𝘸𝘩𝘺 𝘥𝘰 𝘪 𝘢𝘭𝘸𝘢𝘺𝘴 𝘴𝘱𝘪𝘭𝘭
continua ⇘
Mi passo distrattamente le dita fra i capelli. Incastro i polpastrelli fra le ciocche, sfilo poco a poco le mani nella loro consistenza morbida, lascio che il mio polso le porti più in giù, fino alle punte che sfuggono.
Attendo in silenzio.
Le parole della professoressa di matematica non raggiungono le mie orecchie, rimangono appese nell'aria distanti e fumose, non ascolto, non seguo, non m'interesso.
Tutto quel di cui mi curo ora è me stesso, il mio corpo, le mie emozioni, le sensazioni completamente nuove che essere me ora mi concede.
Mi sono fatto la tinta da solo.
Mi sono vestito senza affidarmi al mio guardaroba scelto per me da qualcun altro.
Ho piegato il mio aspetto alle sole mie volontà, spoglio finalmente della gabbia in cui sono stato infilato nascendo.
Mi sento diverso.
Strappato, dilaniato e scuoiato dai denti, dalle mani e dalla violenza di Kuro, ora mi sento libero di quella pellicola trasparente e grigia che ricopriva stretta la mia pelle, impedendole di respirare, di scegliere e di fare per se stessa e in se stessa.
È come se mi avesse tirato fuori a forza da un bozzolo che stava marcendo.
Come se avesse capito che il mio becco non era abbastanza forte per spezzare il guscio dell'uovo dall'interno, e avesse poi deciso che anche se la natura non voleva che nascessi, allora poteva deciderlo lui al suo posto, affondando gli artigli e aprendo un varco perché finalmente anche io vedessi la luce.
Sono nato, in quel momento in cui stavo morendo tra le sue braccia.
Ho aperto gli occhi, ho pianto, ho preso aria fino al fondo dei miei polmoni, sono emerso dalle sbarre, dal fango, dal nulla, e ho assunto una consapevolezza che prima non sapevo di non avere.
Mi ha messo al mondo sventrando le viscere fatiscenti dell'utero di mia madre, scavando fra la putrefazione d'esser lì chiuso da diciassette anni, tirandomi fuori ancora inspiegabilmente vivo e inspiegabilmente in grado di capire chi dovevo ringraziare per il dono d'essere esistente.
Sono nato morendo.
Macchiato di sangue, urlando di dolore, con le lacrime tanto copiose da non riuscire a distinguerle le une dalle altre.
Ora chi sono, non è più l'embrione infelice affogato nel liquido amniotico della cattiveria di un mostro che mangia chi ha appena generato.
Incastro i piedi sulla sbarra del banco di fronte a me.
Studio le punte dei miei piedi, le mie gambe, le ginocchia sottili.
Mi sento così diverso.
Non saprei dire se più felice, forse più soddisfatto di me stesso, un po' più forte. Mi sento sicuro, che è qualcosa che non mi sono sentito mai, appagato della mia pelle che mi ricade sopra le ossa.
Ora sono lei.
Io sono diventato lei.
E non ho più nulla da temere, più nulla da soffrire, se sono diventato l'oggetto di tutto il mio odio.
Ho pescato dal suo armadio senza chiederglielo. L'ho aperto, ci ho infilato le mani dentro e ho reclamato quel che è mio, perché se sono lei, quel che ha ce l'ho io di diritto.
Ho aperto il suo cassetto nel suo bagno, ho acceso la sua luce attorno al suo specchio, ho messo il suo asciugamano attorno alle spalle e ho usato il suo decolorante sui capelli scuri.
Mi sono guardato riflesso, dopo.
Coi suoi capelli.
La sua faccia.
La sua espressione.
I suoi vestiti.
Il suo aspetto.
La sua forza.
La sua bellezza.
Il suo ragazzo.
Rinnegami ora, mamma.
Guardami e dimmi che mi detesti.
Fammi sentire nulla, fammi sentire inutile e infimo e inerme, riducimi allo scarafaggio che brulica sotto le assi del pavimento, dimmi che tutto quel che sono è solo un errore.
Non puoi.
Parleresti di te.
Io ora, sono te.
Il tessuto dei suoi jeans è più costoso di quello dei miei, più spesso. Sono più stretti, non attillati sulle gambe ma stretti sui fianchi e la vita, il colore è più chiaro, il fondo ha i risvolti cuciti che mostrano le caviglie.
La maglia è morbida contro la pelle, stringe il torace, avvolge il collo.
Gli anfibi sono alti.
I gioielli scintillano.
Il profumo è dolce e vanigliato.
I capelli biondi brillano, al sole, nel colore di quelli di un angelo.
Mi guardano come se fossi te, come hanno sempre guardato te, come ti guarderanno ogni giorno che verrà. Fissano gli occhi sul mio corpo, questo stuolo di inutili soggetti che per me non hanno neppure la voce, e so che finalmente mi vedono, si rendono conto che sono qui, e che provano attrazione nei miei confronti.
Non mi hai mai concesso il tuo potere, mamma.
Ma qualcuno te l'ha rubato per darmelo.
E ora che l'ho.
Ora sono te.
Incastro le dita su un anello, lo giro attorno all'anulare, respiro l'aria stantia di questo posto in cui nessuno apre abbastanza le finestre.
Lui mi ha regalato tutto.
Mi regalerà tutto.
Mi darà ogni singola cosa che voglio.
