Capitolo 2

Quello che vogliamo.

Lawrence Anderson ghignò. La capacità di rendere qualcuno un pesce fuor d'acqua e il tono ironico, cinico, mentre apriva la porta del Sonderbau.

Till Zeigler si guardò attorno. Era spaesato, confuso, letteralmente sulle spine. Lungo la schiena, un brivido d'eccitazione e timore. Deglutì, ormai conscio di essere stato trascinato via dall'area sud del campo. E s'immerse in un posto mai visto, mai immaginato, un luogo che non gli era stato neppure accennato all'arrivo a Buchenwald.

Era particolare – anche troppo – e forse la parola più giusta per definirlo non era neppure quella! A Till bastò varcare la soglia per accorgersi dell'inquietante moltitudine di suoni che si affannavano lungo il corridoio, perciò deglutì e rimase in silenzio. Gli occhi puntati sulle spalle di Lawrence, lo sguardo attento e le orecchie distanti, chiuse. Domandò: «Dove siamo?» E sollevò di poco il tono per farsi udire meglio.

Lawrence sospirò piano, incamminandosi verso il fondo della struttura. «Ti ho portato a lavorare per la cagna di Buchenwald» rispose tranquillamente. Il passo misurato, complice di ogni atrocità nascosta. Si umettò le labbra, percependo i crucci di Till Zeigler nell'aria. Non aveva granché bisogno di guardarlo, tuttavia volle lanciargli un'occhiata veloce. E lo vide raggelare sul posto, accennò a un ghigno beffardo. Si disse: L'ignoto è il dubbio più brutto, il più letale. Il dubbio è la paura più grande. Parole che Till Zeigler sentì sue un attimo dopo e senza nemmeno averle udite.

Batté le palpebre un sola volta, fiancheggiando Lawrence Anderson, e si trovò a riflettere sull'appellativo cagna di Buchenwald. Mai avrebbe creduto che si lavorasse per un cane o una cagna, soprattutto in un edificio speciale, il Sonderbau. Forse, si disse, le parole di Lawrence dovevano essere ironiche. La sua espressione, tuttavia, lo depistava: era tutto fuorché poco convinta. «Questo è il bordello, non è vero?» Chiese più sommessamente, notando quanto la voce impostata di Lawrence Anderson non fosse mutata malgrado i lamenti e le grida.

«Sì, per questo è interessante» commentò l'interpellato, non mancando di ghignare in modo ben poco rassicurante. Riuscì anche a far aggrottare le sopracciglia chiare di Till nell'aggiungere: «C'è una persona che mi sta aspettando in fondo al corridoio.» E prese una piccola pausa per guardarlo, per sondarlo. «Lo sanno tutti, per questo vorrei presentartela...»

«Perché queste persone sono qui?» Chiese di getto Till, sorvolando su quel qualcuno appena citato. Subito dopo, però, si diede mentalmente dell'idiota e scioccò la lingua. Avrebbe dovuto saperlo da sé, perché era risaputo – almeno fra le sue conoscenze – che Heinrich Himmler avesse deciso di far erigere posti come quello nei maggiori campi di concentramento. Non era né il primo, né l'ultimo. Gli edifici speciali avevano una funzione ricreativa per le SS da campo.

«Questi individui sono stati forniti di libero arbitrio per un'ultima volta nella loro miserabile vita...» soffiò atono Lawrence, echeggiando di verità indiscussa. «La scelta era facile, però, così come la promessa che c'è dietro – sebbene sia tutto fuorché incline a essere mantenuta.» Non guardò Till, procedette solo a passo spedito verso il fondo del corridoio. Sapeva bene cosa spiegare e cosa lasciare intendere: si rifiutava di credere che Till Zeigler fosse così tanto all'oscuro delle pratiche interne dei campi di concentramento, perché da quanto gli era giunto all'orecchio era a sua volta portatore di numerose conoscenze tra le alte sfere. «Il comandante Koch me lo ha detto espressamente, sapete? Ha anche chiuso un occhio per alcuni di questi esemplari» disse dapprima ironico e poi convinto, divertito. «Stiamo andando proprio da uno di questi.»

