𝘸𝘢𝘴𝘩 𝘮𝘺 𝘮𝘰𝘶𝘵𝘩 𝘰𝘶𝘵 𝘸𝘪𝘵𝘩 𝘴𝘰𝘢𝘱

!!! questo capitolo è molto forte, c'è violenza grafica e menzione di abuso sessuale, una hint di smut !!!

continua

Apro la bustina di carta della farmacia, infilo le mani fino in fondo, le mie dita si stringono attorno ad una confezione di plastica, pinzo coi polpastrelli, tiro su. Strappo l'involucro esterno, adagio il rotolo di garza sul materasso, imbevo un dischetto di cotone nell'acqua ossigenata, nemmeno strizzo gli occhi, a passarmelo addosso.

Il sangue rappreso viene via in fiocchi sottili e scarlatti, certe ferite ricominciano a brillare e a lacrimarmi addosso, altre rivelano il tessuto rosato della pelle che si rimargina.

Queste sull'interno coscia diventeranno cicatrici.

Ha morso troppo forte perché non sia così.

Chissà se lo fa perché non ci pensa, a come ne uscirò dopo, o perché vuole e pretende che dovessi mai spogliarmi per qualcun altro, sarei costretto a farlo con la sua presenza marchiata addosso.

Forse è la prima ipotesi.

La seconda non aderisce alla sua territorialità di animale.

Incastro il tallone sul bordo del letto, prendo la garza, con calma srotolo il tessuto attorno alla pelle, la strizzo, la copro. Potrei usare un cerotto, lo so, ma ne servirebbero troppi e dovrei incastrarmeli addosso come toppe ad un pupazzo stracciato sulle cuciture, così è più comodo.

Se n'è andato stamattina.

Non sono uscito da camera mia da quel momento.

Suppongo che dovrò farlo per mangiare, ad un certo punto, ma qui rinchiuso sto bene, mi godo la pace della solitudine, mi riposo perché il mio corpo non ce la fa più.

Attacco il tessuto elastico su se stesso, sistemo giù la coscia, guardo l'altra alla quale ho già dedicato la stessa attenzione, mi passa per la mente di alzarmi e rimettermi i pantaloni, ma non ne ho voglia, e rimango là.

Ossa rotte.

Urla.

Carne che si apre.

Ferite che s'intagliano, mani che stringono, nocche sulla pelle, colpi, impatti, urti.

Il ragazzo della mamma che cade, il ragazzo della mamma che piange, il ragazzo della mamma che chiede pietà.

La sua testa contro il bancone della cucina, le sue mani sotto la suola di una scarpa, la faccia sul tavolo, le lacrime che si mescolano alle gocce di sangue.

Chiudo gli occhi ed è una sinfonia, riemerge nella mia testa, riempie ogni nervatura e ogni spazio, rigenera l'idea e la sensazione.

Io me ne stavo là seduto.

Guardavo e me ne stavo là seduto, le mani così sporche che paradossalmente, erano perfettamente pulite.

Aggrottavo le sopracciglia, storcevo il naso, la mia volubilità capricciosa una legge negli occhi della mia bestia, un sorriso, un broncio, condanne eseguite solo perché mi andava così, solo perché mi ero offeso, solo perché potevo fare in modo che accadesse.

Scuoiate Marsia, date otto zampe ad Aracne, disarcionate Bellerofonte, gettate in acqua Icaro, togliete i figli a Niobe, consegnate il masso a Sisifo, immergete Tantalo, portate l'aquila da Prometeo.

Ho deciso che mi andava così.

È successo, perché ho deciso che mi andava così.

Mi guardo le mani, i polsi, le braccia sottili. Mi ha stretto così forte da lasciarmi i lividi, bluastri, violacei sulla carnagione chiara, si distinguono bene le cinque dita.

Oh, la violenza con cui mi prendi, Kuro, la violenza con cui mi vuoi.

La violenza di avermi subito?

La violenza di sapere che sono vivo.

La violenza di sapere che rimango.

La violenza di sapere che ti amo, perché tu t'imponi, ma solo perché m'imponga io, scortichi per svestirmi della mia pelle e vestitene tu, non saresti più solo, se lo facessi, e avresti qualcuno ad abbracciarti in ogni goccia e lacrima di schifo che fai.

Abbasso piano le mani.

Mi lascio cadere indietro sul letto.

La mia nuca s'immerge nel lenzuolo, i capelli si aprono, ho le mani fredde quando mi si avvicinano alle cosce, guardo il soffitto, chiudo gli occhi, il tessuto ruvido delle garze mi abrade la carne.

Siamo nella cucina del ragazzo della mamma.

Kuro gli stringe i capelli e sbatte la sua testa contro l'angolo del mobile.

Il sangue schizza sul muro.

A Kuro brillano gli occhi.

Mi guarda.

Sento le mie dita scivolarmi più in alto fra le gambe.

Sorrido a Kuro, la sua espressione cambia.

Gli dico che è bravo.

Gli brillano di nuovo gli occhi.

Mi ama.

Stringo la mano, getto indietro la testa.

Le ossa fanno un rumore strano, quando si rompono. Spezzare un gambo di sedano, questo mi ricorda, ma tinto dal colore tagliente delle urla, fa tutt'altro effetto. All'inizio t'impressioni perché ti viene naturale pensare a come sarebbe se quella stessa cosa la facessero a te, ma poi ti viene da ridere, perché a te non la sta facendo nessuno, e a te l'empatia non l'ha insegnata nessuno, te l'han tolta di dosso come un cancro, quindi non soffri se qualcuno soffre, gioisci che la sofferenza sia sua e non tua.

I denti m'incidono il labbro inferiore. Le ciglia sfarfallano, la voce tenta di rimanere dov'è, senza uscire, senza far capolino nella realtà udibile delle cose.