Mi ama, mi ama e mi renderà col suo amore quel che ho sempre voluto essere.
La sua piastrina militare mi sfiora la zip dei jeans.
I segni si sono scoloriti, ma il tessuto che si sta riformando fra i solchi del morso che ha inflitto sulla mia nuca è rosato e liscio, quello di una cicatrice.
Mi divora, ma mi risputa masticato e migliore.
Mi strappa brandelli di carne dal corpo, ma solo quelli che prima mi rendevano grigio.
Mi uccide, ma uccide di me la parte che davvero doveva morire.
Col sapore ferroso del dolore lancinante e il ricordo dell'acqua che mi solca le guance penso chiaramente che vorrei rifare quel che abbiamo fatto la settimana scorsa, penso che non vedo l'ora, e che chi da fuori potrebbe pensare che sono vittima offerta al carnefice di una violenza senza perdono, non ha mai provato quel che io ho sentito diciassette anni della mia vita.
Non ho bisogno di pace, non di aiuto, non di calma e non di cura.
Io ho bisogno di vendetta.
Ho bisogno di seppellire chi ha gettato la sabbia sopra la teca di cristallo della mia bara fino a lasciarmi al buio.
Ho bisogno di Kuro, che m'insegna che la violenza e la cattiveria non sono la stessa cosa, perché la prima è il modo di comunicare, la seconda il fine della comunicazione.
Kuro è violento.
Mia madre è cattiva.
Kuro è violento.
Io sono cattivo.
E ho qualcuno che dopo avermelo insegnato, tradurrà la mia lingua a chiunque mi stia intorno.
Appoggio le mani sul banco, mi guardo le dita a contrasto con la copertina scura del quaderno che ancora non ho aperto.
Sono sottili, piccole, corte, l'argento degli anelli riluce piano, le unghie sono ancora mezze smangiucchiate, le cuticole trafitte dal nervosismo dei miei denti.
Non mi piacciono, così, da sole.
Come me stesso le apprezzo soltanto se intrecciate e mescolate a quelle più scure, più crudeli e più lunghe di Kuro.
Il suono della campanella mi sfonda i timpani ma dà una parvenza di respiro alla mia agonia, la voce distante della professoressa s'interrompe sostituita dal marasma tipico di una classe che sta per sciogliersi.
Sospiro.
Mi tiro una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio.
Pacatamente comincio a ritirare le mie cose dentro lo zaino.
Andrò da Kuro, oggi, ma lo farò senza che venga a prendermi, ieri sera ha avuto un incontro ed è tornato a casa tardi, pur preferendo vedermelo comparire di fronte agli occhi fuori da questo inferno ho sentenziato che sarebbe stato meglio se avesse dormito.
Non ho fretta.
Il bus passa fra una mezz'ora, non ho davvero bisogno di correre.
Raduno i libri e i quaderni, mi alzo per appoggiare lo zaino sulla sedia, raccolgo le penne dentro l'astuccio e lo chiudo, metto tutto ordinatamente dentro la tasca più grande. Tiro fuori dall'altra il gloss che ho preso alla mamma, lo stappo e ne passo una generosa dose sulle labbra che poi impasto fra loro per godermi quella sensazione appiccicosa della bocca che s'incolla.
Quando tutto è a posto indietreggio verso il fondo dell'aula, pesco la giacca corta e nera che prima non avevo l'ardore di mettere, la sistemo sulle spalle, la allaccio.
Do giusto una pettinata ai capelli con le dita prima di prendere la bretella dello zaino, tirarlo su e fare per...
– Kenma, un attimo. Devi scappare? –
Alzo lo sguardo quasi inebetito.
Mi sono sì reso conto del modo diverso in cui tutti mi guardavano oggi e i giorni prima di questo, ma di aspettarmi un cambiamento così repentino come l'essere considerato e addirittura chiamato per nome proprio non mi immaginavo.
Fisso gli occhi su quelli del ragazzo che ha parlato.
È della mia classe, so il suo nome ma non m'interessa, ed è affiancato da una ragazza, sempre della mia classe, che non mi è mai andata a genio.
È bella, sempre al centro dell'attenzione.
Non qualcosa che io apprezzo particolarmente.
– No, il pullman passa fra un po'. – rispondo, non sapendo che altro dire.
Il ragazzo sorride, alza le mani col fare un po' imbarazzato.
– Ti avremmo scritto ma nessuno dei due ha il tuo numero. Il lavoro di gruppo, quello di storia, sei con noi. Ci chiedevamo se potessimo farlo oggi. –
Il lavoro di gruppo?
Di storia?
Quando ne hanno parlato?
È vero che non sono uno studente diligente ma non sono nemmeno un cretino, mi sembra strano che io non me ne sia accorto.
Miseria, se l'avessi fatto avrei chiesto alla professoressa, come con ogni cosa di questo tipo che si presenta, se avessi potuto farlo da solo.
Purtroppo questo deve essermi scappato.
– Oggi? Non lo so, oggi, se posso. – borbotto, cercando di ragionare su come arginare il problema nel modo più indolore possibile.
– È che è da consegnare venerdì e domani siamo tutti e due impegnati. Davvero non puoi proprio? –
– Non potete dirmi cosa devo fare e poi ve lo mando in giornata? –
– Credo davvero sarebbe meglio se lo facessimo assieme. –
Storco il naso, sospiro, capitolo con un gesto del capo. No, per quanto voglia evitarlo, credo che il modo migliore per levarsi l'impiccio sia affrontarlo il prima possibile e farla finita così.
