𝘵𝘩𝘪𝘯𝘬 𝘪 𝘨𝘰𝘵 𝘮𝘺𝘴𝘦𝘭𝘧 𝘪𝘯 𝘵𝘳𝘰𝘶𝘣𝘭𝘦

!! mild smut alert !!

continua

Accetto la mano che mi offre per scendere dalla moto.

Le suole delle scarpe atterrano una dopo l'altra sul cemento, le ginocchia un po' tremano, il freddo m'intirizzisce la pelle, sferza inesorabile sulle cosce coperte soltanto dal tessuto trasparente dei collant.

Mi tolgo il casco, glielo porgo.

Sorrido e faccio per allontanarmi, ma mi trattiene da un polso, e allora mi fermo, in piedi di fronte a lui, in attesa che faccia quel che vuole fare, che questo sia salutarmi con affetto o con foga, amarmi o semplicemente volermi toccare, dirmi qualcosa o non dirmi assolutamente niente.

Certe sere me ne vado e basta.

In quelle in cui abbiamo detto e fatto al punto che non serve doverci scambiare un "ciao" o prendere atto della prospettiva di separarci momentaneamente, lui ferma la moto, scende prima di me, mi aiuta a farlo, io semplicemente torno a casa.

Altre si dilunga qualche istante per dirmi qualcosa, una frase, un saluto, una raccomandazione, una velata minaccia.

Altre ancora come questa, quando la notte ci copre e ci nasconde, quando essere cauti c'importa meno che essere noi stessi, si ferma con me. Si toglie il casco anche lui, per potermi parlare, per potermi vedere bene, non so se spinto dalla volontà di tenermi ancora un po' con sé o da quella di impedire al mondo di avermi quando sarò da solo.

Do le spalle a casa mia, un paio d'isolati più avanti, e mi rivolgo al suo viso sorridendo, onorato dalla consapevolezza che lui ora, a prescindere dal motivo, voglia spendere ancora un po' del suo tempo in mia compagnia.

Anche lui mi sorride.

Mi accarezza una guancia.

Poi si china, e io stiro in alto le caviglie per raggiungerlo, mentre aggancio le braccia dietro al suo collo lui lascia scendere le mani sul mio corpo, nel silenzio tombale di un quartiere che non vive, ci scambiamo senza dirlo a nessuno un bacio, poi un respiro, poi un altro bacio, probabilmente un altro dopo quello.

Non so se mi stia premiando di nuovo per avergli lasciato fare quel che voleva di me, stasera non ha mostrato che un barlume dell'animale che ho visto un paio di settimane fa, non merito encomi per un lavoro che ho fatto senza versare sangue e fatica.

Certo pensavo che sarei soffocato quando mi ha costretto in ginocchio a sganciare la mandibola e non protestare mentre muoveva la mia testa su se stesso, e ho pianto, e ho tossito e mi sono dovuto sforzare, ma alla fine ho solo la gola un po' secca e giusto un dolorino alle ginocchia.

Non è stato così violento.

Non credo nemmeno ne porterò i segni domani.

Nel prendermi come suo, a fronte di tutto, è stato persino delicato.

Credo che l'incontro di stasera non l'abbia particolarmente entusiasmato, non l'ha fatto nemmeno con me, l'adrenalina da scaricare era giusto un rimasuglio per entrambi, discendere nella sua condizione disumana necessita di più violenza, più rabbia, più sangue.

Sono però contento che almeno qualcosa abbia fatto.

Non immagino quanto mi sarei sentito solo e inutile, se si fosse controllato senza ricorrere nemmeno un po' alla mia presenza.

Menomale che alla fine gli sono servito.

Sono qui per questo, dopotutto.

Mi stringe i fianchi con le mani, preme il mio corpo contro il suo, lascia scivolare le dita, le chiude sopra il retro del vestito, sul culo, la mia schiena s'inarca, piego il capo per riuscire a baciarlo più intensamente.

Quando si stacca lo inseguo per qualche millimetro nel tentativo di averne ancora.

Mi sorride, prima di togliermi di dosso la stretta e riportarla più su, il palmo contro la mia trachea, i polpastrelli che sfiorano la pelle liscia del mio collo.

– Che hai? Stasera sei più adorabile del solito. –

– Sono solo contento che tu abbia aspettato prima di andare via. Lo sai che mi piace quando lo fai. –

– Mmh, è così? Sei felice che stia un po' con te? –

Annuisco, m'incido il labbro inferiore coi denti, guardo più la sua bocca dei suoi occhi, nella speranza che decida di premerla ancora sulla mia.