Kuro si compiace nella prevaricazione. È il dimostrare al mondo che è più forte, ciò che genera in lui la soddisfazione, è dichiarare che anche se ha solo incassato, preso e subito per metà della sua vita, l'altra parte è stato lui a far incassare, far prendere, costringere a subire. Kuro è stato relegato ad un essere senza dignità, senza orgoglio, solo lacrime, saliva e preghiere, e allora adesso la sua furia è quella di dimostrarsi che non è così.

Io mi compiaccio nel capriccio.

Nel potere.

Nell'impormi non come visibile da invisibile, non come opaco da trasparente, ma eufemisticamente protagonista di una trama che non mi aveva previsto. Non voglio essere notato, no, quello ormai non mi basta più, hai tolto troppo, hai rubato tutto, più è grossa la voragine, più sarà la terra necessaria a riempirla.

Io voglio essere Dio, per voi.

Io voglio decidere della vostra vita.

Io voglio che tutto si riconduca a me.

Io voglio il potere, il potere di fare e disfare, sapere e ignorare, voglio la vostra paura, il vostro terrore, voglio la libertà di affogarvi se deciderò che questo mondo non è come lo volevo, voglio il diritto di scatenare su di voi le piaghe giusto perché è così che mi gira, voglio essere l'inizio, la fine, la trama e il commento, l'unica cosa che conta.

Il mio capriccio dev'essere la vostra legge.

Se non può essere così perché mi amate, sarà così perché avete paura di me.

Le mie ginocchia si stringono, la glottide sale e scende, m'incido l'interno di una guancia coi denti, un gemito sottile mi scappa dalle labbra, l'orgasmo mi sommerge.

Tolgo la mano da me stesso col fiatone.

Il cuore mi batte forte nel petto.

Devo andare al bagno.

Forse è il caso che scenda.

Prendo aria a pieni polmoni una, due volte, il piacere si sradica dal mio corpo e lascia spazio al ronzio pacifico dei nervi che si sciolgono, attendo qualche istante, poi mi tiro su.

Mi risistemo le mutande, lascio là dove sono i pantaloni, esco, vado in bagno, mi ripulisco in silenzio.

Rientro in camera, prendo il cellulare, scendo piano gli scalini coi calzini pelosi che impattano in un rumore attutito sul legno.

Cosa c'è in frigo?

Non ho voglia di cucinare e non sono capace.

Magari c'è qualcosa di veloce da preparare e non dovrò darmi troppa pena.

Se non dovesse esserci chiederò a Kuro di prendermi qualcosa d'asporto.

Faccio capolino nella stanza, le luci sono spente, allungo un braccio verso l'interruttore.

Non lo faccio scattare, però.

Lei m'interrompe prima.

– Kenma? Eri in casa? –

Respiro.

Mi giro.

È, come sempre, sul divano.

– Sono sempre stato in casa, mamma. –

– Sul serio? Non me n'ero accorta. –

– Ho dormito gran parte del tempo. Ero un po' stanco. –

– Ah, ho capito. –

Mi fissa, il verde dorato delle sue iridi che cerca e trova imitazione nel mio, i capelli biondi, i tratti delicati, l'espressione morbida.

Ha gli occhi circondati di rosso.

Sottili strisce fra le ciglia.

Ha pianto.

So che mi dirà perché senza che io debba chiederlo, sono sempre stato una pattumiera emotiva, per lei, la discarica dei suoi sentimenti, un burattino partorito per darle ascolto senza parlare mai.

– Mi ha lasciata. Con un messaggio. –

– Il tizio che era qui l'altra sera? –

– Lui. Io credevo... che fosse... quello giusto. Io pensavo che... –

Lei crede sempre che sia quello giusto. Lei guarda questi maschi, questi uomini, questi rifiuti e pensa sempre che siano quelli giusti. Lei ci spera, perché sperare, a lei è concesso.

Illusa che procrea disillusione.

Io il mio l'ho scelto perché nella vita non sono capace di sperare.

– Neanche la decenza di venire qui a dirmelo, nemmeno il rispetto, mi ha scritto "credo che non sia il caso di andare avanti" e mi ha bloccata, non ha risposto alle chiamate, ha fatto tutto da solo così. Non capisco perché, non capisco... –

Io lo capisco.

A te non serve farlo.

Rimango immobile.

– Faccio così schifo che non mi merito nemmeno un ultimo incontro? Eh? Ed eppure non mi sembrava che gli facessi così schifo mentre mi chiedeva le foto l'altro giorno. Sempre a chiedermi di fare sesso ogni volta che ci vedevamo e poi mi molla così. Un bastardo a cui interessava solo scopare, solo un... –

Storco il naso.

Non voglio sentire.

Mi fa ribrezzo.

– Morirò da sola, Kenma, se va avanti così non me ne troverò mai uno giusto, cazzo, morirò da sola e single. Perché agli uomini interessa solo scopare? Perché fanno così schifo? Perché diavolo... –

– Non sei sola, mamma. –

– Eh? –

– Non sei sola. –

Smette di parlare.

È quasi interdetta, non è abituata che la sua marionetta parli.

– Ci sono io con te, mamma. –

Spalanca gli occhi.

Ciglia a ventaglio a contornare un'espressione stupita, forse interdetta, forse sorpresa, il bianco delle sue cornee inghiotte la mia immagine, mi specchio solo nel nero delle sue pupille.

Non so se suggerisca dolcezza o repulsione.

Non so se s'intenerisca, a sentirmi dichiararle la mia vicinanza, o se innaturalmente schifata dal suo stesso figlio desideri ridermi addosso, umiliarmi, farmi capire quanto invece distanti lei crede che siamo.

La guardo e lei mi guarda.

Intendo quel che ho detto.

Lei non è sola.

Io sono con lei.

Che la mia presenza possa essere il caldo conforto di un bambino o l'inquietante inseguirti di un'ombra, questo sta a te cercare di capirlo.

Lascio perdere l'intenzione di andare in cucina e ruoto completamente il mio corpo per rivolgerglielo, percorro qualche passo dalla sua parte, nessuno dei due ancora parla.