– Ok, un secondo. Arrivo. –
Rimetto lo zaino sulla sedia, riapro la tasca grande, infilo la mano fino in fondo a cercare il cellulare. Una tenda di capelli chiari mi copre metà del volto mentre mi chino, il ragazzo che mi ha parlato li guarda.
Accendo lo schermo, cerco la rubrica, trovo il contatto in cima fra quelli "chiamati di recente".
Porto lo speaker all'orecchio, bastano un paio di squilli.
– Kenma? –
La voce è roca, assonnata, non tanto da farmi intendere che stesse dormendo ma abbastanza da suggerire che si sia svegliato da poco, il tono basso e suadente mi rilassa subito la spina dorsale, la tentazione di rispondere male ai due intrusi e scapparle incontro è forte.
– Kuro, ciao. Dormito bene? –
– Come un morto. Stai bene, è successo qualcosa? Hai bisogno che venga a prenderti? –
Sorrido istintivamente.
– No, no, tutto bene. Mi hanno detto ora che devo fare un lavoro di gruppo di storia e mi sa che non riesco a passare da te adesso. Forse per cena. –
– Mmh, ok, ok, ho capito. Il piccolo Kenma deve anche studiare, ogni tanto, eh? –
Sento il principio delle mie guance scaldarsi un po', ridacchio.
– Parrebbe. Anche se davvero non vorrei. –
Mugugna a labbra chiuse e lo sento respirare, mi arriva all'orecchio distintamente il rumore di lenzuola che si spostano, suppongo si stia muovendo sul letto.
– Se mi dici dove andate vengo a prenderti quando hai finito. –
– Un secondo che... –
Stacco la cornetta dall'orecchio, guardo i miei compagni di classe sorridendo, non tanto perché voglia farlo a loro, più perché non farlo quando sto ascoltando la voce di Kuro mi riesce difficile.
– Dov'è che andiamo a fare il lavoro di gruppo? – chiedo.
La ragazza alza le spalle.
– In realtà non abbiamo ancora deciso. C'è un bar qui vicino, ma forse è pieno, direi che andiamo a guardare e... –
Lascio perdere.
Torno alla mia telefonata.
– Non lo sanno. Ti scrivo quando decidiamo. –
– Volete venire qui? Non è tanto lontano. –
– Da te? –
– Sì, da me. Non va bene da me? –
Sbatto le palpebre un paio di volte per metabolizzare l'offerta.
Da Kuro.
Qualcuno di estraneo a casa di Kuro.
Qualcuno che non sia noi a casa di Kuro.
Qualcuno che non c'entra niente a casa di...
Mi sento violato, all'idea? Mi sento invaso?
No, non più di tanto.
Non sento quella sensazione di competizione e di ansia che normalmente quest'idea mi avrebbe generato, non mi sento usurpato o derubato.
Sono sicuro di Kuro, sono sicuro di me.
Non temo l'esterno, perché so che per quanto terrificante possa essere quel che c'è dentro, è lì e non se ne andrà.
– Ora chiedo. –
Riguardo i miei compagni.
– Il ragazzo di mia madre chiede se vogliamo andare da lui. Non abita tanto lontano, è comodo da qui. Basta prendere il bus. –
Mentre i due ascoltano le mie parole e ci pensano, Kuro ride e mi chiede "il ragazzo di tua madre, davvero?" all'orecchio, ma non gli rispondo.
Il ragazzo annuisce.
Anche lei lo fa.
– Ok, hanno detto di sì. Allora ci vediamo fra poco. Grazie ancora, Kuro. –
– E di che, per te questo ed altro. A dopo, Kenma. Fa' il bravo. –
– Sempre. – rispondo.
– Sempre. – ripete.
La chiamata termina, guardo giusto un secondo lo schermo del mio telefono, poi rimetto il cellulare dov'era, richiudo la tasca dello zaino, me lo rimetto sulle spalle.
Mi rendo conto della platea in attesa solo quando torno con lo sguardo su di lei.
– Tua madre e il suo ragazzo non vivono assieme? – mi viene chiesto, con quella tipica espressione interrogativa di chi nella vita ha sempre avuto mamma e papà sempre nello stesso posto e nella stessa posizione.
Faccio "no" con la testa.
– No, ancora no. Forse fra poco, chissà. –
– Stanno insieme da tanto? –
Torno indietro alla notte in cui gli ho chiesto di venirmi a prendere.
Era...
– Un mesetto, circa. Anche se credo ci sia voluto un po' perché ammettessero a loro stessi che si piacevano, sai. Ma non ne sono sicuro. –
Lui annuisce.
– E tu e lui andate d'accordo? –
– Molto. –
– Menomale, non dev'essere piacevole avere un patrigno antipatico. Sai, come quelli dei cliché. –
– No, no, non è antipatico. Siamo abbastanza in confidenza. –
La ragazza si fa avanti di un paio di passi, studia il mio viso, poi piega la testa.
– È per caso quello che è venuto a prenderti a scuola l'altro giorno? Quello con la moto? –
– Lui, già. Il ragazzo di mamma. –
Mi sorride, sembra quasi gentile.
– Miseria, per un attimo ho quasi pensato che fosse il tuo, di ragazzo. –
Pianto gli occhi sui suoi, cerco di reprimere tutta la soddisfazione di sentirmelo dire dal volto, scuoto il capo.