– Non voglio andare via. Non voglio tornare a casa. –

– Ma la tua mamma ti aspetta, le hai detto che saresti tornato. –

– Non m'importa niente di lei, io voglio rimanere qui con te. –

Alza un po' più gli angoli delle labbra, so che gli fa un certo effetto sentirmi fare i capricci, non so se gli piaccia semplicemente perché apprezza il modo in cui si piega la mia voce quando lo faccio, o perché lo soddisfi la sensazione di avere il potere di rendermi felice o triste a suo piacimento.

– Non voglio sprecare il mio tempo con lei. No, Kuro, io non voglio... –

– Oh, Kenma. –

La sua mano s'irrigidisce.

Giusto un pochino.

Il mio fiato si fa un pelino più sottile, compresso dalla pressione che esercita sul mio collo.

– Non lo fa sprecare a te il tempo, se mai lo fa sprecare a me facendomi aspettare che ti lasci in pace. E Dio solo sa quanto poco mi piaccia farlo. –

– Allora portami via con te. Voglio stare con te. Non con lei. –

– Quando sarai abbastanza grande lo farò, Kenma, non dubitarne. –

– Me lo prometti? –

– Sì, te lo prometto. –

Si china, le sue labbra e le mie si sfiorano, spingo più in su le gambe, voglio che mi avvolga più forte, che mi stringa più intensamente, voglio non aver l'aria da respirare da quanto il suo corpo è serrato sul mio.

Non mi abbraccia.

Ma non toglie la mano dal mio collo.

L'aria, anche se non sono le sue braccia a strizzarmela via dai polmoni, continua comunque a giungermi più rarefatta.

– Cazzo, mi sa che neanch'io ho tanta voglia di lasciarti andare, stasera. – dice poi, ridacchiando piano, quando si stacca.

– No? –

– No, per niente. Non sono nemmeno particolarmente felice all'idea che i vestiti che io ti ho messo addosso non sarò io a toglierteli. –

Sbatto le ciglia infoltite di mascara, sento il sangue scaldarmi il principio degli zigomi, farsi strada su di me assieme alla sensazione che divelle le mie interiora di essere meritevole, meritevole del suo sguardo, meritevole della sua approvazione.

– Poi un giorno li rimetto e tu me li togli. –

– Sì, direi che faremo così. –

Mi bacia un'altra volta.

Rispondo, all'inizio, ma sono costretto a fermarmi con un ansimo quando la stretta sulla mia trachea si fa serrata, decisa.

Mi guarda, senza fiato, come se si divertisse.

– Fai il bravo, Kenma, ok? Fai il bravo e di' alla tua mamma che stasera deve ringraziarmi perché ti ho fatto tornare a casa. –

Annuisco come riesco.

Strofina la punta del naso con la mia, in un gesto d'affetto che non s'intona affatto con la crudeltà delle sue dita che m'impediscono di respirare.

– Piccolo Kenma, prima o poi smetterò di essere così gentile e di condividerti col mondo. –

Mi lascia andare.

Prendo aria un paio di volte a pieni polmoni, il mio petto rintocca velocemente del battito accelerato del mio cuore, mi aggrappo a lui con entrambe le mani, come se qualcuno stesse cercando di portarmelo via.

– Non condividermi, Kuro, ti prego. Quando sarò abbastanza grande non condividermi mai, per favore, per favore. –

– Sei così carino, Kenma, sei così adorabile. –

Mi bacia una guancia, mi schiaccia contro di sé tanto forte da farmi sentire persino in gabbia, per un istante, mi accarezza i capelli biondi con una dolcezza che nelle sue mani è quasi fuori luogo.

– Tu credi davvero che io sappia farlo? Condividere, intendo. Posso provarci, posso fare finta di farlo, ma a lungo termine lo sappiamo sia io che tu che non sono in grado. –

Sposto la testa in su e in giù, faccio "sì" sulla sua pelle, chiudo gli occhi nascondendo il viso contro il tessuto della sua felpa.

– Ecco, va bene così. Va bene, così, Kuro. –

Il suo petto vibra di una mezza risata.

Riprendo fiato.

– Piuttosto uccidimi, ma non condividermi mai con nessuno. Io lo voglio così. Voglio che noi due stiamo insieme così. –

La sua risata si spegne, il suo battito cardiaco che risuona vicino al mio orecchio diventa più veloce, il sangue nel suo corpo si sposta più rapido, il linguaggio dei suoi movimenti si fa più intenso.

– Ti amo tanto, Kuro, e non voglio amare nessuno che non sia tu. Nemmeno un pochino. –

Mi comprimo più forte al suo petto, quasi volessi entrargli dentro, farmi avviluppare dalle sue ossa, nascondermi dentro alla sua cassa toracica alla ricerca di un posto dove sentirmi al sicuro, cullato dal rumore del suo cuore, o quel che ne rimane, che comanda al suo corpo di vivere.

