Capitolo 11
Dal suo arrivo a Buchenwald, fatta eccezione per Lawrence Anderson, Till Zeigler non aveva mai parlato con nessuno – non più del necessario – e, senza neppure accorgersene, si era reso prigioniero di se stesso. Aveva avuto modo di conoscere soltanto quella che era una libertà distorta, sadica, attraverso i suggerimenti di quell'elemento intoccabile a cui era letteralmente concesso di tutto. Ma per gli altri, per le SS da campo come lui, valeva un discorso diverso. Ciononostante non se ne accorse subito, anzi: accadde all'improvviso, durante l'ora di cena, quando finì con il trovarsi seduto accanto al collega che di solito gli dava il cambio nelle ore diurne – Hilbert Lange, se non andava errando.
Questi, a differenza di Lawrence, non sembrava propriamente incline al dialogo ed era sulle sue almeno quanto Till stesso. Tuttavia sembrava sul punto di dire qualcosa, di esplodere in un rimprovero – forse, o perlomeno così disse Till dopo una prima occhiata. «Se volete divertirvi con le vitamine, Zeigler, vi consiglio di farlo con i prigionieri e non con le donne che si trovano nel Sonderbau» disse di getto, guardandolo di sguincio.
L'interpellato batté le palpebre e istintivamente chiese: «Allora perché si trovano lì?» Quasi si rifiutava di credere che Lawrence avesse tentato di raggirarlo per annientare il suo senso critico.
Hilbert schioccò la lingua e indurì lo sguardo. «Quelle donne sono dei casi speciali, non sono prigioniere comuni.» Attese in silenzio, gli vide perfino aggrottare le sopracciglia, ma non se ne curò e disse: «Non ci sono ebree tra le mura dell'edificio speciale.» Con poche e lapidarie frasi, parve mandare Till in confusione. Tuttavia non si fermò, anzi. «Il Sonderbau è nato con il solo scopo di mitigare gl'istinti sessuali delle SS, è stato adibito a bordello per frenare la piaga dell'omosessualità. Le donne che vi sono rinchiuse percepiscono una sorta di salario, tra l'altro...» Detto questo, lo vide deglutire a vuoto e storse di poco le labbra. Una smorfia frustrata, infastidita.
«Un salario? Quelle donne sono pagate?»
Hilbert annuì, cercando subito di riformulare il discorso per renderlo meno tecnico: «L'omosessualità dilaga ovunque, anche nei campi di concentramento come questo, ma non all'interno del corpo delle SS, bensì tra decani e kapò...» Non sollevò lo sguardo, tornò a osservare il piatto e infine sputò il resto: «Le SS dovrebbero sorvegliare l'edificio speciale e raramente usufruirne, perciò non dovrebbero ridurre il numero di donne al suo interno, meno che mai renderle inutilizzabili – non so se mi spiego.»
«Non vi spiegate, Lange» sbottò Till, non mancando di mostrarsi restio a continuare quella conversazione serrata. Lo fissò con noncuranza, ma non più di qualche istante, e poi distolse lo sguardo come se nulla fosse.
Hilbert serrò i denti, parve quasi indispettito nel dire: «Questa mattina, dopo il cambio di turno, è stato pressoché facile capire che per una notte intera – e a più riprese, aggiungerei – vi siete presentato nel Sonderbau per infastidire una delle donne che lavorano lì.» Schioccò la lingua con fare seccato, infine sollevò un bicchiere dal tavolo e se lo portò alle labbra per sorseggiare del vino.
«Dunque?» Incalzò Till, sollevando un sopracciglio con fare annoiato – un'espressione che si addiceva più a Lawrence che a lui.
«Il vostro amico Anderson non vi ha spiegato come funziona il Sonderbau, immagino: massimo quindici minuti di piacere con pagamento anticipato di due marchi.» Con quelle parole, Hilbert si voltò di tre quarti nella direzione di Zeigler. Scostò il bicchiere dalle labbra e se le umettò subito.
Till batté le palpebre ancora una volta, quasi si fece scappare una risatina asciutta e chiese: «Perché mai dovremmo pagare delle donne che non saranno mai liberate?» E ghignò appena, con evidente sadismo, contaminato fin nel midollo dal modo di fare di Lawrence Anderson.