– No, è il ragazzo di mamma. È che, come ho detto, siamo abbastanza in confidenza. Andiamo d'accordo. –
– Meglio per te, allora. –
Incastro entrambe le bretelle sulle spalle e guardo con più intenzione la porta.
Entrambi capiscono che sto suggerendo di smettere di chiacchierare e finalmente uscire da quest'aula, e imitano il mio gesto, mi seguono.
Percorro il tratto che mi separa dall'uscita prima, e dalla fermata del bus poi, in silenzio in mezzo a loro due che parlano fra loro.
Che mimo sempre calma e tranquillità.
Ma sono davvero sorpreso, a dirla tutta, di aver constatato che la mia voce le altre persone la possono sentire, ora, e non è più solo fruscio dimenticabile nel retro della testa di cui mai nessuno si rende conto.
È vero che casa di Kuro non è lontana.
Di solito percorriamo questo tragitto sulla sua moto e ci vuole ancora meno, ma anche coi mezzi, non è affatto un viaggio lungo.
I palazzi sono sempre gli stessi, i negozi pure, dal bar in cui abbiamo mangiato la torta di mele quella volta al supermercato sotto casa dove mi compra tutto il cibo che gli chiedo, riconosco questo pezzo di mondo ormai quasi fosse il mio.
Suono il citofono e Kuro non chiede nemmeno chi lo stia facendo, apre, ci mostra le scale, prendiamo l'ascensore per salire che senza l'ansia e la smania di sapere se mi detesta non riesco a macinare i gradini con tanta leggerezza.
Quando arriviamo di fronte alla porta dell'appartamento la troviamo chiusa.
Appoggio un dito sul campanello.
Lo sento suonare da dietro la porta.
Non so perché tutto questo mi ricordi l'atto di invitare qualcuno a casa mia. Non ho mai invitato nessuno a casa mia e questa non è casa mia, questo pensiero non segue né la logica dei fatti né quella di pensare a sensazioni già provate.
Però è così.
Mi sembra di accogliere estranei nel mio spazio, di presentare loro la mia vita, la mia essenza, la mia quotidianità, e questo non mi spaventa, non m'imbarazza, ma mi rende stranamente fiero.
Io gli altri non li odio.
Non è che li evito perché li odio.
Io li temo.
Temo il loro giudizio, la loro voce e la loro opinione, temo che loro, molto più legittimati dal non essermi amici, possano essere peggio di lei, che invece dovrebbe teoricamente amarmi.
Mi isolo perché ho paura.
Mi isolavo, perché avevo paura.
Ma ora che paura c'è da avere?
Cos'è che mi spaventa loro vedano?
Niente.
Che guardino.
Che tocchino e che saggino.
Io ora sono lei e sono più forte, e anche se schermata dall'innocente bugia di dover nascondere l'età della persona che amo, questa vita non m'imbarazza.
Kuro, la sua bella casa, la sua personalità cordiale di bestia con la maschera da essere umano, me, i miei capelli biondi, la mia sicurezza, la mia vita.
Potete guardare.
Cosa dovreste giudicare?
Non è il fatiscente ammasso di stracci che è camera mia, quella vera, dove metto vestiti di uomini di cui non ricordo la faccia e possiedo un guardaroba che conta al massimo una decina di capi.
Non è mia madre sbronza che si scopa il primo malcapitato così forte che si sente in tutta la casa.
Non sono io che mangio troppo poco, dormo troppo poco, vivo troppo poco, nello sfondo infelice di un posto di cui tutti potrebbero ridere.
Quello ero io prima.
Io ora, sono questo.
Non temo più lo sguardo, su quello che sono ora.
La porta si apre con calma, spuntano i capelli corvini, le spalle larghe, i calzini e i pantaloni lunghi della tuta, la felpa, le mani tatuate, gli occhi d'ambra.
Sorrido.
Lo spingo indietro per farci entrare.
Mi sento a casa quando dopo aver fatto qualche passo indietro mi arruffa i capelli con gli angoli della bocca tirati su, mi sento bene, e respingo solo per il bene del buonsenso l'istinto di gettargli le braccia al collo e baciarlo d'euforia e di gioia sfrenata.
– Kenma, ciao, Kenma. Come stai, Kenma? – ripete, le dita fra le ciocche, gli occhi nei miei.
– Bene, Kuro, sto bene. Tu? Sveglio da poco? –
– Abbastanza. Su, entrate, voi, non fatevi problemi. Lasciate le scarpe vicino all'ingresso. –
Non mi guardo alle spalle, non m'interessa cosa fanno dietro di me, come ogni volta che mi è di fronte, io vedo solo lui.
L'appartamento è come è di solito, disabitato, ma credo che abbia tirato su le tapparelle in vista nel nostro arrivo perché la luce si spande ampia e chiara, al suo interno.
Sfilo gli anfibi uno con l'altro, mi dico che per quanto possa forse essere strano, non è del tutto incomprensibile il gesto, quindi apro le braccia, mi spingo avanti, chiudo le mani dietro la vita di Kuro abbracciandolo.
È così solido, così bello.
Vorrei potermi infilare sotto la sua felpa e sentire la mia pelle bruciare a contatto con la sua.
Vorrei che sparisse l'occasione che mi costringe alla riservatezza, tirar su le punte dei piedi e sentire se il suo sapore nella mia bocca è lo stesso di sempre.
Vorrei scomparire, addosso a lui, e potermi godere l'amore di un uomo che so non essere niente di quel che sembra a due sconosciuti.
Mi sciolgo piano prima che diventi troppo fuori luogo.
