Capitolo 5
La logica avrebbe voluto che Till Zeigler cadesse addormentato quanto prima – se non nello stesso momento in cui Lawrence aveva deciso di ritirarsi per fare il preciso con gli orari da coprire e quelli da dedicare al riposo, perlomeno dopo il sorgere del sole. Eppure, malgrado l'adrenalina fosse ormai crollata a picco, le sue membra serbavano ancora un vero e proprio sprint nascosto. Non voleva saperne di tornare alla zona sud senza prima aver provveduto a spostare i tre corpi delle ragazze. Così aveva cercato qualche collega bendisposto e, dopo aver fatto un paio di buchi nell'acqua, era riuscito a trovare quello giusto. Ci aveva parlato qualche minuto, si era anche fatto offrire una sigaretta con la promessa di renderne due in cambio, infine si era rimboccato le maniche per sgomberare assieme a lui il perimetro del campo – tutto, ovviamente, prima di dargli il cambio effettivo per il turno di sorveglianza mattutina.
E in quel momento, mentre avanzava nella direzione del crematoio, scorse in lontananza una donna bruna che, fissa sull'ingresso dell'edificio speciale, teneva le mani premute sulla bocca. Si fermò un istante. Le sopracciglia aggrottate e la carcassa martoriata che strusciava sul terriccio. Allora batté le palpebre. Osservò dapprima l'orrore e la disperazione della donna, poi il corpo di quella che lui stesso aveva fatto correre incontro alla morte. E deglutì a vuoto. Si sentì improvvisamente colpevole e terribilmente irritato, mentre gli occhi di lei non avevano la benché minima intenzione di scollarglisi di dosso. L'ammonì in silenzio, dunque, senza voler gettare Buchenwald nel panico di una stupida scenata – oh, dopotutto era ancora ebbro della sensazione di onnipotenza che aveva provato fino a qualche ora prima! E non aveva bisogno di altra violenza, non in quel momento di assurda comunione con se stesso, o almeno così si disse. Ma nonostante avesse cercato di farla restare nei ranghi, questa si mosse ugualmente nella sua direzione.
Si strinse la vestaglia addosso e lo raggiunse alla svelta, venendo però fermata dall'altra SS che, sfoderata la pistola, gliela puntò contro senza troppe cerimonie.
«Allontanati!» Scattò questi. Lo sguardo fisso, disgustato, e il corpo puzzolente di un'altra vittima elettrificata sulle spalle.
Lei socchiuse le labbra, boccheggiò come un pesce e quasi arrestò la corsa. Infine deglutì e, tra un brivido di freddo e uno di paura, cercò di avvicinarsi ancora. Disse: «No, per favore, non...» E in quel momento smise di parlare. Con gli occhi sgranati, pieni di lacrime, perse il filo del discorso. Si mordicchiò le labbra e corrugò le sopracciglia. Tra i singhiozzi, però, riuscì a dire: «Quella è mia sorella, vi prego...» Un lamento accorato, poi le lacrime calde lungo le guance.
Till la squadrò in silenzio, con le labbra ben serrate. Non impiegò molto a capire chi fosse la fantomatica sorella, perciò sentì una lieve morsa all'altezza dello stomaco e si disse che mai avrebbe dovuto provarla. Tuttavia serrò la presa attorno alla caviglia del cadavere e si ritrovò a combattere nella duplice sensazione di potere e senso di colpa. Perché sì, non si era fatto il minimo scrupolo a tormentare le tre ragazze con la storia delle flessioni, della corsa o delle ingiurie; non aveva battuto ciglio nel vederle sanguinare e arrancare sulla terra attorno il bordello. No, lui aveva provato un'inquietante euforia, una lucida ebbrezza in perenne salita. E le aveva viste morire, aveva sorriso, si era sentito giusto. Stentava a credere fosse possibile rimpiangere tutto quello per delle lacrime da quattro soldi sul volto di una prigioniera qualunque – altra feccia, come avrebbe detto Lawrence Anderson.
Il paradosso, però, stava nel fatto che Lawrence non si trovasse lì.