Sposto lo sguardo su di lei.

Guardarti è specchiarmi.

Credo che non proverei nei miei stessi confronti un tale viscerale imprescindibile odio, se fossimo diversi.

Ha le ginocchia tirate al petto, una maglietta larga, i pantaloni della tuta, le unghie sono dipinte di smalto sbeccato, i capelli tirati su da un mollettone. Sta sul divano, là, nella sua figura esile, una bottiglia chiusa campeggia sul tavolino, il bicchiere al suo fianco è lucido e pulito.

La guardo ancora.

Lei guarda me.

È come se le nostre ciglia si abbracciassero. Come se fossimo tanto vicini da confonderci l'aria nei polmoni, anche se siamo a qualche metro di distanza, come se le nostre mani si toccassero e scoprendo che ciò che ci separa è ferita che ha fatto due pezzi di un'unica creatura allora quelle si rimarginassero assieme, facendoci tornare com'eravamo, uno, due da quell'uno, uno da quei due.

Respira.

Batte due volte il divano al suo fianco.

Mi ci getto come se l'amassi per davvero.

M'incastro nel tessuto, mi rannicchio nel mio corpo, il fianco premuto con lei e le mani che la cercano, la mamma mi avvolge le spalle, il suo profumo mi circonda, i nostri capelli si mescolano gli uni con gli altri e sembrano gli stessi fili d'oro della stessa corona che cade a pezzi.

La mamma mi stringe.

Stringo la mamma.

Lascio che tutto l'odio che provo per lei si riveli per come è, solo il grido di dolore di fronte all'ingiustizia di non sapere come farmi amare da lei.

– Sei l'unico che non mi lascerà mai, non è vero? –

– È vero, mamma, è vero. –

– Sei tutto quello che mi rimane. –

– Sì, mamma, lo sono. –

Mi abbraccia, mi bacia una guancia, mi pettina indietro i capelli, poi si stacca da me, appoggia la fronte sulla mia, chiude gli occhi.

– Sei tutto quello che ho, anche se ho fatto tanti errori con te, anche se ho sbagliato, tu sei e sarai sempre tutto quello che ho. –

Ricomincia a battermi il cuore.

Elettrocardiogramma piatto da diciassette anni, tenuto in vita soltanto se stretto fra le mani e meccanicamente strizzato per farlo battere, organo inutile, avvizzito, che devo costringere a sopravvivere infondendolo dell'adrenalina di fare tutte le cose sbagliate, ricomincia a battere da solo, mentre la mamma mi stringe.

Tutto quel che auspicavo del mondo si sfalda.

Non voglio più essere nulla, non m'importa più, mentre sono fra le sue braccia.

Trasparente? Inutile? Dimenticato? Non m'importa, non m'interessa, io sto qui con la mia mamma. Il piacere di essere desiderato? Quello catartico di rubarglielo? L'orgoglio di aver domato la bestia? Distanti, dissolti, io volevo soltanto lei.

La mamma mi abbraccia, mi abbraccia forte, e le mie ferite si rimarginano.

Non mi serve più incidermele sulla pelle nel tentativo disperato di sentire qualcosa, di vedere qualcosa, non anelo più alla crudeltà su di me come punizione esistenziale e liberazione dalla condizione umana che il dolore lo rifugge e basta.

Io voglio solo la mia mamma.

La mia mamma che mi vuole bene.

Che mi ama.

La mia mamma, la mamma, mamma, mamma, mamma.

Oh, mamma, ho fatto un sacco di stronzate in quest'ultimo periodo. Ho fatto davvero una marea di scelte sbagliate. Mi sono avvicinato ad un uomo che mi diceva di non avvicinarmi, quando ha rivelato la sua natura ho indugiato nella sua violenza, gli ho permesso di usarmi, abusarmi, farmi a pezzi. Ho mentito, ho fatto del male, sono stato orribile, sono orribile.

Perdonami, mamma.

Amami, perdonami, curami, mamma.

Mamma.

Ridammi il mio posto, là, dentro al tuo corpo, unico luogo dove io sia mai stato felice. Ridammi il tuo calore, vivi per me, accoglimi, mamma.

Nulla ha importanza, se tu mi vuoi bene.

Non m'interessa più niente.

Abbiamo sbagliato, sì, ma ci perdoneremo e ci ricongiungeremo e saremo uno e allora, allora andrà tutto bene, io non vorrò più lui, tu vorrai solo me, e saremo felici.

Mamma.

Salvami, mamma.

Salvami da me stesso, mamma, salvami e tirami fuori, dammi ogni brandello, ogni stralcio del tuo amore e ricucimi assieme, mamma, mamma, mamma.

Sto diventando qualcosa di brutto.

Sto diventando qualcosa di orribile, mamma.

Sto impazzendo, sto perdendo me stesso, mi sono infilato in una spirale di eventi che mi distruggerà.

Ho paura, mamma.

Ho paura di me.

Sono terrorizzato.

Consolami, mamma, stringimi forte, dimmi che va tutto bene.

Amami, mamma, amami, ti prego.

Curami, fammi ritornare com'ero.

Rimettimi a posto.

Non mi serve nient'altro.

Mi serve solo che tu ci sia.

Mi serve solo che tu...

– Kenma, devo parlarti di una cosa. –

Respiro.

Strizzo forte gli occhi chiusi, ho il cuore in gola, le mani che tremano, il respiro affannoso.

Annuisco.

– Dimmi. –

– Mi sa che forse sono incinta di nuovo. –

Apro gli occhi.

La guardo.

Le punte dei capelli che lentamente stavano riemergendo dal lago nero e gelido della mia follia rimangono ferme lì.

Lei mi prende dalla faccia.

Mi spinge sotto.

Arrivo tanto in profondità che i miei piedi sfiorano i cocci rotti del fondale.

Il cuore smette di battere.

Le mani tornano ferme.

Il respiro si fa regolare.