Till non rispose a quella piccola provocazione, aggrottò semplicemente le sopracciglia. Parve confuso, forse ancora più spaesato. Non aveva la benché minima idea di cosa significasse chiudere un occhio in un simile contesto. Ma quando Lawrence Anderson aprì la porta – l'ultima sulla sinistra – ciò che vide gli fece intendere fin troppo bene la situazione. E strabuzzò gli occhi, sì, trasalendo sul posto. «Non era forse un bordello, questo?» Chiese. Arricciò il naso e batté palpebre con disappunto.

Dal canto suo, Lawrence non si curò del tono piccato di Till e, anzi, entrò nella stanza come fosse casa sua. Dopotutto conosceva quel posto fin troppo bene e nelle ultime sere c'era stato spesso per terminare il cosiddetto lavoro per la cagna di Buchenwald. Attese un po', facendo ondeggiare la chioma corvina al suono di una litania mentale, poi disse: «Sì che lo è, c'è forse qualcosa che vi fa credere nel contrario?» Batté le palpebre e si tolse il cappotto.

«C'è un ragazzo su quel letto!» Till ringhiò a denti stretti, osservando come Lawrence continuasse a piegare e impilare la giacca della divisa sulla stessa sedia che aveva accolto il suo cappotto. Poi deglutì, spostò gli occhi sul giovane che era steso sul letto a pancia in giù e quasi impallidì. Prima ancora di ricevere una risposta, allora, si avvicinò a Lawrence con fare contrariato. E scattò senza pensare – forse dopo aver pensato troppo, chissà. Serrò una presa intimidatoria sul braccio destro di Lawrence Anderson, sentendosi subito scostare senza troppa fatica – c'era una forza a dir poco misteriosa nel piccolo corpo di quell'SS.

«Ma non è come sembra, lui è un caso speciale...» Lawrence ridacchiò, scuotendo il capo e prendendosi gioco di Till a viso aperto. Poi raggiunse il letto su cui era disteso il ragazzo e con un ghigno gli scompigliò i capelli.

Till non poté fare a meno di osservare quel gesto con aria assorta. Era letteralmente schifato e interdetto, con una domanda impellente sulla punta della lingua. E più questa premeva per uscire, più lui si ostinava a ricacciarla indietro. Tuttavia pareva lampeggiargli in fronte: Perché? I capelli del ragazzo erano abbastanza lunghi da sfiorargli il collo, cosa molto strana all'interno di un campo di concentramento. Avrebbero dovuto tagliarglieli, eliminarli subito, istantaneamente! Più si concentrava su quel dettaglio e più sentiva la domanda rimbombargli nella testa: Perché? L'unica spiegazione logica era anche quella che si rifiutava di accettare, dopotutto. «Non capisco» mormorò allora. Mosse appena le labbra con fare contrito e restrinse lo sguardo. Si rifiutava di credere possibile che quel ragazzo fosse lì, nell'edificio speciale, al pari di una donna. Il Comandante Koch non avrebbe mai permesso una simile scempiaggine, perché che il Sonderbau era sorto con lo scopo ultimo di estirpare l'omosessualità all'interno del campo, non per promuoverla segretamente. E se l'intero corpo dell'ordine sembrava non farsi troppe remore nell'adempiere a quella piccola quanto assurda postilla che riguardava la soddisfazione sessuale della milizia in casi estremi, lui stentava a credere che fosse possibile considerare quello un caso estremo.

«Vi ho detto che siamo qui per lavorare» scandì Lawrence. «Ma se preferite andare a divertirvi come gli altri, Zeigler, fate pure» lo incentivò con evidente sarcasmo. Poi raggiunse un mobiletto e da questo estrasse un macchinario relativamente piccolo che posò sistematicamente sul comodino accanto al letto.