«Perché è così che si gestisce quel posto» soffiò il suo interlocutore. Sollevò perfino il mento e storse il naso con evidente fastidio. «Sono truccate e ben vestite. Di solito portano i tacchi alti prima di essere passate a rassegna, prima di essere scelte per i quindici minuti di piacere... E mangiano bene, sono trattate con cura.» Si fermò, indurì i muscoli del viso e corrugò la fronte. «Dapprima non ci ho fatto caso, non ho voluto farlo, ma poi mi è stato tutto più chiaro: voi e Anderson state procedendo a una strana e intestina eliminazione delle donne del Sonderbau. E se vi chiedete come faccia a dirlo con certezza, Zeigler, non è solo perché vi ho aiutato a trasportare quei cadaveri al crematoio, no davvero...» Arricciò il naso, poi vuotò il bicchiere di vino e lo posò sul tavolo in un piccolo tonfo. «So che ieri notte ne avevate rinchiusa una nell'ultima stanza a sinistra...» Si sentì osservato pur non guardandolo direttamente, così gli lanciò un'occhiata lieve, con la coda dell'occhio, e disse: «M'importa ben poco di sentire le lamentele di Anderson, Zeigler, perciò sappiate che l'ho fatta uscire io stesso.»
Till parve imbestialirsi. Il volto contratto in una maschera di frustrazione e rabbia, quasi paonazzo. «Perché lo avete fatto?» Domandò subito, seccato e irritato. Non avrebbe mai immaginato che qualcuno potesse azzardarsi a intervenire per bloccare e distruggere la sua opera di sevizia primaria. E digrignò i denti, si trattenne dal ringhiare come una bestia. All'improvviso gli baluginò dinanzi lo sguardo dignitoso della donna senza nome e inspirò a fondo per placare la propria ira, per non riversarla su Hilbert Lange che, a differenza di Lawrence, non pareva intenzionato a seguire la linea guida del Niente umanità a Buchenwald.
«Siete sordo, per caso?» Domandò, schioccando la lingua con fare indignato. E lo vide confuso, stranito, in bilico tra ragione e follia. «Vi ho già spiegato come funziona quel posto e mi auguro di non doverlo ripetere ancora» borbottò. «Quella donna è stata rovinata a causa vostra: le avete tatuato il braccio, l'avete rapata come il resto dei prigionieri e picchiata in modo a dir poco ripugnante – sul volto! Non può stare in quelle condizioni, perciò è stata trasportata in infermeria per un controllo.»
Till spalancò gli occhi, socchiuse le labbra come per parlare, tuttavia non ci riuscì. A frapporsi tra pensiero e coscienza, infatti, fu Lawrence Anderson che, comparendo alle spalle d'Hilbert, sibilò: «Come sarebbe a dire, Lange?»
«Anderson...» L'interpellato soffiò il suo nome con una lieve sorpresa, notando lo sguardo infuocato che gli veniva rivolto. E non riuscì ad aggiungere altro, poiché Lawrence parlò ancora una volta e prima di lui:
«Adesso quella donna è di mia proprietà» Sollevò il mento e gli girò attorno. Poi piantò un piede su una gamba della sedia d'Hilbert Lange e lo costrinse a voltarsi con uno scatto fulmineo, facendolo assomigliare a una trottola artefatta. «Sapete bene che quella stanza non può essere aperta senza il mio consenso» disse. Gli posò una mano sulla spalla e lo guardò dritto negli occhi. Abbassò di poco il tono della voce, infine aggrottò le sopracciglia fin quasi a farle scontrare sulla sommità del naso. «E tutto ciò che avviene al suo interno ha un senso...» continuò. Restrinse lo sguardo color dell'oceano, lasciando che Hilbert vi sprofondasse senza alcuna possibilità di fuga. Inquisitorio, aggiunse: «Dovrei parlarne con il Comandante Koch.»