La pelle scaldata dal contatto si raffredda, l'amore mi suda via dal petto, le ferite tornano, scavate e incise dalle sue stesse unghie, i denti mi strappano, la voragine si riapre più profonda.

Pietra.

Medusa, tu mi rendi di pietra.

– Hai fatto un test, mamma? – chiedo, la voce lineare, calma, pacata.

Inespressiva.

– No, ma ho il ciclo in ritardo di tre giorni. –

– Tre giorni non sono tanto. –

– L'ho sempre avuto regolarissimo. –

Sbatto le palpebre, un gesto meccanico, che in realtà non mi serve, perché a che scopo bagnare occhi di pietra in un viso di pietra?

– Lo tieni? Se sei incinta. –

– Non lo so. Forse. In realtà non ci ho pensato, prima dovrei capire se lo sono davvero. –

– Secondo me non lo sei. –

– Come fai a dirlo? –

– Non sei tu che mi dici sempre di fare sesso protetto? Allora immagino che lo faccia protetto anche tu. –

– Beh, sì, ma sai, la pillola non è infallibile. –

– Tu non sei incinta. –

– Kenma, in realtà... –

– Ho detto che tu non sei incinta. –

Aggrotta le sopracciglia, confusa, quasi spaventata dal mio tono di voce.

Voce di pietra, in una gola di pietra, in una glottide di pietra e un corpo di pietra.

– Tu non sei incinta. – ripeto.

E lei sospira, e non risponde, e io lo guardo e non la amo più, perché mi ha reso di pietra, e l'amore, la pietra, proprio non sa come provarlo.

Lei non può.

Non può condividersi.

Non può.

Lei è mia.

È la mia mamma.

La mia condanna, la mia croce, la mia sofferenza, la mia, la mia e basta. È la mia invidia, il mio odio, il mio rancore, non quello di qualcun altro, il mio.

Io e lei siamo uno e non c'è un terzo che faccia parte dell'uno, non ci sono gli altri, ci siamo noi e lei è mia e lei non può, non deve, non vuole condividersi.

La mia.

La mia mamma.

La mia.

La...

Il mantello di cui mi aveva spogliato solo stringendomi, sembra che me lo rimetta addosso e me lo avvolga stretto attorno al corpo da strozzarmi. La pelliccia scura di un animale morto, non conciata, non trattata, ancora coi brandelli di carne attaccati addosso, ancora tinta di sangue.

Mi tornano i capricci.

Mi tornano le pretese.

MI torna il potere.

Sei tu che non mi hai salvato.

Potevi farlo, non l'hai fatto.

Mi hai inchiodato sul trono.

Dovevi ammazzarmi, prima di farlo.

Prendo il telefono, maschero la pietra coprendola con un velo e sorrido alla mamma, affettato e pacifico, mentre accendo lo schermo.

Scrivo a Kuro.

Gli scrivo di venire qui.

Lui risponde subito e chiede come mai.

Lascio perdere il cellulare senza scrivergli nient'altro.

Non serve che tu capisca l'ordine, cane, serve solo che tu lo esegua.

– Sei arrabbiato, Kenma? –

– No, certo che no, mi hai solo... sorpreso, tutto qua. –

– Oh, ok. Perché questa è una cosa bella. Essere in tre, sarebbe... una cosa bella. –

Sarebbe orribile, mamma.

Sarebbe uno schifo.

Mi farebbe vomitare.

Mi farebbe venir voglia di ammazzarmi.

– Sì, lo sarebbe. –

Guardo il tavolino di fronte al divano.

– È per questo che stasera non hai ancora bevuto? Perché sei incinta? –

– Ah-ah, anche se magari un bicchiere me lo faccio lo stesso, alla fine ho bevuto anche quando aspettavo te e non è che sia successo mica niente. –

No, mamma, son venuto su una meraviglia.

Mi sporgo in avanti e prendo la bottiglia in mano.

Non è come il vino buono che beve la gente normale, questo ha il tappo che si svita, proprio non m'immagino di che qualità infima l'abbia comprato.

– Te lo verso io, ok? –

– Grazie, Kenma. –

Appoggio la plastica sul tavolo, prendo il bicchiere e ne riempio metà. Glielo passo, lei lo accetta, si adagia di lato sul divano e mi guarda, ancora con le gambe incastrate con le mie.

Beve.

La guardo bere.

– Eri così contenta anche quando hai scoperto di essere incinta di me, mamma? –

– Kenma, non voglio doverti mentire, quindi non farmi queste domande. –

– È stato così orribile? –

Fa spallucce, beve di nuovo.

– È stato tremendo. Ero piccola, così piccola, e la mia vita era così perfetta, e poi... –

– Poi sono arrivato io. –

– Poi sei arrivato tu. –

Bicchiere alla bocca, vetro sulle labbra, la felicità che scorre nel suo viso è quella di chi non può farne a meno.

– Con questo bambino spero di fare di meglio, sai. Sono più grande, ci sei anche tu, potremmo... ecco, fare un po' di più. –

– Certo, certo che potremmo. –

Potremmo dargli tutto quello che io non ho mai avuto.

Sì, mamma, potremmo.

Potremmo amarlo.

Potremmo trattarlo come una creatura con una qualche forma di dignità.

Potremmo amarlo.

Potremmo rispettarlo.

– Con te ho fatto tanti errori, te l'ho detto, ma sono cambiata e... –

Finisce il bicchiere.

Glielo prendo dalle mani.

Lo riempio di nuovo.

Glielo restituisco.

Tu sei cambiata, mamma, oh sì che sei cambiata. Tu cambierai, e amerai e saprai quel che fai e lo farai per lui e non lo farai per me e io rimarrò quello che sono sempre stato, il mobile in salotto, la tenda sul vetro, la pianta sullo scaffale, arredo, della tua vita che tu plasmi come ti pare.

Tu lo amerai.

Tu imparerai ad amare e amerai lui.

L'unico che non cambierà, qui, sarò io.