«Cosa stiamo facendo qui?» Chiese ancora, accigliato e dubbioso, senza degnarsi di chiudere la porta d'ingresso. Fisso sull'uscio, Till Zeigler pareva una statua di sale. Continuava ad arrovellarsi, a storcere le labbra con disappunto. Sordo alle parole di Lawrence Anderson, dubbioso solo per il nome che questi portava, si mordeva l'interno delle guance. Era convinto che mai avrebbe preso parte a chissà quale abominio etico e morale, soprattutto perché non era così allo stremo della sopportazione da dover sopperire una mancanza – e se anche fosse stato diversamente, le stanze adiacenti erano il fulcro giusto per mettere a tacere i bollenti spiriti di un chicchessia.

«Vi ho già dato una risposta» sbuffò Lawrence. «Ma se non vi piace, Zeigler, trovatene pure un'altra.» Iniziò ad armeggiare con la presa della corrente, poi con una boccetta di liquido nero, infine con il macchinario stesso. Quando lo sentì vibrare sul legno, Lawrence ghignò soddisfatto e schioccò la lingua in un moto d'euforia. Allora scostò bruscamente il lenzuolo dalle spalle del ragazzo e mostrò a Till Zeigler il bel lavoro fatto fino a quel momento. «Ecco» sibilò.

«Un tatuaggio?» Till batté le palpebre. Perplesso e un po' incuriosito, dunque, si decise a chiudere la porta per avvicinarsi a Lawrence e guardare meglio. Fu allora che la vide: una bellissima aquila dalle ali spiegate, sfumata in ogni sua piuma.

Era quasi completa, fissa d'inchiostro sotto la pelle lattea del ragazzo che, udendo lo schiarirsi della voce di Lawrence, stese subito le braccia lungo i fianchi – ormai aveva imparato a non contraddirlo, a capire le sue intenzioni prima di sentirlo parlare: non dovevano esserci pieghe di carne rattrappita sull'aquila!

Till si disse che l'assurdo era in grado di esistere anche in una stanza. Il clima era austero, impalpabile, quasi minaccioso. E lui non aveva voglia di andarsene senza essere arrivato a capo di qualcosa, perciò volle prestare tanta attenzione alle parole di Lawrence Anderson quanto alle sue più piccole azioni.

«Sì, questo ragazzo è stato così gentile da offrirsi come tela.» Sorrise. «Io ho colto l'occasione per divertirmi in modo pressoché indolore, non è vero?» Sornione, Lawrence guardò l'interpellato e lo vide annuire in tutta risposta – un movimento timoroso del capo, niente di più e niente di meno. «Vedete, annuisce...» fece, rivolgendosi poi a Zeigler con una sorta di candore paradossale. Sul volto di Lawrence, un'espressione a metà fra l'irreale ingenuità di un bambino e il sadismo estremo di un carnefice.

«State tatuando un prigioniero, Anderson» soffiò Zeigler, lasciando che l'interpellato sollevasse ancora un sopracciglio nel pensare che, probabilmente, avesse sottolineato un'ovvietà.

«No, sto colorando la porcellana di una bambola» rispose un po' seccato, spostando subito la sua attenzione sulla spalla destra del prigioniero. Lì individuò il contorno delle ultime piume e annuì, conscio che avrebbe impiegato l'intera notte per sfumarle bene.

«Non vi capisco» mormorò Till. Si tolse prima i guanti, poi il cappello. E fece passare una mano tra i capelli, continuando a cercare un perché che di certo non avrebbe trovato.

«Non siete il primo a dirmelo, ma sono certo del fatto che se solo v'impegnaste un po' potreste riuscirci» ghignò.

La punta dell'ago penetrò oltre la pelle della bambola. Marchiata di nero e tinta di rosso, sì: era così che Lawrence Anderson voleva vedere la tela. E pungeva in ogni dove, meticolosamente, seguendo il disegno già tracciato nei giorni precedenti.

Sotto l'epidermide del detenuto brulicava l'arte liquida e sadica di chi conosceva il famigerato perché.

Till interruppe i pensieri di Lawrence dando nuovamente e inutilmente fiato alla bocca: «Come si può capire qualcosa che non si è in grado di capire?»