E in quel momento, mentre Till Zeigler se ne rendeva conto, si sentì pungolare il petto fino a perdere le parole. Il briciolo d'umanità che si era dissolto nella notte prese a tormentarlo.
«Vattene!» L'SS al suo fianco indicò l'edificio speciale con la canna della Luger. Voleva farla tornare da dov'era venuta.
Tuttavia questa non si mosse. Con un mugolio addolorato, invece, implorò di restare. «Cos'ha fatto? Perché si è buttata contro la recinzione?» E si portò le mani al volto, coprì i propri dall'orrore della perdita. Dietro le palpebre, l'immagine marchiata a fuoco di sua sorella. «Perché?» Chiese ancora.
L'SS storse il naso. «Torna da dove sei venuta, lurida cagna!» Sbraitò in tutta risposta. Era irritato, non aveva la benché minima intenzione di sentire simili piagnistei di prima mattina. Senza nemmeno darle il tempo di ragionare, quindi, la colpì con il retro della pistola su una guancia scoperta.
E lei singhiozzò, vacillò fino a cadere in terra. Da quell'angolazione, con la mano premuta sulla guancia e le dita sporche di sangue, sembrò fissare proprio Till Zeigler. Lo fece deglutire, ma nemmeno se ne accorse. Non era lui che stava guardando, bensì sua sorella. «Teresia...» soffiò.
Till batté le palpebre, rendendosi finalmente conto di non essere il soggetto dell'attenzione di questa. E deglutì, stranamente tormentato dal nodo che gli si era formato in gola.
«Vattene!» Gridò ancora l'altra SS. Caricò un colpo con la pistola e lasciò sussultare la ragazza che, sollevandosi alla svelta, retrocesse.
Gli occhi fissi sul corpo che non avrebbe mai lasciato Buchenwald, i brividi lungo le braccia e il dolore nel petto. La ferita sulla guancia non era nemmeno paragonabile alle sensazioni che si scatenavano nel suo animo, perciò procedé così, lentamente, strusciando i piedi a ritroso verso il Sonderbau. E continuò a muovere le labbra nel nome muto di quella sorella perduta: Teresia.
L'SS che la teneva sotto tiro non sparò, anzi: la lasciò semplicemente rientrare nella struttura. Dopodiché tolse il colpo dalla carica e affiancò Till Zeigler come se nulla fosse. Fece spallucce e si schiarì la voce. Infine spiegò che quella donna, come molte altre, era essenziale. «Io la conosco» aggiunse. E ghignò, aggiungendo dettagli sommari sulla sua innata capacità di soddisfare gli uomini. «Conosco anche queste tre...» borbottò allora, continuando ad avanzare verso il crematoio. Ma non batté ciglio al riguardo, non aggiunse altro che uno sputo al suolo. Era certo che fossero state punite per un motivo, che avessero commesso qualcosa di eccessivo, ma si sbagliava – erano state solo una sorpresa da parte di Lawrence Anderson, cosa che Till sapeva pur tenendo la bocca chiusa.
Di ritorno dal crematoio, Till Zeigler evitò intenzionalmente di passare davanti all'edificio speciale. Fiancheggiare il Sonderbau equivaleva a fronteggiare il proprio nodo in gola, quella ragazza tanto ostinata e disperata che per poco non aveva rischiato di farsi saltare le cervella. Perciò filò dritto alla zona sud, intenzionato a fare ritorno agli alloggi per riposare qualche ora. Una volta lì, però, il sonno faticò ad arrivare.
Dopo essersi rigirato tra le coperte per una buona mezzora, Till sembrò quasi perdere le speranze. Si arrese all'idea di presenziare alla ronda in uno stato di dormiveglia. Sbuffando appena, infine, rivolse lo sguardo al soffitto e restrinse di poco le palpebre. Parve osservare qualcosa d'incorporeo, forse un ricordo. E deglutì, sentendo ancora il nodo serrarsi attorno alla propria gola. Terrore e dolore, qualcosa che non gli apparteneva affatto. Era il riflesso della ragazza del Sonderbau, un'idea in grado di farlo rabbrividire.