Kuro mi guarda in un modo che conosco e non conosco.
Calma e dolcezza, ma quel fondo che c'è sempre, di pura brama e voglia.
Respiro il suo odore, prima di girare il capo.
– Ci possiamo mettere sul tavolo in cucina. Seguitemi. – dico, di fronte a sguardi che vagano fra la confusione e il timore.
È ciò che fa Kuro alle persone.
Abbaglia con la bellezza, ma spaventa con la stazza.
Faccio strada con lui al mio fianco, introduco i due sconosciuti verso la cucina, metto lo zaino a terra e così fanno loro, mentre tirano fuori le loro cose io slaccio la giacca e me la tolgo di dosso.
– Arrivo subito, vado un secondo a cambiarmi. – commento poi, guardandoli con circospezione sedersi e annuire al mio avvertimento.
Li lascio là senza pensarci troppo.
Il cuore mi batte forte nel petto a sentire passi dietro di me, che mi seguono, consapevole di chi sia che mi sta ad una ventina di centimetri di distanza.
Apro io la porta.
La richiude lui.
Sono avviluppato dalle sue mani prima che possa pensare di volerlo fare.
È tutto quello che non era qualche giorno fa, in questo istante. È quella parte più liscia, morbida e lineare, quella più classica, più affettuosa. Ha comunque la vena possessiva e violenta di toccarmi come se gli appartenessi, ma non morde, solo mi bacia con calma coperto dalla privacy della sua stanza.
Mi sciolgo.
Scendo piano sulle piante dei piedi e lo fisso con gli occhi grandi e adoranti, tengo le mani sul suo petto, sbatto le ciglia.
Mi accarezza una guancia.
– Li conosci da quanto, quei due? –
– Compagni di classe, mai parlato fino a mezz'ora fa. –
– Dovete davvero fare un progetto di storia? –
Annuisco piano.
– Non ho idea di che progetto sia, ma sembrerebbe di sì. –
Le sue dita sulla mia guancia si stringono appena, le sposta perché la sua mano mi tenga fermo dal mento, si avvicina, mi guarda negli occhi.
– E ti andava bene farti portare chissà dove da due sconosciuti così di punto in bianco, Kenma? –
So cosa intende.
Ora però so anche come reagire.
La mia voce esce più lagnosa, le ciglia sbattono con più enfasi, l'espressione si fa più dimessa.
– Certo che non mi andava bene, soprattutto visto che dovevo venire da te. –
Mi squadra il viso, poi lo piega e mi stampa un bacio sulle labbra.
– È pericoloso seguire persone che non conosci in un posto che non conosci. Lo sai che non voglio che tu faccia cose pericolose. –
– Lo so, Kuro, lo so. Mi dispiace se ti è sembrato che volessi farlo. Non volevo. Non sai quanto ti sono grato per avermi permesso di portarli qui. –
– Se fossimo da soli ti chiederei di farmela vedere, questa gratitudine. –
– Se me lo chiedessi te la farei vedere anche se non fossimo da soli, Kuro. –
Alza un angolo delle labbra, mi stampa un altro bacio addosso, poi mi lascia andare e si siede sul bordo del letto, le gambe lunghe stese di fronte a sé e le braccia incrociate al petto.
Mi guarda.
In silenzio, aspettando.
Non lo faccio attendere.
Appendo la giacca su una gruccia, poi inizio a spogliarmi con calma. Sfilo la maglia, sbottono i jeans, lascio che il tessuto cada a terra poco alla volta, rabbrividisco a contatto con l'aria fredda.
Kuro fissa gli occhi su di me come potesse scavarmi la carne con lo sguardo.
Beve ogni dettaglio, e so che le sue pupille si fermano in punti ben definiti. Sul segno delle sue mani sui fianchi, sbiadito ma ancora percettibile, sui lividi che costellano l'interno coscia, sul tessuto della cicatrice sulla nuca.
Si lecca le labbra.
Non parla.
Apro il cassetto dell'armadio con calma, pesco fuori un paio di pantaloni che ho lasciato qui l'altro giorno e una delle sue magliette, mi siedo per terra per mettermi i calzini, faccio per tirarmi su ma mi blocco sulle ginocchia.
Sono di fronte a lui.
Le sue cosce aperte lasciano spazio per il mio corpo nel mezzo.
L'istinto di prostrarmi è più forte della volontà di fare in fretta e tornare di là.
Mi sposto piano, le mie spalle sottili sfiorano delicatamente l'interno delle sue gambe, schiaccio il retro delle cosce sui polpacci, tengo il mento piegato in alto, gli occhi aperti, lo guardo tenendomi le mani in mano come se fossi in attesa.
Kuro mi studia.
Piega le sopracciglia a chiedermi cosa voglia.
Punto con lo sguardo il suo polso.
Lui sorride.
Con entrambe le mani, poi, ruvide e per nulla delicate, tuffa le dita fra i miei capelli, li stringe e li tira, li lega con l'elastico che tiene sempre a mo' di braccialetto.
Sistema la crocchia disordinata spostandomi una ciocca dietro l'orecchio.
Si china per potermi parlare più da vicino.
– Stai diventando piuttosto bravo a gestire il modo in cui ti comporti con me, Kenma. –
– Faccio solo quello che mi sento di fare. –
Sbatte le palpebre, l'espressione che gli si dipinge in volto è pura e arrogante soddisfazione.
– Sei così tenero. –
Mi accarezza il viso, mi bacia piano, poi si allontana sospirando.