«Magari tacendo» schioccò. «Proprio come fa questa bambola...» Un mormorio irritato, l'ultimo.

Il silenzio piombò nella stanza giustappunto nel momento in cui Till Zeigler si sedette su una sedia. Nell'aria c'era solo il ronzio del macchinario e l'eco dei gemiti rabbiosi di chissà chi che proveniva dalla parete alle sue spalle.

Era sorpreso da se stesso e disgustarlo nel profondo: aveva tante domande, così tante che sembrava assurdo tacere dopo l'ordine di un nessuno dal dubbio cognome. Eppure non disse niente. Le labbra sigillate e la testa vuota, assente, piena dei grugniti animaleschi e terribilmente famelici che gli rimbombavano nelle orecchie. Si perse con lo sguardo sul laborioso e interessante daffare di Lawrence, dicendosi che non avrebbe mai usufruito del Sonderbau come altri suoi colleghi. E per certi versi poté solo chiedersi cosa significasse davvero lavorare per la cagna di Buchenwald. Mordendosi l'interno delle guance, dunque, soppesò la questione: il ragazzo che aveva di fronte aveva l'aspetto di un deportato qualunque – con la pelle chiara e la capigliatura arruffata, certo, ma pur sempre comune – e non era certamente lui il soggetto principale – no, Lawrence lo aveva chiamato tela, lo aveva definito bambola, mai cagna di Buchenwald!

Dopo ore d'interminabile silenzio, dopo ore di crucci e ragionamenti insensati, Lawrence ghignò soddisfatto e indicò la porta a Till Zeigler. Gli fece perfino battere le palpebre e, riscuotendolo da suo torpore, disse: «Prego, Zeigler.»

«Andiamo?» L'interpellato si alzò in piedi e si schiarì subito la voce. Nella testa si era fatta strada la speranza, la voglia di tornare agli alloggi delle SS per dormire. E non attese una risposta, si mise semplicemente guanti e cappello. Era convinto che sarebbero rientrati, ma l'espressione di Lawrence lo sorprese non poco.

Questi inclinò la testa di lato e lo fissò senza battere ciglio. Non era né perplesso, né confuso, semplicemente contorto – tipico. E parve dargli indicazione di precederlo senza aprire bocca, perché non aveva alcuna voglia di alzarsi. «Potete aspettarmi fuori dall'edificio speciale se non avete intenzione di andare a trovare qualche bambola» soffiò deciso, finalmente conscio del fatto che Till Zeigler non si sarebbe mosso senza di lui. Allora tornò ad armeggiare con il batuffolo sporco che aveva in mano. «Devo finire di fissare il tatuaggio» spiegò blandamente. «Cosa significa quella faccia?» Lawrence scosse la testa e rise piano. Non si sarebbe aspettato niente di diverso da parte di Till, dopotutto era proprio ciò in cui sperava: la sua integerrima indignazione.

«Quale faccia?» Domandò di getto l'interpellato, certo che qualche cipiglio lo avesse tradito pur non volendo.

«La vostra, Zeigler, la vostra...» sussurrò canzonatorio. «Sembra che abbiate appena pensato a qualcosa di assurdo» aggiunse subito, portando una mano alla testa per spostarsi una ciocca di capelli più ribelle delle altre.

«Fate con comodo, Anderson» disse secco. La sua intenzione era quella di lasciare un sottinteso, ma pareva proprio che Lawrence non l'avesse percepita. Lo vide strabuzzare gli occhi, poi notò l'ironia malcelata dietro quell'espressione e indurì o sguardo.

«Arrivo tra un minuto.» Lawrence scosse il capo, fingendo palesemente di aver perso le speranze con Till Zeigler, infine si rivolse direttamente al prigioniero e chiese: «Giusto?» La voce bassa voce, melliflua. L'odore d'inchiostro e sangue che si perdeva nel terrore liquido dello sguardo confuso che aveva dinanzi. Ghignò.