In un certo senso avrebbe voluto alzarsi alla svelta, rivestirsi e correre fin lì per ricacciarle indietro ogni lacrima o singhiozzo. Ne sarebbe stato in grado, sì, e lo aveva già fatto con le poverette che gli erano capitate sottomano per le vitamine. A frenarlo, in effetti, era soltanto l'eco della spossatezza.
Indispettito e irritato, con le braccia lungo i fianchi e il naso arricciato dal disgusto, non mancò di pensare a come poterla trattare. Dato il modo in cui aveva retrocesso fino all'edificio speciale, si disse, non avrebbe di certo mancato di eseguire i suoi ordini. E ghignò, conscio del fatto che avrebbe volentieri aspettato il risveglio serale per un po' di divertimento in compagnia di Lawrence Anderson.
Si addormentò con fatica, sentendo scorrere nelle vene una febbricitante voglia di saltare nel tempo – ed era una sensazione non dissimile dall'ansia che avevano gli scolari prima di tornare a scuola dopo le vacanze di Natale. Strano a dirsi, perché lui aveva quasi dimenticato quel tipo di pulsazione.
Di ritorno a casa, Rupert sembrava tutto fuorché un uomo felice. Eppure, considerata la bellezza di sua moglie, avrebbe dovuto esserlo. Con quell'andatura incerta, barcollante, chiunque lo avrebbe definito un reietto. Il solo fatto che Klara ne sopportasse la vista era di per sé un miracolo, qualcosa che Till non riusciva a spiegarsi. Per questo non riusciva a smettere di storcere il naso: l'idea di quei due insieme lo disgustava. Ma Rupert non era il solo a essere stato baciato dalla fortuna, perché lo stesso Till Zeigler aveva rischiato di essere scoperto. E sarebbe bastata una manciata di secondi in più, qualche moina di Klara, per mandare in fumo ogni speranza.
Dall'altro capo della strada, con la schiena posata contro il muro e il mozzicone di sigaretta ancora stretto tra le labbra, Till si ritrovò a ponderare la consequenzialità degli eventi. Un ghigno beffardo gli si stampò in viso e lo fece quasi ridacchiare.
Era uscito prima del rientro di Rupert, fortunatamente, e aveva perfino trovato il tempo di nascondersi nel primo vicolo disponibile. Tuttavia non aveva modo di accertarsi della sua reazione all'odore di sigaretta che riempiva la casa, perché restarsene lì appostato sarebbe stata un'idiozia – avrebbe rischiato d'incappare nei sospetti e nello sdegno dell'unica persona in grado d'instradarlo laddove desiderava.
Schioccando la lingua, dunque, si lasciò andare all'ennesima zaffata di fumo. Diede le spalle alla via principale e si ritirò presso quella secondaria con l'intento di lasciare a Rupert ciò che era di Rupert – vale a dire sua moglie Klara che, inspiegabilmente, sembrava essere tutto fuorché una donna d'onore.
La realtà, però, era un tantino diversa: Rupert non l'aveva mai sfiorata, non l'aveva mai guardata – mai, neppure per un istante – e sembrava non essere particolarmente interessato alla propria discendenza. Dal giorno dell'incidente, tra l'altro, anche Klara pareva condividere la riluttanza di suo marito. Sosteneva che la sola idea di convincere un uomo senza una gamba a finire a letto con lei fosse ripugnante. Rupert non poteva certamente biasimarla, tantomeno Till, ed era questo il motivo che lo spingeva a lasciarle ampio margine di azione in merito alle proprie relazioni. Lontano dagli occhi e lontano dal cuore, ovviamente, sempre ammesso che ne avesse uno.
Till Zeigler non poteva fare a meno di guardarlo con una certa pena. Lo riteneva un uomo finito, non un eroe di guerra. Ma le medaglie in suo possesso parlavano chiaro ed erano le stesse, luccicanti, motivazioni che lo rendevano tanto speciale e benvisto.