Tenta di rifiutare il bicchiere ma il fascino debosciato del liquido scarlatto la convince a fare il contrario, beve di nuovo.

– Se fossi stato io ad essere il bambino che aspetti ora, credi che saresti cambiata anche per me? –

– Non ho capito la domanda. –

– Non importa, mamma. Bevi. –

Beve.

Sorride.

– Vorrei che fosse una femminuccia. Ho sempre voluto avere una femmina. –

– Mi avresti voluto bene se fossi stato una femmina? –

– Kenma, mi stai facendo delle domande strane. –

– Lascia perdere, bevi. –

Beve.

– La farei stare con me, nella mia stanza, finché non riesce a dormire da sola. Poi quando dorme da sola dividiamo la tua, così voi due fratelli state insieme. –

– Se la metti a dormire nella mia stanza la ammazzo nel sonno, mamma. –

– Kenma? –

– Bevi. –

Beve.

E beve ancora, e beve di più, e la bottiglia finisce ma le sue pupille sono espanse d'euforia e allora non protesta, quando mi alzo e apro lo scaffale, non si lagna, quando tiro fuori il liquore, non dice niente, quando gliene verso altro e le dico di bere.

Ama più quella roba di quanto abbia mai amato me.

Ma posso sopportarlo, se si tratta di un oggetto inanimato di cui provare invidia è innaturale.

Un altro essere umano, invece...

È al terzo bicchiere quando inizia a perdersi, l'alcolista ha la tolleranza alta, ma alla fine anche gli angeli possono schiantare a terra se continui, piuma per piuma, a strappargli le ali.

La voce biascica, gli occhi sono opachi.

Parla, ma non sa quel che dice.

– Essere incinta deve anche essere bello, sai, Kenma? Quando ero incinta di te lo odiavo, perché se ne rendevano conto tutti che ero una ragazzina, ma ora, ora mi lasceranno sedere sul pullman e non mi faranno fare le file in giro. –

– C'è mai stato qualcosa dell'avermi avuto che non ti ha fatto schifo, mamma? –

– Tu non mi fai mica schifo, Kenma. –

– Ma che io ci sia sì. –

Sbatte le ciglia.

– Se non ti avessi avuto ora probabilmente sarei stata felice. –

– Se tu non mi avessi fatto non avrei dovuto campare così. –

– Dai, Kenma, la tua vita mica è così uno schifo, non essere drammatico. –

– La mia vita è una tortura. –

Porto la sua mano in alto, inclinandole il bicchiere.

Manda giù.

Bevi, Oloferne, bevi, divertiti, ridi, ubriacati.

Bevi.

Bevi.

– Una tortura? Suvvia, "una tortura" mi sembra eccessivo. –

– No, non è eccessivo. È una tortura. Ogni giorno che mi sveglio mi viene voglia di ammazzarmi. –

– E allora perché non l'hai fatto, scusami? Se fa così schifo, come mai non l'hai fatto? –

– Perché se mi ammazzassi ti farei un favore. E tu non te lo meriti, che io ti faccia un favore. –

Bevi, Polifemo.

– Tu sei tutto strano, stasera. Sei tutto strano. Che hai? Ti sei sentito un po' male questi giorni che sono stata via? –

– Non sono mai stato così felice come quando non c'eri. –

– Kenma, non è carino, questo. –

Bevi, Elpenore.

– Non è giusto che tu abbia un figlio e che lo ami più di me. Tu sei la mia mamma. Tu hai reso la mia vita un inferno, non posso permetterti di renderla bella per qualcuno che non sia io. –

– Kenma, ma che cosa stai dicendo? Se avessi un altro figlio sai che non smetterei di essere tua madre, vero? –

– Non posso permetterti di amare qualcuno quando non hai saputo amare me. Tu rimani mia. La mia mamma. La mia tortura. –

Bevi, Issione.

– Mi hai reso un mostro, mamma, mi hai distrutto e mi hai rovinato. E io ti odio per questo. –

– Kenma... –

– Ma ti odio anche perché in realtà non riesco a odiarti. Ti odio perché ti amo più di qualsiasi altra cosa al mondo, perché voglio che tu mi voglia bene più di quanto voglio continuare a respirare, perché io ho senso solo se ci sei tu per me da odiare. –

Bevi, Anchise.

– Se devi imparare ad amare qualcuno che non sia io, allora non imparare. Odia me. Continua ad odiarmi. È meglio che vederti con qualcun altro. –

Oloferne, Polifemo, Elpenore, Issione e Anchise bevono.

E bevono.

E bevono.

L'ambra del liquido scintilla, quando il fondo del bicchiere fa capolino allora le mie mani tornano là e gli restituiscono quello scintillio, le articolazioni della mamma si fanno lasse, le palpebre pesanti, il respiro molle.

Reagisce a malapena.

Ha emozioni in volto che ci mettono minuti, a comparire.

La guardo e sorrido.

– Il mio ragazzo è il tuo ex. Mi faccio scopare da un tuo ex, mamma. Fra poco arriva. –

I tratti del suo viso si piegano con calma, lo stupore è lento, la reazione anche.

– Cosa? In che... in che... senso? –

La voce è melassa confusa.

Si arrabbierebbe e pesterebbe i piedi, se fosse sobria.

Ha bevuto.

Non può.