Till storse il naso con fare indignato, desideroso di andarsene alla svelta. Era quasi certo della follia di Lawrence, perciò aprì la porta alla svelta e filò via senza aggiungere altro. Quel posto era strano, così si disse, come era strano anche Lawrence Anderson e ogni sua dannatissima azione! Tutto mancava di una spiegazione logica: il bordello chiamato edificio speciale, il ragazzo con l'aquila sulle spalle, perfino l'aggeggio con il quale gli aveva visto terminare il tatuaggio. «Un minuto» borbottò tra sé e sé. Non riusciva quasi a credere di aver abboccato a quell'assurdità. «Come no...» E storse il naso, procedendo lungo il corridoio a testa bassa. Le mani in tasca, intente a cercare sigarette e fiammiferi. Raggiunto l'esterno del Sonderbau, Till percepì il freddo della notte guizzargli sul volto accaldato. «Un minuto» ripeté stizzito.

Lawrence Anderson aveva detto che sarebbe uscito dalla stanza dopo un minuto, tuttavia Till Zeigler non sembrava affatto essere incline a crederci. Non a caso batté le palpebre quando, sulla soglia dell'edificio speciale, percepì dei passi alle sue spalle. «Eccomi» mormorò Lawrence. La divisa non ancora sistemata e il cappotto a ridosso dell'avambraccio.

Till lo guardò, non mancando di sorprendersi per la noncuranza con la quale un corpo tanto esile si beffasse del gelo. Ma non disse niente al riguardo, anzi: serrò i denti, ammutolito, e corrugò le sopracciglia soltanto quando si vide sfilare una sigaretta dal contenitore che stringeva in mano. «Si può sapere perché siamo venuti fin qui?» Sbottò, concentrandosi infine sulla nonchalance con cui l'interpellato mordicchiava il filtro. Disse: «Se mi fosse stato dato il turno notturno – come dite da prima – probabilmente non dovremmo essere nell'edificio speciale.» Si portò una sigaretta alle labbra e fece guizzare il fiammifero contro la scatoletta. «Dico bene?» Schioccò la lingua, poi avvicinò la fiamma alla sigaretta di Lawrence e sgranò gli occhi. Sorpreso del suo stesso gesto, Till si sbrigò ad accendere la propria e aspirò la prima boccata di fumo. Sorvolò sulla questione e si disse che forse aveva agito per cordialità, per non risultare troppo spocchioso con qualcuno in grado di metterlo in cattiva luce con il Comandante Koch.

«Forse...» Lawrence parve echeggiare i suoi pensieri. E sorrise, vedendolo impallidire subito. «Ma posso assicurarvi che nessuno metterà bocca su nulla se mi starete di fianco.» Si allontanò di qualche passo per sistemarsi i bottoni della divisa e infilandosi il cappotto. «Pensate a questo come un bellissimo circo...» aggiunse divertito. Si umettò le labbra e rivolse lo sguardo verso l'alto – oltre le piccole e liquide nubi che ricoprivano le stelle.

«Un circo?» Chiese. Non si sarebbe mai aspettato un paragone del genere, perciò non mancò di alzare le sopracciglia. Perplesso, scostò appena la sigaretta dalle labbra. Un po' di fumo scivolò via.

«Non trovate che ci somigli molto?» Chiese Lawrence. Non spostò lo sguardo su di lui, affatto: era troppo affascinato da quel qualcosa che Till non riusciva a vedere, quel qualcosa che si trovava solo nella sua testa folle. «Qui ci sono diverse persone, diverse storie, perfino diversi ruoli. Ognuno di noi ha un compito specifico e quando questo manca è bene sopperire la noia con un po' di allenamento.»

«Cosa stavate facendo in quella stanza?» Domandò Till, scuotendo il capo in uno sbuffo. Seccato, infine, si riportò la sigaretta alle labbra. Aveva immaginato che Lawrence si sarebbe trattenuto più di un minuto, invece questi aveva mantenuto la parola ed era filato via come se nulla fosse. Non sapeva cos'avesse fatto in quei pochi secondi, l'unica cosa di cui sembrava certo era che fossero troppo pochi per allungare le mani sul ragazzo.