Rupert Haas, reduce dallo scontro contro i francesi che si era tenuto nel 1916, era un uomo di quasi quarant'anni – o forse ne aveva qualcuno in più, chissà. La fronte spaziosa, tirata da innumerevoli, piccole, trincee di carne che ne segnavano gli orrori e l'età al di sotto della tanto rada quanto imbiancata capigliatura. Si ostinava a voler uscire in strada da solo, zampettando su una sola gamba, con le stampelle sotto le ascelle e lo sguardo truce, incollato all'obbiettivo – e quale fosse, certamente, non era dato saperlo.
Quando Till Zeigler lo aveva incontrato per la prima volta era seduto in un bar. Dinanzi a sé, una tazza di caffè bollente. Ciò che lo aveva calamitato all'istante era stato il guizzo argenteo della medaglia che brillava da oltre la piega del cappotto di Rupert, non quell'uomo nel suo insieme.
Il Rupert Haas di quel giorno aveva lo sguardo vacuo, perso sulla soglia di un confine bruno, liquido e amaro, mentre quello di Till era l'emblema della giovinezza ariana e sprizzava superiorità da tutti i pori. Non avevano niente in comune se non il valore che Rupert ignorava e Till agognava. E dal basso della sua giovane età, quest'ultimo non poteva che ambire al meglio: capire, studiare e conquistare.
Così, a poco a poco, aveva imparato a conoscerlo. Si era perfino reso conto del barlume di vita che gli animava lo sguardo quando era in sua compagnia e lo aveva associato a quello che spingeva le donne tra le sue braccia. Attrazione, sì: Rupert Haas era attratto da lui, dall'emblema della giovinezza e della bellezza ariana. Era così buffo da risultare quasi squallido. Eppure avrebbe dovuto aspettarselo, perché sembrava proprio che chiunque vedesse la rappresentazione massima della pura Razza finisse irrimediabilmente per restarne incantato – uomo o donna che fosse, perché Rupert ne era la prova lampante.
Lui e la sua disgustosa pendenza non propriamente nascosta erano riusciti a portare Till Zeigler in casa propria e gli avevano addirittura presentato Klara. Il resto, ovviamente, era tutto fuorché ufficiale: lei si era accordata con Till per qualche notte di passione, mentre Rupert continuava a brancolare nel buio di una cecità fittizia.
Dall'alto della scalinata di casa, avvolta solo con la vestaglia di seta, Klara prese a fissare suo marito. «Hai trascorso una bella serata, Rupert?» Domandò con lieve ironia. Il mento sollevato e le braccia incrociate al petto. Sembrava il ritratto della vittoria, la bellezza incarnata che torreggiava sull'orrore di un uomo con una sola gamba.
«Sono stato impegnato fino a tardi e ho preferito tornare di mattina per non disturbarti» borbottò l'interpellato. Non chiese il suo aiuto neppure quando, posata una spalla contro il muro, volle togliersi il cappotto. Tuttavia arricciò il naso e percepì il fastidioso aroma del tabacco bruciato.
«Hai fatto bene» asserì lei. Posò gli avambracci sul corrimano e si protese in avanti per osservare il trafficare di Rupert con le stampelle.
«Sento odore di fumo» disse lui di soppiatto. I lineamenti del volto s'indurirono, sembrarono quasi fargli assumere le connotazioni di un uomo indignato, ferito.
A detta di Klara non era abbastanza convincente, perciò sorrise e trattenne il divertimento nelle viscere. Si portò solo una mano ai capelli e prese a giocherellare con una ciocca ondulata. «Sì, qualcuno deve essersi acceso una sigaretta...» rispose.
Rupert spostò lo sguardo nella sua direzione. Sembrava agitato, nervoso, con gli occhi pieni di rancore e gelosia. Una reazione talmente vera da far credere a Klara di esserne la causa – e non lo era, no davvero! Il terrore di Rupert era rivolto all'odore di fumo, all'immagine non ben definita di quel qualcuno con la sigaretta. «Non hai il permesso di muoverti tanto sfacciatamente, Klara» la rimproverò in un moto astioso, zoppicando fin lì con l'ausilio delle stampelle e lasciando che lei scendesse le scale con un ghigno irritante.