– Ora credo che sia il momento di tornare di là, però, non credi? Proprio non vogliamo spiegare perché tu rimanga così tanto in camera del ragazzo della tua mamma. –
– Hai ragione, sì. –
– Allora tirati su. –
Appoggio le mani sulle sue cosce e obbedisco, gli do le spalle e faccio per uscire dalla stanza.
Mi blocca, le dita di una mano strette al mio fianco, quelle dell'altra intente a tirar su dalla mia schiena il tessuto della maglietta.
Mi bacia il centro della spina dorsale.
Respira il mio odore come se fossi io stesso, che vuole respirare.
– Vedi di mandare via quei due intrusi il più in fretta possibile, Kenma. Avere qualcuno in casa è fastidioso di suo, ma dover fingere che vederli parlare con te non mi faccia incazzare è peggio. O tu fai in fretta o quei due faranno una fine che non meritano. –
– Tutto quello che vuoi, Kuro. –
– Già, tutto quello che voglio. –
Mi spinge un poco avanti e si alza alle mie spalle, se prima il livello del suo viso era più verso la mia pancia ora il retro della mia nuca sfiora delicatamente il principio del suo sterno.
– Quando se ne vanno poi ti faccio vedere cosa ti ho comprato oggi. –
Spalanco gli occhi e sorrido, mi giro in completa felicità.
– Mi hai comprato un regalo? –
– Sì, sono uscito apposta un po' prima ieri sera. Sei contento? –
– Certo che sono contento! Non puoi darmelo adesso? Ora sono curioso, Kuro, ti prego. –
Scuote la testa, ridacchia.
– No, no, no. Pazienza, piccolo Kenma, prima fai i compiti e poi il regalo. –
– Per favore? Per favorissimo? Almeno un indizietto su cosa sia? –
Mi bacia una tempia, mi spinge in avanti.
– Dio, sei davvero adorabile quando ti comporti così. –
E io mugugno di piena gioia, col sorriso da parte a parte, mentre apro la porta e torno di là, la guancia stretta fra i denti.
– Ora non riuscirò a pensare ad altro per tutto il tempo. Non dovevi dirmelo, allora. –
– Perché no, vederti tutto curioso è una cosa davvero carina. –
– Sì, ma io voglio sapere cos'è, Kuro! –
Rimettiamo piede in cucina.
Mi avvicino verso la mia sedia, Kuro procede verso il bancone, scuote la testa con fare scherzoso e io con la stessa verve metto il broncio, sposto lo schienale e mi siedo con una gamba tirata su sotto al sedere, apro lo zaino.
Prima che possa rivolgermi ai miei compagni di classe, ancora in un timoroso silenzio di fronte al "ragazzo di mia madre" che appare tanto cordiale quanto spaventoso, lui mi rivolge ancora la parola.
– Hai mangiato, Kenma? –
– No, ma non ho tanta fame. –
– Kenma. –
Tiro indietro una ciocca ribelle di capelli chiari.
– Mi fai qualcosa? –
– Cosa vuoi? –
– Non ne ho idea, fai tu? –
Si sporge per pizzicarmi una guancia fra le dita, finge rimprovero nella voce che nella realtà, non c'è.
– Ti vizio un po' troppo, ragazzino. –
– Tu dici? –
Strizza di nuovo la mia guancia.
– È che proprio non riesco a dirti di no. Dai, ti faccio qualcosa. –
– Grazie, Kuro. –
Si allontana di nuovo, va verso il frigo, prima di aprirlo però pare ricordarsi qualcosa e scompare verso il bagno, ci lascia lì.
Colgo l'occasione per rivolgermi ai miei compagni e chiedere loro cosa effettivamente ci sia da fare.
Ci vuole qualche istante perché si liberino del torpore dell'imbarazzo, ma quando finalmente ci riescono, attaccano a spiegarmi che dobbiamo fare una sorta di ricerca di storia contemporanea sulle recenti controversie della storia militare Giapponese.
Mi viene noia già a sentirne parlare.
Figurarsi a farla.
Lascio perdere le mie speculazioni personali e pesco il libro dalla tasca più grande, lo apro verso il fondo, apro le mani sulla carta e chiedo cosa io debba fare nello specifico.
Mi viene risposto...
– La parte sulle truppe in Iraq per la terza battaglia nel 2016, quelle che hanno fatto mandare gli americani. –
– Iraq nel 2016? Io sono stato in Iraq nel 2016. –
Alzo lo sguardo su Kuro che rientra nella stanza senza felpa, solo con la maglietta e le braccia nude.
Il mio compagno si gira e dimenticatosi di tutto l'imbarazzo mostra solo genuina curiosità.
– Davvero? –
– Sì, a Mosul. Otto mesi. –
– E com'è essere... là? –
Torna verso il bancone, ci si appoggia contro, in una delle mani stringe un tubetto di crema. Stringe le braccia al petto, poi scuote le spalle.
– Molto meno eroico di quello che dicono sui giornali. C'è molta più polvere, molto più casino. –
– E hai dovuto... insomma... hai dovuto ucci... –
– Uccidere qualcuno? Certo, mica sei là a fare una gita di piacere. –
Stringe le nocche impercettibilmente in un gesto che io riconosco ma gli altri no, gli scintillano gli occhi, credo che i ricordi gli invadano la mente.
A me spontanea, invece, nasce la curiosità.
Come?
Quando?
In che occasione?