Dopo qualche attimo di riflessione, Lawrence spostò lo sguardo su Till e spiegò la sua versione: «Un tatuaggio per la cagna di Buchenwald, ecco tutto.»

«E chi sarebbe?» Chiese. Quell'appellativo si era fatto vivo troppe volte per essere ignorato.

«Ilse Koch, la moglie del Comandante.»

«Frau Koch?» Till spalancò gli occhi. Era incredulo, letteralmente sconvolto per il nomignolo infame che le era stato affibbiato. Batté le palpebre, toccato nel profondo da tanta sfrontatezza, e non poté fare a meno di chiedersi come facesse il Comandante ad avere a cuore un tipo tanto sopra le righe come Lawrence Anderson. «Perché diamine la chiamate cagna

Era un appellativo letteralmente offensivo, lo sapevano entrambi, ma Lawrence aveva un motivo per definirla in quel modo – e non era neppure il solo! Sentendosi fare quella domanda, infatti, ridacchiò un po' e quasi rischiò di strozzarsi con il fumo della sigaretta. «Tutti la chiamano così, dai prigionieri ai vostri affezionatissimi colleghi, sapete?» Fece retorico, scuotendo il capo dopo aver posato una mano sul petto per abbottonarsi il cappotto. «Immagino che non abbiate la benché minima idea di cosa accada in questo posto. Se volete, però, molto presto potrò aiutarvi a capire.» Trattene la sigaretta fra le labbra, abbottonandosi bene il cappotto con entrambe le mani a disposizione.

«Cosa, come si fa un tatuaggio?» Sbottò retorico e indignato, aggrottando le sopracciglia.

«No, come ci si diverte e come si accontentano le alte cariche di questo campo, Zeigler» sbuffò Lawrence, zaffando una nube di fumo. «La cagna di Buchenwald è una vera e propria amante e intenditrice di tatuaggi» disse. «Li colleziona.»

«Non avete tatuato Frau Koch» ringhiò a denti stretti, credendo che Lawrence si stesse prendendo gioco di lui. L'occhiata eloquente che gli si posò contro, però, parve superare il confine di qualsiasi dubbio.

«Ho detto che li colleziona, non che ama farsi tatuare...» spiegò tagliente. Lo lasciò, con una risposta fin troppo tetra a portata di mano – ma era quello che voleva, no? Storse appena le labbra e si affrettò a proseguire: «Li considera una strana forma d'arte. All'arrivo dei prigionieri si controlla ogni parte del loro corpo per cercarne qualcuno d'interessante, qualcuno che possa attirare l'attenzione della cagna, ma ultimamente ne sono arrivati pochi...» Fece spallucce. «Volevo fare un piccolo regalo alla moglie del Comandante» concluse, afferrando la sigaretta per allontanarsela dal viso. E buttò fuori un'altra zaffata di fumo.

«Ancora non capisco bene, Anderson: come li collezionerebbe?» Domandò, certo di avere già compreso da sé quello che l'interpellato avrebbe potuto raccontargli.

Lawrence si sistemò il berretto sul capo e disse: «Appena il gonfiore del tatuaggio si attenuerà, qualcuno porterà la tela da Karl Beigs per un'iniezione letale. Solo allora si procederà con il resto.» Sorrise con fare assorto, cercando d'immaginare il proprio lavoro completo. «La sua pelle verrà asportata, conciata e data alla cagna di Buchenwald per farne qualcosa d'incerto...» soffiò. «Magari un paralume – oh, sarebbe davvero bello come paralume!»

«Era stato scelto per questo?» Chiese Till, sorvolando sull'espressione eccitata di Lawrence. Aveva tutta l'intenzione di sondare il proprio cruccio, di scoprire la risposta alla domanda che per ore gli aveva battuto sul palato. Ripensò al prigioniero e alla sua pelle candida, per nulla escoriata. Nessun ematoma sul viso, la testa ancora piena, non rasata – ah, quella era la prima cosa che gli era saltata all'occhio! – e poi la corporatura gracile. Soggetti come quello venivano soppressi all'istante: giusto il tempo di essere condotti in un sotterraneo o dinanzi a un semplice muro, ma non alla camera a gas, no, perché a Buchenwald non era in funzione – perlomeno così gli era stato spiegato all'inizio da qualcuno forse più sadico di lui.