«Non preoccupatevi di farlo, Anderson» lo interruppe subito. «Sarebbe comunque troppo tardi...» Un lieve ghigno gli comparve sul volto, mentre le parole continuavano a fluire schiette dalle sue labbra: «È bene che lo sappiate, perché sono stato io stesso a chiedergli un colloquio – prima di occuparmi dello spostamento della ragazza, è ovvio.» Sembrava quasi soddisfatto, tuttavia non riusciva a staccare gli occhi da quelli di Lawrence. «La vostre sono sevizie belle e buone, non regali per Frau Koch...» La voce di Hilbert si animò appena, ma alle orecchie degli altri due parve ugualmente atona, tanto che Till stesso aggrottò le sopracciglia con fare confuso.
«E voi cosa pensate di saperne in merito a ciò che faccio io?» Sibilò Anderson, storcendo il naso in una smorfia contrariata – detestava gl'impiccioni.
«Non l'avreste ridotta in quello stato se fosse stata scelta per un tatuaggio degno di nota» rispose schietto e incisivo, ricordando il ruolo che l'ultima stanza a sinistra nel Sonderbau avesse per Lawrence.
«Ha una personalità troppo spiccata» tagliò corto lui, continuando a sfidarlo con lo sguardo.
«Affatto, è particolarmente remissiva e adesso è anche sotto shock...»
«Dovevamo renderla innocua prima del lavoro per Frau Koch» sussurrò subdolamente, cercando di non appellare la moglie del Comandante come suo solito – ma cagna di Buchenwald era una nomea più che meritata!
«A quale proposito, dunque, aveva una ferita sul viso?» Domandò sprezzante Hilbert, fissandolo senza pensare ad altro che a sostenere il suo sguardo e quella sfida fatta di domande e risposte, d'insinuazioni e tentativi di fuga.
«Frenate la lingua, Lange...» ringhiò a quel punto. «Non vorrete certamente costringermi a prendere dei provvedimenti per la vostra insolenza.» Gli vide serrare le labbra appena schiuse e si lasciò andare a un ghigno soddisfatto. «Zeigler, seguitemi pure» disse allora, scostandosi da Hilbert Lange con un'alzata di spalle. «Andremo a prenderla dall'infermeria.»
«Anderson!» Lo chiamò a gran voce, osservandone le spalle ben ritte e l'andatura veloce, composta, che procedeva a passo svelto verso l'esterno della sala da pranzo. Deglutì e rimase un po' in sospeso a causa della curiosa successione di eventi. Così guardò dapprima Hilbert, poi la figura irritata di Lawrence. E prima di alzarsi dalla sedia bevve rapidamente un sorso d'acqua, cercò di mandare giù il nodo appena formatosi in gola. Non ci riuscì, perciò storse le labbra e posò il bicchiere sul tavolo con uno sbuffo frastornato. Raggiunse Lawrence, tuttavia non riuscì a fiancheggiarlo, perché più lo guardava e più aveva come l'impressione che incarnasse la minaccia improduttiva dell'essere umano. Rimase a un passo da lui, forse anche più distante, e non proferì parola per tutto il tragitto. Percorse il corridoio, scese le scale, raggiunse il piano terra e l'esterno dell'edificio. Solo allora si umettò le labbra, osservò Lawrence procedere verso l'infermeria e vuotò il sacco: «Lange mi ha spiegato a cosa serve davvero il Sonderbau.»
«E voi avete creduto a un simile insetto?» Domandò Lawrence, voltandosi a guardarlo con un cipiglio irritato. Schioccò la lingua, dopodiché gli diede ancora le spalle e borbottò: «Non è nulla se non quello, ricordatelo.»
«Lance è un collega» lo contraddisse Till. E tentennò, sì, perché nella voce di Lawrence parve aver udito un aspro rantolo d'indignazione.
«Un collega?» Echeggiò ironico. «Ma davvero?»
«Sa quel che dice e non parla a sproposito come fate voi» lo rimbeccò, raggiungendolo e afferrandolo per una spalla. Si fermò, cercando di obbligarlo a voltarsi, ma Lawrence non oppose resistenza a quel suo gesto secco. «Siete certo che potevamo fare tutto quel che abbiamo fatto?»