La guerra è un baccanale per la violenza che lui tanto brama, e allora quale enfasi sfrenata ha provato in quel preciso istante in cui si è ritrovato in un luogo dove poteva sfogarsi senza conseguenze e anzi encomiato da ciò che lo circondava?
Com'era il suo viso?
Rideva?
Amava il mondo marcio che gli ha concesso di farlo?
Quando l'imposizione di fingere scomparirà, glielo chiederò.
Voglio sapere tutto, dello schifo che fa.
– Se vuoi che ti aiuti con la tua ricerca posso farlo, Kenma, mi ricordo piuttosto bene gli avvenimenti di quel periodo. – dice poi, indovinando perfettamente la mia curiosità.
– Mi saresti d'aiuto. Io sono un po' scarso sulla storia contemporanea. –
– Non c'è problema. –
Scioglie le braccia, prende la crema, sporge l'avambraccio all'esterno e ne spreme una quantità sottile sulla pelle.
A questo punto è la ragazza che interviene, rapita dal movimento.
– È un tatuaggio? –
Kuro annuisce.
– Sì, l'ho fatto qualche giorno fa. –
– Cos'è? –
– Una rondine. –
Mostra a tutti e tre il disegno, e anche se l'ho già visto, io lo guardo lo stesso.
È un uccellino piccolo, magro, con le ali chiuse, gli occhi serrati, le zampe morte e inermi.
Uno spillo lo trafigge da parte a parte, una timida goccia di sangue scivola dal metallo verso il basso, s'intravede appena la carne aperta dall'intrusione della morte.
– Ha un significato? Se posso chiedere, ecco. –
– No, mi piaceva il disegno. –
Kuro mi guarda un istante.
Io recepisco il suo sguardo e riporto alla mente la risposta, completamente diversa, che ha dato a me quando me l'ha mostrato la prima volta.
"Nella mitologia latina le rondini facevano il nido nei templi delle divinità protettrici della famiglia. Significano protezione, speranza, unità familiare e coniugale. Sono gli uccelli della primavera, sanno di rinascita, di liberà. Mi ricordano te."
E non ho chiesto allora perché l'avesse voluta sul suo corpo morta, lui, la rondine, bloccata e uccisa da quello che pare uno spillo entomologico che si usa per bloccare fermi gli esoscheletri fragili delle farfalle, perché la risposta la sapevo io, la sapeva lui, e non c'era bisogno di dirla.
Mi ama così, lui.
Mi ama rinchiuso in una teca e distante dal mondo che ci circonda, mi ama puro e morto sotto le sue mani, esposto ma intoccabile, giovane e trafitto.
Mi ama pur non sapendo amare.
Pur non sapendo cosa significhi.
Mi ama con lo spirito di chi vede un animale morire, e amandolo troppo per lasciarlo andare lo ricuce assieme attorno ad un manichino di plastica, gli mette occhi di vetro, lo guarda con nostalgia, ne accarezza il pelo ispido e il muso distante.
Rondine bloccata al muro da uno spillo.
Comunque più lusinghiero della mia mente, che nonostante tutto, ancora mi vede scarafaggio.
I nostri occhi si staccano.
Finisce di mettersi la crema e l'appoggia sul tavolo, torna al frigo, ci lascia stare.
Ricominciamo a parlare della ricerca.
C'interrompiamo quando il telefono della ragazza vibra e lei si scusa per guardare il mittente.
Sorride, arrossisce, torna verso di noi.
– Il mio fidanzato che fa lo scemo, come al solito. Ora metto il silenzioso. –
– Hai un ragazzo? – chiede l'altro, incuriosito.
– Sì, dell'altra sezione del nostro corridoio, non te l'avevo detto? Usciamo da tre o quattro mesi. –
– Oh, mi sa che ho capito chi è. Che invidia, anch'io vorrei una ragazza. Tu, Kenma? Single e solo come me? –
Mi mordo l'interno della guancia.
– No, mi dispiace. Anche io sto con un ragazzo. –
– Sul serio? E viene nella nostra scuola? –
Scuoto la testa, i capelli mi cadono di fronte al viso, li sposto con le dita.
– In un'altra. –
La ragazza, spinta da un improvviso spirito cameratista, mi si avvicina col busto.
– E com'è, il tuo? Il mio è troppo scemo. Mi fa sempre ridere, è vero, e questa cosa mi piace un sacco, però qualche volta è davvero troppo scemo. –
Soppeso le ipotesi nella testa.
Mento spudoratamente.
– Anche il mio mi fa sempre ridere, già. È simpatico. –
Kuro s'intromette con una mezza risata.
– Oh davvero? E non me l'hai ancora presentato? Lo voglio conoscere anch'io questo ragazzo che ti fa sempre ridere ed è simpatico. –
– No, a te non lo presento. Non ti piacerebbe per niente. –
– Tu credi? –
Annuisco enfaticamente, mi giro verso i miei compagni e continuo nella mia ilare bugia distorta.
– È una persona davvero romantica, mi tratta sempre con delicatezza ed è sempre dolce. Ha proprio l'aspetto di un ragazzo perbene. –
La mia compagna annuisce.
– E vi siete già detti "ti amo"? –
– Sì, certo, praticamente subito. È così sdolcinato. –
Si copre la bocca con una mano e sussurra, credo per non farsi sentire da Kuro.
– E quell'altra cosa? L'avete... fatto? Io no, ho super paura che faccia male. –
Rido.
A sentimelo chiedere, rido, e ride anche Kuro che ha perfettamente sentito, in una spirale che so non sembra normale da fuori ma proprio non riusciamo a respingere.