– Arriva, l'ho chiamato. –

– Chi è? –

– Kuroo, mamma, Kuroo Tetsurō. Te lo ricordi, Kuroo Tetsurō? –

– Ma ha... ha... trent'anni... ha... –

– Ventotto. –

– È vecchio... per... –

– Quando facciamo sesso non facciamo sesso, praticamente lui mi stupra. –

– Kenma... non devi... è perico... pericolo... –

– Mi fa a pezzi. Mi morde e mi colpisce e mi fa male, io piango e qualche volta lo prego anche di smettere, ma lui non smette. Nemmeno vengo, quando facciamo sesso. Mi apre in due e poi mi molla lì come se avesse finito di usarmi. –

– No, Kenma, devi... la... polizia... –

– Però anche se mi fa queste cose è come se fosse il mio cane. Farmi scopare è dargli da mangiare. Mi faccio scopare e poi lui fa tutto quello che voglio. Lo amo tanto, mamma. –

– Questo non è... amo... amore... –

– E perché no? Perché non dovrebbe esserlo, per me? Io non lo so proprio che cazzo sia, tu non me l'hai mai insegnato, e allora perché non posso decidere che per me amare è così? –

– Te lo posso insegna... insegnare io, cos'è l'amo... –

– No, tu non puoi insegnarmelo. Tu vuoi insegnarlo a quel parassita che hai dentro. A me no. Tu a me vuoi solo male, tu mi odi, per te sono così insignificante che anche se ti rendi conto di essere una madre di merda piuttosto ne fai un altro, di figli, invece di provare a ricominciare con me. Ti faccio così ribrezzo che è meglio ricominciare da capo, che provare a riparare me. –

– No, Kenma, non è vero, non è... –

– Kuro ti ha lasciato perché voleva me, lo sai? Ti ha lasciato perché, almeno per lui, ero meglio io. –

– Quell'uomo è... malato... tu sei... piccolo... –

– Anche il tuo ex. Mi faceva i video nella doccia. Anche per lui ero meglio io. –

– Kenma... –

– Ho fatto sesso con Kuro sul tuo letto. Mi ci ha violentato sopra. Mentre lo faceva io pensavo a te. –

– Kenma... –

– Tu sei me e non so perché fai finta di no. Noi siamo la stessa cosa, e tu cerchi comunque di scappare. Tu sei parte di me. O parte di me, o niente, mamma. –

– Kenma... –

Le stringo le mani sulle spalle.

Sorrido, sorrido, sorrido un sorriso di pietra, ho la cassa toracica aperta, le costole divelte, prendo manciate di viscere, le strappo, gliele caccio in bocca, la costringo a mandar giù. Rido, rido e sorrido, mangia quel che ho dentro, mamma, mastica, mangia, senti quel che non ti ho detto, quel che tu non hai curato, quel che non hai potuto salvare.

– Io e Kuro siamo andati dal tuo ex e Kuro l'ha quasi ammazzato perché mi faceva i video nella doccia. Poi gli abbiamo detto di lasciarti. Non è venuto di persona perché non credo che riesca a camminare. –

Non risponde più, rimane là, in trance, a fissarmi.

– Poi siamo tornati qui e mi ha scopato sul divano. È andato avanti quasi per ore, mamma. Ad un certo punto gli stavo gridando così forte di smetterla che ha dovuto tapparmi la bocca o i vicini avrebbero chiamato la polizia. Mi ha fatto così male che credevo che sarei morto. –

Sbatte le ciglia, forse vorrei che piangesse, ma anche lo volessi, non lo fa.

– Poi si è ripreso e mi ha chiesto scusa. Mi chiede sempre scusa. Torna normale e sembra un cagnolino e io gli accarezzo i capelli e lui fa tutto quello che gli dico. Mi fa i regali, mi ama, mi porta fuori. È un bravo cane. –

Mi guarda come se non avesse idea di chi io sia.

– Il tuo nuovo bambino non sarebbe come me. Non gli servirebbe quello che serve a me. Lui non vorrebbe un cane. Lui sarebbe normale. –

Le sposto lo sguardo sul ventre.

– Per questo lo vuoi. Perché lui sarebbe normale. E tanto per me, di tornarci, non c'è speranza. –

Non so chi tu sia.

Sei una vittima innocente.

Solo un ammasso di cellule che non ha chiesto nulla.

Ero come te.

Ero felice solo quando ero come te.

– Tu mi hai fatto col sangue marcio, mamma. E non vedo perché l'unico che deve soffrire di questa cosa sia io. È colpa tua. Tutta colpa tua. E allora perché le conseguenze sono tutte mie, eh? Tu mi hai fatto male, tu mi hai fatto così, e ora invece di accettarmi come lo schifo che sono e che tu hai fatto fai finta di niente e pensi di farne un altro? –

Guardo la mamma.

Parte di me.

– O parte di me o niente, mamma. –

O parte di me, o niente.

Il campanello non suona, perché alzandomi per andare a prendere il liquore, avevo lasciato la porta aperta. Si sposta, si apre, i passi sono netti, la presenza mi è familiare.

L'animale non parla.

Mi guarda, guarda la mamma, e sta zitto.

– Vai a mettere su il bagno, Kuro. Riempi la vasca. –

Fissa gli occhi nei miei.

Annuisce.

Va verso il bagno.

Respiro, prendo fiato fino in fondo a quel che rimane dei miei polmoni, poi mi tiro su sulle ginocchia tremolanti, isso le mani su mia madre, la tiro su con me. Sta in piedi un po' male, ma quando ce la metto ci rimane, e allora procedo a trascinarla verso il centro del salotto.

La svesto.

Togliamo la maglia, mamma, su.

Togliamo i pantaloncini.

Ora un calzino, ora l'altro, via il mollettone, dai, che sei tanto bella coi capelli sciolti.

È inebetita, non capisce niente, segue le direttive placida come un ruscello, io piego i suoi indumenti, mentre rimane là a guardarsi attorno, li ripongo con calma in camera sua.

Passo in bagno, Kuro è seduto sul bordo della vasca, quando entro mi guarda, lo scroscio dell'acqua copre la mia voce che lo saluta.

Gli arruffo i capelli.

Lui sorride.

Esco di nuovo, torno dalla mamma, è tornata sul divano, non capisce cosa stia succedendo, è confusa, ancora beve dal bicchiere perché quel bicchiere è l'unica certezza che ha.

La tiro su di nuovo.

La porto a braccetto in bagno.

Kuro la vede, anche se è nuda non reagisce, si scosta quando gli dico di farlo.

Io faccio entrare la mamma nella vasca.