«Credete che se non lo fossi stato avrei potuto farlo?» Restrinse lo sguardo in una sfida verbale senza possibilità di appello.
E Till comprese subito la sensazione che aveva provato Hilbert Lange qualche minuto prima. Deglutì, poi disse: «Non credo...» E sbuffò aspro, deglutì ancora. La gola improvvisamente secca e la testa su di giri. «Ma voi agite in maniera totalmente irresponsabile!»
«Ieri notte eravate così euforico...» schioccò cinicamente. «Non avete pensato un po' prima alla mia irresponsabilità?» Chiese, scrollandosi di dosso la presa di Till senza la benché minima fatica. Così riprese a camminare, schioccò la lingua e si azzardò perfino a dargli un suggerimento: «Se non lo avete fatto è perché, fondamentalmente, vi fidate di me. E nessuno ha mai nulla da ridire sul mio operato, neppure il Comandante Koch...»
Till tentennò, poi ricordò le parole d'Hilbert e scosse la testa. «È stato informato e ha deciso sua sponte di trasferire quella donna in infermeria, Anderson!» Sbottò e arricciò il naso di rimando, infastidito dai discorsi di Lawrence – perché sì, a detta di Till Zeigler si trattava solo di favole campate per aria.
«Questo è successo solo perché non ha parlato con me in quel momento...» sbuffò, vedendo Till sollevare un sopracciglio con fare perplesso.
«Poteva svegliarvi» disse.
«No, non poteva...» Indurì i muscoli del viso e serrò i denti. Allora lo fissò brutalmente, infischiandosene del fatto che potesse sembrare più folle del solito, perché sapeva di poter essere imperioso e pretenzioso – oh, a differenza di Till Zeigler, lui poteva davvero tutto! «Ad ogni modo ho già parlato con lui, ve ne accorgerete a breve...» sillabò. «Quella donna aspetta il nostro arrivo a breve e non opporrà alcuna resistenza.»
Come Lawrence Anderson calcolasse le sue mosse era davvero un mistero che Till non riusciva a comprendere, perciò si lasciò sfuggire un: «Tutto questo è assurdo.»
«Non lo è affatto» lo rimbeccò, sollevando un sopracciglio con fare irritato e alquanto ironico. «Lange, a differenza mia, non ha la benché minima idea di come comportarsi in questi casi» spiegò a gran voce, infilando le mani in tasca per cercare le sigarette e i fiammiferi.
«Quali casi?» Domandò Till, scuotendo appena il capo quando una zaffata di fumo arrivò alle sue narici.
«Smettetela con queste domande, Zeigler, ne fate a bizzeffe e mai pertinenti alla situazione: imparate a tacere!» Gracchiò all'improvviso, infilandosi sigarette e fiammiferi nella stessa tasca da cui li aveva estratti. Poi si fermò al centro dello spiazzale per guardarlo a viso aperto e senza fare più mistero della propria indignazione. Lo aveva già avvisato, in fondo: detestava essere tartassato da quesiti inutili.
«Non avete risposto a quelle fondamentali ed è per questo che adesso ci troviamo in questa situazione» replicò schietto, senza più trattenersi. Restrinse lo sguardo e lo fissò dritto negli occhi, infischiandosene della nonchalance che trapelava da ogni gesto di Lawrence – il modo in cui si arricciava la ciocca corvina, quello in cui fissava il nulla e l'altalenarsi della sigaretta che posava a tratti sulle sue labbra. Continuò a guardarlo senza distogliere gli occhi, minacciosamente convinto della propria sfida e del silenzio che, irrimediabilmente, sorgeva in tutti coloro i quali lo sentivano ringhiare in quel modo. Allorché decise di calmarsi e respirò piano, lentamente, in modo modulato.
«Nessuna situazione preoccupante, Zeigler» spiegò in tono neutro. «Ciò che vi è stato riferito da Lange è parzialmente vero. Dico parzialmente, perché funziona tutto in modo diverso sotto la mia ala...» mormorò, inclinando la testa da un lato e fermando la sigaretta tra le labbra. Le dita strette attorno al filtro e i denti ben in vista, quasi complici del divertimento di Lawrence. «Piuttosto, ditemi: non avete pensato neppure per un istante al fatto che questi, magari, possa essersi risentito in qualche modo della vostra posizione?»