Quando mi riprendo mi fa male la pancia.
Kuro ha gli occhi lucidi.
Risponde lui per me.
– No, Kenma non ha fatto sesso, ci manca. Niente sesso fino ai trent'anni, è piccolino per queste cose. – dice.
Sposto la testa verso di lui.
– Dio, con questa scena da padre geloso. Sarai l'ultimo a saperlo, quando farò sesso. –
– L'ultimo? Preferiresti dirlo a tua madre rispetto che a me? –
– Assolutamente, fino alla morte. –
Si sposta verso di me, mi tira scherzosamente i capelli indietro.
– Dovrò trovare un modo per scoprirlo senza che tu me lo dica, allora. Mi apposto di fronte a casa tua e faccio la guarda a chi entra. Sia mai che questo tuo ragazzo perfetto si faccia venire strane idee col piccolo Kenma. –
– E che fai se lo becchi, scusami, lo uccidi? Guarda che l'omicidio è illegale, Kuro. –
– Dovrò solo nascondere bene il corpo. –
Torno a guardare i miei compagni.
– Mai avuto un padre, non credevo che fossero così ossessivi. – scherzo.
– Il mio non lo è. – risponde la ragazza, un po'... stranita, forse.
Alzo gli occhi al cielo.
– Me lo sarò trovato strano io. –
– Cosa stai insinuando, che io sarei strano? –
Guardo Kuro sorridendo.
– Un po'. Però mi fai da mangiare, mi fai i regali e mi vieni a prendere, quindi ti tengo lo stesso. Che dici? –
– Dico che avevo ragione prima, ti vizio troppo. Forse dovrei procedere col metodo pugno di ferro. –
– Oh, no, ti prego. Le cose cattive no. Non le sopporterei. –
Mi accarezza una guancia, mi alza il mento perché i miei occhi e i suoi s'incontrino.
Divertito, è divertito, come lo sono io.
Gocce d'olio nel mare.
Aghi fra la paglia.
Quadrifogli in un campo fiorito.
Questo che ci sta attorno non ci capisce, non ci capirà mai e mai ci ha capito.
Fingere di essere normale mi fa capire quanto male il mondo mi abbia inflitto.
Perché mi viene da ridere, mi viene da schernirle, le cose che dovrei aver fatto e che invece non ho mai meritato.
Le disprezzo, le prospettive di amore romantico e dolce e di patrigno affettuoso e giovane con cui scherzo e che mi tratta con affetto.
Nemmeno le desidero, nemmeno un po', e invece mi sento superiore, mi sento diverso a sapere che io non ho niente di quello che vorrebbero tutti.
No, niente di quello che vi dico è vero.
Il mio ragazzo non mi ha detto che mi ama, ma mi ha strappato la verginità mentre urlavo nello spogliatoio di una palestra aperta illegalmente di notte. Non è sempre dolce, non è sdolcinato, mi bacia per mangiarmi, mi lega i capelli per immaginarmi in ginocchio. Non è un padre geloso, è una bestia che segna il territorio, un animale possessivo che non tollera che qualcun altro possa rovinarmi, solo lui ne ha il diritto.
Non provo invidia per la ragazza col suo fidanzato simpatico e divertente.
Provo pena.
Lei non è mai stata in gabbia, e non conoscerà mai l'assuefazione di ritrovarsene privi.
Non ha mai avuto le emozioni inchiodate a terra da chiodi, non conoscerà mai il piacere catartico di farsele liberare.
Vive avvolta di cotone e seta.
Il cambiamento è per lei solo la differenza nel fruscio piacevole che la circonda.
Io rantolo e mi contorco da diciassette anni in mezzo ai vetri rotti.
Provo la più inarrestabile delle sensazioni, a sentirmi avvolto dalle viscere sanguinolente di un amore che mi trafigge morto con uno spillo.
Guardo Kuro.
Guardo i suoi occhi.
Sì, hai ragione, vorrei digli. Hai ragione come l'hai sempre.
Questi scarti devono sparire.
Sono solo barriera e mutilazione, e non possiamo essere noi stessi, qui bloccati dalle regole imposte dalle convenzioni sociali.
Ma spariranno, e allora potremo tornare chi siamo.
Aprirò le gambe per te sul tuo letto, e non più padre, non più affettuoso, scaverai dentro di me uno spazio che abbia la tua forma e la tua soltanto.
Griderò piangendo il tuo nome, soffrendo e amando nascere tirato via dalle tue mani.
Ucciderai la rondine che faticava ad uscire dal guscio, affondandole uno spillo nel cuore, per tenerla morta sì, ma bella com'era il primo giorno che ha visto il cielo sopra le sue piume.
– Smettiamo di chiacchierare, su, è ora che finiamo questa roba. – sentenzio.
I due acconsentono.
Kuro lascia i miei occhi.
I vostri cuori hanno sempre battuto.
Non saprete mai cosa significa avercelo nel petto che si contrae solo perché qualcuno ve lo strizza fra le zanne così forte da ridargli la vita e la possibilità di far male.
continua ⇘
OK SCUSATE IL COMMENTO SUPER VELOCE MA DEVO USCIRE A CENA ECCO ALLORA niente spero che vi sia piaciuta scusate il ritardo ma ho avuto un esame (che è andato bene quindi FELICI) ora sono tornata ci rivediamo presto sisi
ditemi cosa ne pensate im always happy to hear it!!
niente corro
vi mando un bacio
mel :D
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