Le SS di quelle parti, con potere decisionale sulla vita altrui, erano le più cruente di tutto il territorio germanico – e la cosa strana era che Till non sapeva se rallegrarsene o restare ancora un po' in bilico sul filo del rasoio.

«Esattamente. Anche se non sono solito lavorare di giorno, conosco molti colleghi che ben tenere a mente cosa introdurre o meno nell'edificio speciale. Ogni tanto – raramente – capita che portino qui anche dei ragazzi...» disse l'interpellato, riscuotendo Till dai suoi pensieri e facendolo accigliare di nuovo, con una conseguente zaffata di fumo.

«Cosa significa tutto questo? Non ci sono solo donne là dentro?»

«Come avete visto, Zeigler, nulla è come sembra. Perciò anche un bordello può offrire una variazione sul tema, di tanto in tanto...» ghignò. «Ma non avete di cui preoccuparvi: vi sbagliate di grosso se pensate che io sia interessato a quel prigioniero» Prese una pausa, poi aggiunse: «E vi sbagliereste anche se pensaste che mi sia in qualche modo interessato a voi.» E scosse la testa, ridacchiò. «Quel ragazzo è la tela per Ilse Koch, il mio regalo, mentre voi siete un semplice collega.» Conscio che la sola idea fosse ridicola di per sé, Lawrence non smise di ridere. Sentì lo sguardo di Till posandosi contro di lui, quasi percepì i suoi pensieri: lo riteneva pazzo. «Non mettetevi in testa idee ridicole, Till Zeigler, perché se c'è una cosa che amo davvero è il sangue

«Jedem das Seine...» sussurrò. In quell'esatto momento comprese cosa volesse dire davvero il motto sulla cancellata del campo.

«Esattamente, dite proprio bene!» Squillò allegro. E si spostò di un passo, quasi come se stesse seguendo una musica immaginaria. «Ilse Koch ama i tatuaggi, io amo il sangue, molti di quelli che sono là dentro adorano seviziare le bambole e...» Attese qualche istante, poi disse: «Ciò che mi sfugge, Zeigler, è quello che interessa a voi.»

«Questo posto.» Till rispose schiettamente. Nessun giro di parole, perché dopotutto aveva messo da parte la propria dignità per finire lì e non al fronte. Così si morse l'interno delle guance e ricordò il modo subdolo con il quale era riuscito a cogliere la fiducia di Rupert Haas e sua moglie Klara. Poi deglutì a vuoto, memore della finta ingenuità che aveva dimostrato nell'ignorare le palesi intenzioni del reduce – oh, aveva fatto davvero di tutto per uscire a testa alta dalla Capitale e dirigersi là, in Turingia.

«Il potere, la superiorità, l'onnipotenza» prese a elencare Lawrence. Fissò il biondo, stringendo la sigaretta fra le labbra e non provando nemmeno a nascondere il suo ghigno divertito. Un volto delicato e un'espressione diabolica. «Vi troverete bene a Buchenwald, allora. Conosco molti come voi e senz'altro sarete lieto di conoscerli a vostra volta» aggiunse con una lieve luce negli occhi.

«Mi dipingete come un invasato» obiettò l'interpellato. «Voglio solo ciò che mi spetta.»

«Dite?» Fece ironico Lawrence. «Avete rincorso per anni un sogno che adesso e qui, di fronte a voi. Eppure non sapete cosa farvene, perché non conoscete nulla di un campo di concentramento...» soffiò infidamente. E gli lanciò un'ultima occhiata, rimirando poi il mozzicone che stringeva tra le dita con evidente simpatia – tutto, dalle cose più piccole alla vita stessa, si riduceva in cenere di fronte a Lawrence Anderson. «Mi divertite terribilmente, sapete? Credo proprio che con voi potrò vedere parecchio sangue da queste parti.»

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