«Vale a dire?» Chiese subito, aggrottando le sopracciglia.
Lawrence scostò la sigaretta, sbuffò una piccola nube di fumo all'indirizzo di Till e, soddisfatto, si affrettò a dire: «Parlo della vostra posizione di favore, Zeigler. Non sono in molti a poter vantare certi privilegi, non qui a Buchenwald. Voi siete uno dei pochi, ma io sono il primo fra tutti...» Ghignò. «C'è differenza tra la massa e l'élite.» Aspirò ancora del fumo dalla sigaretta, poi lo buttò fuori come un drago, dalle narici, e lo vide salire al cielo. «Voi che per anni avete sognato di diventare un membro dell'élite, Zeigler, adesso volete relegarvi nella massa?»
«No» rispose atono, senza neppure rendersene conto.
Lawrence sorrise, ciccando in terra e facendo un passo indietro con aria divertita. «Non conoscevate il ruolo del Sonderbau: ebbene?» Domandò ironico, facendo spallucce. «Conoscevate il nomignolo della cagna di Buchenwald, però.» Si portò nuovamente la sigaretta alle labbra, tornò a fissarlo negli occhi e mormorò: «Non sapevate come funzionasse per tutti l'edificio speciale, ma perlomeno avete imparato a conoscere come ci si comporta da membri dell'élite in un posto simile.» E attese in silenzio, lo fissò intensamente, lasciando che il tarlo del dubbio lo logorasse lentamente. «Voi avete imparato il senso stretto della parola potere.»
«Dite che il rimprovero di Lange sia fonte d'invidia?» Chiese di getto. Quasi non se ne rese conto – no, era così pieno e saturo delle parole di Lawrence da non poter scorgere verità all'infuori di queste.
«Non amo i soggetti come lui» disse piano. «Sono troppo inquadrati, troppo ligi per comprendere le flessioni degli angoli a cui si può sottoporre una figura del genere...» Ridacchiò. «Voi, invece, avete sempre sostenuto di essere nato per il potere. Fate parte dell'élite già da tempo, da prima ancora che fossi io a dirvelo.» E con quelle parole, Lawrence Anderson riuscì a zittirlo del tutto.
Till non aggiunse atro, annuì e basta. Un ghigno stampato in faccia, un'espressione strana e contraddittoria che non aveva granché senso. Seguì Lawrence fin dove possibile e restò in attesa di vederlo uscire dall'infermeria con quella ragazza tanto contesa. Avrebbe dovuto sapere di essere solo un uomo fra tanti, ma nonostante ciò aveva iniziato a credere in qualcosa di più grande – la stessa illusione che aveva protratto a lungo e per tutta la durata dalla sua adolescenza, nonché quella che lo aveva condotto fino a Buchenwald, si era trasformata, sublimata. Sulla punta della lingua sentiva il sapore della vittoria e nelle vene continuava a scorrere l'adrenalinica certezza di poter domare, conquistare, annientare. E ancora una volta, osservandola, scorse quello che era davvero e quello che Lawrence Anderson aveva fatto in modo che fosse: niente.
Nuovamente relegata là, nel Sonderbau, quella giovane donna non aveva smesso di fissarlo dritto negli occhi. Era certa che il proprio destino fosse segnato, che non avrebbe mai messo piede fuori da quel maledetto campo di sterminio chiamato Buchenwald. E allora non seppe spiegarsi se fosse o meno sollevata – perché sì: le sevizie erano insopportabili, la violenza psicologica insostenibile, ma il ricordo di quei giorni, di quelle perdite e di quel dolore, sarebbe stato straziante se protratto all'infinito. «Non abbasserò lo sguardo» disse d'un tratto, mentre Till Zeigler la legava sulla sedia di legno. «Non chiuderò gli occhi e non pregherò nessuno.» La voce le tremava un po', tuttavia era certa che chinare il capo sarebbe stato irrispettoso verso se stessa e verso tutti gli altri che avevano subito in silenzio prima di lei.