Su, un passo alla volta.

Vengo con te, dai.

Ti do una mano.

La mamma entra, si siede, io mi siedo nell'acqua, vestito, di fronte a lei, le cosce a lato delle sue, le mani sul suo viso.

Le dico di mettersi giù, di stendersi.

Lei si mette giù, si stende.

Guardo Kuro.

È di fronte a me, dietro di lei, fuori dalla vasca.

Alzo le mani.

Lui prende le mie.

Le appoggio congiunte sulle clavicole della mamma.

Lascio andare.

Sorrido.

– Annegala. –

Fermo un secondo.

Kuro rimane fermo un secondo.

Non so perché.

Apro la bocca per ripetere l'ordine.

Non ce n'è bisogno.

Spinge in basso, e la mamma scende sott'acqua, i suoi capelli si espandono come alghe attorno al suo viso, gli occhi si spalancano, il corpo vorrebbe ribellarsi, ma infradiciato dall'alcol, non ce la fa.

Le sue mani si stringono debolmente alle mie cosce, io mi chino fino a che la distanza fra noi due è ridotta all'aria che io respiro e lei no, occhi nei suoi, occhi nei miei, sto sopra mia madre mentre lui l'annega.

O parte di me o niente.

O parte di me o niente.

Mi viene da piangere, mentre la guardo, e piango, le mie lacrime ticchettano sulla superficie cristallina dell'acqua, lei annaspa.

Ti voglio bene mamma, ti voglio così bene, perché hai dovuto costringermi a tanto? Ti amo, mamma, ti amo, perché devi andartene così? Che ne sarà di me senza di te? Cosa mi succederà quando tu scomparirai?

Non voglio, mamma, io non voglio.

Io voglio amarti.

Io voglio che tu mi ami.

Mi hai abbracciato e mi sono reso conto che alla fine posso mascherarmi quanto voglio, nascondermi e ferirmi e scuoiarmi fino a crepare, ma il centro di me, rimane solo tuo.

Io voglio amarti, voglio che ci amiamo.

Non voglio questo.

Non voglio.

Però devo.

Mi capisci, vero?

Devo.

Perché se posso soffrire del tuo odio e bramare il tuo amore, posso farlo solo se sono per me, solo se sono io che ti condiziono, che ti governo, che ti possiedo, e gli altri invece no.

È perché senza non sopravvivo.

Perché mi hai fatto così.

Perché non mi hai mai amato, e allora traggo nutrimento dal mio esserti unica condanna irreversibile.

Cosa credi, mamma, che tutto questo sarebbe successo, se non fosse stato per te?

No, te lo dico io, nulla, nulla.

Se mi fossi venuta a prendere quella sera.

Se mi avessi comprato un vestito quella volta al centro commerciale.

Se mi avessi fatto entrare in casa invece di urlarmi addosso.

Se dopo aver notato i lividi te ne fossi fatta un problema.

Se mi avessi chiesto quanti anni ha davvero il mio ragazzo.

Se mi avessi amato.

Se mi avessi voluto.

Se quantomeno, mi avessi abortito.

Io sono precipitato e tu non hai fatto niente per impedirlo.

Io sono diventato un mostro e tu non mi hai mai aiutato a uscirne.

Giuda era l'unico che credeva davvero che Gesù fosse il figlio di Dio, mamma. Lui era l'unico a crederci, e gli apostoli invece erano una banda di idioti senza fede.

Giuda l'ha tradito perché lui era il figlio di Dio, e il figlio di Dio sarebbe sopravvissuto, no?

Lui credeva così tanto a Gesù che ha fatto del suo peggio, per guardare lui fare del suo meglio.

Gli altri pregavano la salvezza ma pregare per cosa? Lui non ha bisogno delle vostre preghiere. Lui è il figlio di Dio, lui sopravviverà, lui è... è...

Carne bruciata da Sole inchiodata ad una croce.

Morto.

Le mosche gli girano attorno.

Là dentro, vita, non c'è.

Non era il figlio di Dio.

Giuda ci credeva.

Non era il figlio di Dio.

È morto come muoiono tutti.

L'ha ucciso lui.

L'ha ucciso Giuda.

Però lui ci credeva.

La mamma prende aria, ma non ha l'aria. La mamma apre gli occhi, sofferente tenta di divincolarsi ma Kuro è forte, lei è troppo ubriaca, cede, mi guarda con lo sguardo pieno di panico, io le piango addosso.

M'immergo verso il suo viso.

La bacio sulle labbra.

Mi stacco.

Giuda ci credeva.

Giuro, madre, Giuda ci credeva.

La mamma respira l'acqua.

I suoi polmoni si riempiono, gli alveoli, i bronchi, la trachea, le labbra, il naso.

Non sono tuono che minaccia pioggia, come desideravo allora, di fronte ad un locale, prima che un uomo di mezza età cercasse di molestarmi perché sono così insignificante da non riuscire nemmeno a sedurre un viscido.

Non sono giornata di sole nuvolosa.

Non sono pioggia e non sono torrente, non sono ruscello, non sono fiume, non lago, non mare, non oceano.

Sono acqua, ma solo l'acqua che ti ammazza.

Solo quella nei tuoi polmoni.

Respira l'acqua.

Fino in fondo.

Respira.

Respira.

Respira.

Giuda ci credeva.

L'ha ucciso lui.

Ti ho uccisa io.

Smette di dibattersi. Smette di divincolarsi. Rimane ferma immobile, l'unico rumore che si sente è quello dei miei singhiozzi, dopo un attimo le mani di Kuro si sciolgono, la lasciano là, mia madre rimane morta dentro alla vasca da bagno.

Le avvolgo il collo con le mani, la tiro su, misericordia di pietra perché tu sei morta e io sono statua, lo squallore di casa ci circonda, l'uomo che mi ama mi guarda, è lunedì, è sera, fra poco inizierà la primavera.

Bacio la sua fronte.

Le scosto i capelli dal viso.