«Ma cosa vuoi che importi di quello che faccio...» soffiò cinicamente. Sollevò un sopracciglio e gli passò di fianco. I fianchi sinuosi, il passo fermo. Allungò una mano nella sua direzione e sfiorò una mostrina della divisa con la punta delle dita. «Uno storpio come te dovrebbe saperlo già: questo matrimonio è la tua fortuna» sibilò alle sue spalle. «Dopotutto non c'è donna al mondo che rimarrebbe in silenzio a osservare il moncherino di un marito che non ha mai desiderato.»
«Tanta onestà per nulla» soffiò Rupert. Deglutì, ingoiando a malincuore l'offesa di Klara, e poi aggrottò le sopracciglia. Sulla sua fronte, le rughe diventarono più evidenti. Odiava ricordarsi del proprio handicap, odiava anche solo pensare di non avere due gambe come tutti.
E lei, Klara, lo sapeva. Lo aveva sempre saputo e sempre ignorato, perché amava farglielo presente nei momenti meno opportuni almeno quanto amava vederlo capitolare giù, nella tristezza. «Tanta onestà per amore dell'onestà» replicò ironica. Si scostò da lui e mosse qualche passo nella direzione del salotto.
«Non ti autorizzo a comportarti come una puttana, Klara!» Sbottò rabbioso, muovendosi a scatti verso di lei e raggiungendola al suono delle grucce che battevano sul pavimento liscio – un pavimento che Klara si ostinava a far lucidare e incerare ogni giorno solo per dispetto, magari per farlo cadere e vedergli rompere l'unica gamba che gli restava. «Puoi avere tutti gli amanti che desideri, ma non voglio vederne neppure uno per casa – meno che mai sentirne l'odore quando ritorno.»
«Ha insistito tanto...» mormorò in un ghigno, sapendo bene che lei stessa avesse cercato di non far accendere quella sigaretta a Till Zigler.
«Klara!» La richiamò imperioso, vedendola sfuggire con passo svelto dalla sua linea d'azione.
Lei si voltò solo quando raggiunse il divano e, sedendosi leggera sul bracciolo, disse: «Vorrà dire che la prossima volta sarò io a insistere di più.» Restrinse lo sguardo con fare provocatorio, troppo divertita dallo scherno per smettere su due piedi di giocare con il fuoco.
Till Zeigler conosceva quella realtà a tal punto da poterne interpretare i risvolti pur non essendo mai presente, perché la stessa Klara gli aveva già raccontato di tutto e di più su suo marito – e sull'accordo silenzioso che si erano scambiati da qualche anno, ovviamente.
Lei poteva benissimo frequentare giovani e aitanti patroni della Razza superiore, nonché alte cariche delle Leibstandarte-SS con le quali, spesso e volentieri, finiva in contatto per via di qualche ricorrenza cui partecipava assieme a Rupert. Ma al di fuori dell'anonimato non aveva alcun diritto: lui non doveva venire a conoscenza né dei nomi, né dei volti di quegli amanti – per non soffrire, o perlomeno così diceva.
E nonostante Klara sembrasse incerta, Till Zeigler era sicuro che Rupert non fosse realmente geloso di sua moglie – forse la invidiava, chissà, ma niente di più e niente di meno. Si ritrovò a pensarlo anche in quel momento, mentre restringeva lo sguardo e lo puntava verso l'alto del cielo pallido, terso.
Allora la vide ancora una volta, una sola e unica volta: si stagliava lì, candida, con addosso solo l'aria e un velo di mistero, la speranza che sempre aveva coltivato dentro di sé.
Sorrise e, stringendosi nel cappotto con un po' più di convinzione, prese a camminare per le vie secondarie. Lontano dall'abitazione degli Haas, Till si disse che sarebbe tornato lì solo in un secondo momento – non così presto come Rupert avrebbe sperato e giusto per essere un po' più sadico, per privarlo della sua presenza e farsi desiderare.
