tra le labbra.
«Aiutatemi a portarla nel crematoio» fece sommessamente, lasciando all'altro il tempo necessario per scoppiare in una fragorosa risata.
Il perché lo avesse fatto, di certo, Till Zeigler non poteva saperlo – né mai lo scoprì. Lo vide solo muoversi in avanti, coprirsi la bocca con una mano e sorreggersi il ventre con l'altra.
Nuovamente immerso in una nube di fumo, Lawrence Anderson tornò ad assumere le sembianze di un diavolo – perlomeno a detta di Till. Era così divertito, così stranamente fuori di sé, che non riuscì a fare altro che ridere.
Till non seppe capacitarsi della sua reazione, ma dopotutto gl'importava ben poco al momento. L'unica intenzione che aveva era quella di cancellare le prove del suicidio della ragazza per inscenare un vero e proprio assassinio – oh, dimostrarlo avrebbe reso giustizia al suo onore distorto! E doveva sbrigarsi, doveva agire di notte, con a complicità di Lawrence Anderson e della sua follia.
«Chi ha ucciso il pettirosso?» Chiese Lawrence, continuando a ridere sguaiatamente.
«Io, ha detto il passero, con il mio arco ed una freccia, io ho ucciso il pettirosso.»
Lawrence ghignò. «Bugiardo.» Un sussurro che non raggiunse le orecchie di Till Zeigler e che, tuttavia, lo pungolò al centro del petto.
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