«Pregherai me» sentenziò Till, vedendole subito scuotere la testa. Allora deglutì a vuoto, sentì la rabbia assalirlo e annebbiargli la ragione. La colpì con uno schiaffo e continuò a vedere i suoi occhi fieri, perciò la colpì ancora e ancora, fin quando entrambe le guance non le divennero livide. Si fermo solo a quel punto, con l'affanno che gli mozzava il respiro e le pupille ristrette della ragazza che, quasi folli, intendevano penetrare oltre il ghiaccio.
«No» disse allora. Serrò i denti, strinse le dita dei piedi e delle mani, si preparò perfino a ricevere un nuovo colpo – un pugno, un manrovescio, qualsiasi cosa. E tenne gli occhi fissi su di lui, sentì la risata aspra di Lawrence riecheggiare nelle mura della stanza. «Io non pregherò nessuno» fece ancora, più seria che mai. Inspirò a fondo, conscia di essere già caduta troppo in basso per risalire. Allora, con questa convinzione, sollevò il mento e si fregiò di tutta la dignità che aveva in corpo. Sentì Till Zeigler ringhiare, ma non si mosse di un millimetro e non indietreggiò neppure quando questi si presentò a pochi centimetri dal suo viso per sibilare un:
«Halt die fresse, schlampe.»
«Zeigler...» A chiamarlo fu Lawrence. La voce bassa, il tono cantilenante. Lo vide voltarsi e ghignò malevolo, mellifluo, come un demone dal viso angelico. «Cosa vi turba?» Domandò, facendolo deglutire di rimando. Lo scoprì improvvisamente pallido sulla fronte e con le guance paonazze di rabbia, perciò disse: «Non volete essere guardato, forse?» E non ottenne risposta. Rimase in silenzio, poi sospirò. Infine fece spallucce e sfilò dalla tasca del cappotto ciò che aveva trafugato dall'infermeria pochi minuti prima – un bisturi. «Eliminate il problema alla radice.»
«Alla radice...» echeggiò piano. Serrò le dita attorno al manico del bisturi e si concentrò sulla lama appena ricurva. «Eliminare il problema alla radice» soffiò ancora, tra sé e sé. Vide la ragazza deglutire, poi la sentì gridare. Non si accorse neppure di essere scattato nella sua direzione, di averle letteralmente pugnalato lo sguardo. Solo dinanzi alla prima orbita vuota ebbe un tentennamento.
Lawrence ghignò. «Jedem das Seine» sibilò. Lo vide annuire e inspirò a fondo il profumo del sangue. «Cosa significa per voi, Zeigler?» Chiese piano. Allora sentì gridare la ragazza e non seppe trattenere la propria ilarità: una risata animata, spassionata, gli uscì dalle labbra con fare convulso. E tanto più vedeva le mani di Till sporcarsi di sangue quanto più rideva – oh, non faceva altro che ridere.
«Jedem das Seine...» soffiò l'interpellato. Non rispose, mormorò semplicemente il motto di Buchenwald e si concentrò sul secondo bulbo che, con il suono di uno stantuffo vischioso, venne cavato dalle sue stesse dita.
«Eliminato alla radice» constatò Lawrence, riuscendo a trattenere uno spasmo di divertimento eccessivo. E non lo vide annuire, lo sentì solo respirare affannosamente. «Volete insegnare alla puttana la filastrocca delle vitamine?» Chiese allora. Incrociò le braccia al petto e socchiuse gli occhi. Sapeva che Till avrebbe parlato, sapeva che lo avrebbe assecondato fino alla fine – era in pugno, era libero e prigioniero di sé.