La verità era che aveva bisogno d'aria, che voleva ed esigeva una pausa. Se non fosse riuscito a prendersi del tempo, in fondo, non avrebbe mai potuto sopportare l'eloquente sguardo di Rupert. Perché quando questi indugiava sul suo viso, sul suo corpo, perfino sul suo profilo, si sentiva invadere dal puro e semplice disgusto. Quello, tuttavia, era pur sempre il prezzo da pagare per ottenere quello che molti – Till Zeigler compreso – avrebbero potuto definire un futuro assicurato. Doveva perseverare sulla scia dell'ingenuità, lo sapeva. Solo così si sarebbe spinto oltre, solo così avrebbe potuto raggiungere qualche invitante festa piena zeppa di pezzi grossi!
Entrare semplicemente nel Corpo Ausiliari del Reich non era nelle sue più rosee aspettative di vita, non da quando aveva sentito mormorare – altro che mormorare, ne aveva sentito parlare più di una volta e sempre con toni convincenti – delle tanto famigerate Leibestrandarte che parevano essere molto più care al Führer delle chiacchierate SA. Già: nelle sue vene scorreva l'incredibile voglia di sperimentare, di essere utile, di condividere con loro la stessa ebbrezza che questi provavano nell'aggirarsi per la città come milizia. E sapeva come avrebbe potuto creare l'occasione giusta per incontrare qualcuno in grado di fargli avere dei contatti con le alte sfere – eccome se lo sapeva! Rupert Haas e sua moglie Klara erano la chiave giusta, ma non aveva molto tempo a sua disposizione. Di lì a qualche mese avrebbe compiuto diciotto anni e sarebbe finito con il seguire la scia di altri suoi coetanei se solo non si fosse sbrigato a riscuotere la simpatia di qualche membro delle Leibestrandarte-SS.
Caparbio com'era e convinto nell'ideale che gli avevano inculcato sin da bambino, Till Zeigler non avrebbe accettato un destino diverso per se stesso – no, perché quella era la sua vocazione.
Quando aprì gli occhi si sentì come un pesce fuor d'acqua. Ancora confuso, con il respiro un po' affannato, faticò a mettere a fuoco la realtà circostante. Si umettò le labbra e sentì subito la secchezza delle fauci, il sudore freddo che gl'imperlava la fronte. Allora sorrise in modo sinistro e si schiarì la voce. Con i pugni serrati sulle lenzuola e gli occhi fissi nella penombra, ricapitolò mentalmente ciò che era diventato: un uomo vero, completo, che lavorava in un campo di concentramento a pochi chilometri da Weimar. Aveva di gran lunga superato le proprie aspettative, ma solo grazie alle conoscenze che, dopo Rupert Haas, si erano affollate una dietro l'altra. E il potere tanto anelato era finalmente lì, nelle sue mani quasi trentenni.
Un brivido lo percorse da capo a piedi, facendogli scuotere un poco le spalle e chinare la testa. Lo sguardo puntato sulle nocche sbiancate, febbricitanti. Mai si sarebbe aspettato un sogno migliore di quello, tantomeno una sensazione così rassicurante e prodigiosa.
Guardandosi attorno, poi, constatò di essere finalmente solo e sospirò di sollievo per la mancata presenza di Lawrence Anderson. Così si portò una mano al viso, ignorò il leggero ondeggiare delle tende mosse dal vento e si concentrò su un unico pensiero: tornare nella baracca denominata edificio speciale per mettere bene in chiaro quello che di mattina gli era sfuggito – perché sì, lui poteva avere tutto e ne era convinto.
La sua espressione contorta sembrava dire: Così è sempre stato e così deve essere. Ancora e ancora! Sempre! E con quella folle convinzione, Till Zeigler si sollevò dal letto. Fece un piccolo balzo per posare i piedi in terra, poi si lasciò intossicare dalla fretta. Voleva sistemarsi, voleva essere perfetto, impeccabile, pronto a presenziare finalmente alla sua seconda cena a Buchenwald.
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