Sospiro.

La lascio cadere.

La parte di me che amava, questo eri, mamma.

Ma o parte di me o niente, ora sei niente, e io non so amare più.

Mi alzo e mi strizzo la maglietta fradicia addosso a lei, mi asciugo la faccia, esco dalla vasca e lasciando impronte umide sulle piastrelle vado da Kuro, gli arruffo di nuovo i capelli.

– Sei stato bravo. –

– Davvero? Sono davvero stato... –

– Davvero. Sei stato bravo, Kuro. Ora va' a prendere il mio telefono, è sul divano. –

– Devi chiamare qualcuno? –

– La polizia. –

Strofina da solo la testa contro la mia mano, quasi ad accarezzarsi con le mie dita.

– Cosa gli dici? –

– Che quell'alcolizzata di mia madre si è ubriacata ed è annegata nella vasca. Succede di continuo. –

– Ah, ok, ho capito. –

– Appena li chiamo poi te ne devi andare. Ti dico io quando puoi tornare. Ok? –

– Va bene, Kenma. Va bene. –

Si alza, le sue spalle larghe escono dalla cornice della porta.

Mi guardo le cosce con le garze, ci sono ora incise le mezzelune delle unghie della mamma che si aggrappava prima di crepare nel tentativo di sfuggire alla sua condanna.

Sporgo il viso oltre il bordo della vasca.

Pensavo avrebbe galleggiato, ma sta là, sul fondo.

L'acqua la fa sembrare eterea, perfetta e conservata nel fiore degli anni, cristallizzata nella scaglia gelida della morte.

La cicatrice del cesareo che mi ha strappato via da lei brilla sotto la luce elettrica del lampadario.

Mi guardo allo specchio un'ultima volta.

La fisso e mi guardo allo specchio.

O parte di me o niente, mamma.

Hai scelto tu.

Io ho solo agito di conseguenza.

O parte di me o niente.

Fatto costola per starti al fianco, mi hai affilato finché da osso e parte sono diventato arma e pugnale, e quando ti sei rifiutata d'impugnarmi e ferirti nel tentativo di farmi tornare com'ero, allora ho dovuto far quello per cui sono stato forgiato.

Non è colpa mia.

Sei stata tu a costringermi.

O parte di me o niente.

Ora sei niente.

Io sono niente.

Siamo niente.

Non sento niente.

Mamma, non sento niente.

Mamma, non sento più niente.

Mamma, non siamo più niente.

Le porto una mano sul viso.

L'accarezzo piano.

– Ciao, mamma. –

Tiro fuori la mano dall'acqua.

Mi asciugo sulla maglietta.

Mi alzo e me ne vado.

fine.

ok allora cosa devo dire non so cosa dire diciamo che ecco questa storia UN PARTO QUESTO CAPITOLO UN PARTO STO SOFFRENDO STO FATICANDO MI FA DIVENTARE PAZZA

WE MADE IT GUYS

non so quantx di voi siano riusciti ad arrivare fino in fondo a questo rollercoaster di disagio pazzia follia schifo però se ci siete arrivatx una stellina per voi un regalo un presente vi amo

allora

prima di tutto vi chiedo ecco cosa ne pensate di questo finale perché secondo me qualcuno se l'aspettava qualcuno no quindi ecco

all'inizio doveva finire in modo diverso, ma questo perché la storia originariamente doveva essere molto meno dark molto meno problematica, ma siccome i miei personaggi qualche volta pensano da soli qui hanno proprio preso il lead e niente ho dovuto assecondarli

diciamo che il kenma di questa storia si è proprio fatto tutto da solo

è probabilmente il mio personaggio che preferisco (?) in realtà lo detesto, è un istrione ed è completamente fuori, lo trovo antipatico e fastidioso e lagnoso però è esattamente il motivo per cui gli voglio bene, perché è sfaccettato, perché è controverso, perché è complesso. non provo affetto nei suoi confronti, ma provo tante emozioni, e gli sono in un qualche modo molto legata.

kuro fatico a definirlo un personaggio. non lo so se è un personaggio. è un soggetto ma è soprattutto un oggetto. credo sia il mio primo kuro non attraente, il fatto che sia così vuoto m'inquieta e basta, spero di aver fatto passare un po' quest'idea, ecco, che non ha nulla di bello, ma in realtà non ha nulla in generale

la mamma di kenma, giusto per parlare un po' delle mie scelte, non ha un nome perché darle un nome la renderebbe separata idealmente da kenma. lei non è nessuno se non la mamma di kenma, il suo essere è la mamma di kenma, tutto quello a cui serve è essere la mamma di kenma. lo trovo in linea con il narratore. questo è anche il motivo per cui non parla finché kenma non assume un po' di autostima e consapevolezza, perché finché lui non si sente forte, allora la mamma è esterna, sta fuori, esiste solo attraverso i suoi occhi.

non so bene cosa dire in realtà perché sono un po' stralunata qui a guardare sanremo e ecco cuori non lo so, forse mi verrà qualcosa domani ma ora proprio zero, quindi se avete domande feel free però io allucinata alienata questa storia mi fa uno strano effetto

niente

la chiudo qui e smetto di ammorbarvi

ci tengo solo a ringraziare tutte le persone che mi hanno fatto betareading, le persone che hanno fatto parte del brainstorming originale (ho tolto la metà delle cose, ma mi perdonerete lol) e chiunque mi abbia letto, ho la sensazione che questa storia sia la mia che preferisco e come con tutto quello che mi piace condividerlo è sempre un piacere e un rischio assieme, quindi grazie, di avermi sopportato, di avermi letto, di avermi detto cosa ne pensate.

grazie davvero di tutto, anche di leggere le mie cose brutte, perché ho la sensazione che siano quelle che mi vengono meglio (ho dei grandi e gravi problemi) (psicologo) (julia tso) (julia curati)

un bacio grande

ora finiamo new americana

così magari mi ripiglio

grazie mille

julia :D

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top