E così accadde, Till intonò Who killed Cock Robin? in tedesco: «Chi ha ucciso il pettirosso? Io, ha detto il passero, con il mio arco ed una freccia, io ho ucciso il pettirosso. Chi lo ha visto morire? Io, ha detto la mosca, con i miei piccoli occhi, io l'ho visto morire. Chi ha preso il suo sangue? Io, ha detto il pesce, con un mio piccolo piatto, io ho preso il suo sangue. Chi farà il suo sudario? Io, ha detto lo scarafaggio, con un mio filo ed un mio ago, io farò il suo sudario. Chi scaverà la sua tomba? Io, ha detto il gufo, con un mio piccone ed una mia pala, io scaverò la sua tomba. Chi sarà il prete? Io, ha detto il corvo, con il mio piccolo libro, io sarò il prete. Chi sarà il chierichetto? Io, ha detto l'allodola, se non è di sera, io sarò il chierichetto. Chi porterà la fiaccola? Io, ha detto il fanello, io la trasporterò in un minuto. Io porterò la fiaccola. Chi riceve le condoglianze? Io, ha detto la colomba, io sono a lutto per il mio amore. Io riceverò le condoglianze. Chi trasporterà la bara? Io, ha detto il nibbio, se non sarà durante la notte, io trasporterò la bara. Chi farà il drappo funebre? Noi, ha detto lo scricciolo, sia il gallo che la gallina, noi faremo il drappo funebre. Chi canterà il salmo? Io, ha detto il tordo, come lui appoggiato su un cespuglio, io canterò il salmo. Chi suonerà la campana? Io, ha detto il bue, perché io posso tirare, perciò addio, pettirosso.» Gli occhi fissi sulle orbite vuote e sanguinanti della ragazza, sul sangue che le colava lungo le guance e le inzaccherava i vestiti. Non si mosse, sentì solo l'eco di Lawrence soffiare alle sue spalle:
«Tutti gli uccelli in aria sospiravano e singhiozzavano, mentre ascoltavano la campana suonare per il povero pettirosso.» E rise ancora, di nuovo, con più cinismo e più vigore, mentre la ragazza esalava l'ultimo respiro dinanzi a Till Zeigler. Poi si fermò di colpo, posò le mani sulle spalle di quest'ultimo e si avvicinò al suo orecchio per scandire: «Siete un completo idiota.»
Till scattò in piedi, facendo subito retrocedere Lawrence di un passo. Guardò le proprie mani sporche di sangue, poi il cadavere martoriato della ragazza e i bulbi storpiati, devastati, che si adagiavano molli e informi sul pavimento. «Cosa?» Balbettò. Fece cadere il bisturi al suolo e sentì l'eco della risata di Lawrence riempirgli le orecchie assieme al vociare convulso del proprio inconscio. «Non sono un idiota, non sono un idiota...» iniziò a dire, sfregandosi freneticamente le mani sul lenzuolo del letto adiacente. «Non sono un idiota!» Alzò la voce, ma questa sembrò abbassarsi accanto alla risata di Lawrence.
«È vero, non siete un idiota...» mormorò di colpo, all'improvviso. Lo immobilizzò con un'occhiata algida e folle, con un sorriso sinistro, mentre gli porgeva i guanti che aveva dimenticato sull'altra sedia. «Siete il mio esperimento, la mia marionetta» disse. «Conoscete la storia di Pinocchio?» Ridacchiò ancora, vedendolo deglutire a vuoto. Allora gli si avvicinò, gl'infilò i guanti a forza e fece spallucce. «Lui era un burattino che ambiva alla vita vera, che desiderava essere qualcosa che non era davvero...»
«Cosa state cercando di dirmi?» Riuscì a chiedere Till in un soffio, rabbrividendo. Dietro la pelle nera dei guanti sentiva ancora il vischioso sangue della ragazza appena uccisa.
«Nella prima stesura del suo romanzo, Carlo Collodi fece impiccare Pinocchio.» Sollevò gli occhi su quelli di Till e li scoprì lontani, estranei, quasi spaventati. «Oh, babbo mio, se tu fossi qui!» iniziò a citare. «E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito.»
«Anderson...» balbettò. Non disse altro, lo vide ritirarsi verso la porta della stanza e solo allora lo chiamò ancora: «Anderson, dove state andando?»
«Il giro di ronda, Zeigler» volle ricordargli. Poi ghignò, posò una mano sulla maniglia e aggiunse: «Volete venire con me a cercare la vostra corda o preferite restare qui con il vostro incubo?»
Till lo seguì in silenzio, con la testa su di giri e i brividi lungo le braccia.
Vedeva ancora i suoi occhi.
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