– Certe volte vorrei che uccidessi tutti. Tutto il mondo. Sarebbe bello, se non ci fosse nessuno tranne te. Mi sentirei davvero al sicuro, da solo con te e basta. –

– "Al sicuro"? Se fossimo noi due da soli? Ti sentiresti davvero... "al sicuro"? –

– Certo. Certo che mi ci sentirei. –

Le sue dita fra i miei capelli per un secondo si fermano. Ricominciano a muoversi, poco dopo, in un modo ancora più dolce, ancora più affettuoso, ancora più strano se fatto dalle sue mani che non sono state create per accarezzare, ma per stringere, non per sfiorare, solo per ferire.

– Non avresti paura che poi io faccia del male anche a te? Già te ne faccio ora, non credi che se non ci fosse tutto il resto a subirmi poi saresti tu la mia unica vittima? –

– Se mi dessi tutto il male che hai lo faresti perché mi ami sopra ogni altra cosa. Questo è quello che voglio. No, Kuro, io di te non ho paura. –

– Non so se trovare infantile o dolce questo modo che hai di trasformare tutto quello che mi rende terrificante in qualcosa di bello. –

Sorrido contro il suo corpo, lascio che le mie mani si avvolgano attorno alla sua vita, lo stringo forte.

– Io posso prendere qualsiasi cosa tu voglia darmi. Io non me ne andrò mai, anche dovessi smettere di essere carino con me e mi usassi e basta per sentirti meglio. Io sono qui, tu fa' di me quel che meglio credi. –

– Stai facendo un'offerta che non comprendi, Kenma. –

– La comprendo. La faccio perché la comprendo. –

Premo piano i palmi contro di lui, per staccarmi di qualche centimetro e incontrare i suoi occhi. Non ha le pupille dilatate come le ha di solito quando quel che gli dico vira verso questa direzione, ma le iridi scintillano, e lo sento, il suo corpo che reagisce.

Procedo a parlare senza timore.

Non ne ho, è vero.

Io ho solo devozione.

– Mettimi in ginocchio in un bagno pubblico come stasera, Kuro, fammi a pezzi nello spogliatoio di una palestra di notte. Mettimi le mani addosso, fammi sanguinare, fammi urlare, fammi chiedere pietà. Io continuerò a dirti che va bene. Continuerò a dirti che ti sono grato. Non sono niente senza di te, e allora ti rimarrò accanto finché non ti stancherai di me, e spero di morire in fretta quando succederà. –

Si passa la lingua sulle labbra.

Fissa lo sguardo sul mio, poi cala verso le mie labbra, poi ancora verso il mio corpo.

Le sue mani scendono, stringono le clavicole, le spalle sottili, la vita stretta. Ne stacca una per prendere le mie dita fra le sue, appoggia il mio palmo sul suo addome, mi guarda col respiro giusto un po' più veloce di un attimo fa.

– E io come faccio a mandarti a casa tua se tu dici queste cose? Come faccio a dirti di andare? –

– Portami via con te. –

– No. Non ancora. È troppo presto. –

Costringe il mio polso a scendere, sento sulla pelle il materiale ruvido della cintura dei suoi jeans, le mie dita tremano sopra la cerniera di metallo, spinge verso di sé, io sento quel che vuole farmi sentire.

– Domani io e te riparliamo di questa cosa, ok? –

– Ok. – rispondo, con le cosce che ricominciano a stringersi forte fra di loro, gli occhi che vorrebbero guardare inchiodati fermi dai suoi.

– Quando domani te lo chiederò, non fare il timido che s'imbarazza e dimmi la verità. Dimmi che hai fatto quello che farò io quando tornerò a casa. –

Sposto il mento in su e in giù.

Lui abbassa il tono della sua voce.

– Dimmi che hai pensato a me mentre cercavi di non farti sentire da tua madre al piano di sotto che crede tu non abbia mai dato la mano a nessuno in tutta la tua vita. –

Mi bacia una guancia.

– Domani ti darò quello che vuoi. E tu darai a me quello che voglio. –

– Tutto quello che vuoi. –

– Esatto, tutto quello che voglio. –

Lascia andare la mia mano.

Le pupille si sono espanse.

La stretta si è fatta d'acciaio.

– Lo so che credi che io ti abbia fatto diventare lei, ma Kenma, guarda in faccia la realtà. –

Respira la mia stessa aria.

– Io ti ho fatto diventare molto peggio. –

Preme le labbra sulle mie e io mi sciolgo, mi lascio baciare, divorare e inghiottire e mandar giù, col sangue che ribolle dall'eccitazione che mi brucia fra le gambe, col cuore che batte forte per l'euforia di questo momento.

Quando riparte sto già camminando verso la porta di casa.

Non credo che sappia dei cinque minuti che impiego, nel freddo gelido della notte, a tentare di rasserenare la mia fantasia prima di dover rimettere piede nella mia personale punizione divina col sorriso sulle labbra di chi sa di aver vinto una volta ancora.

Tiro fuori le chiavi dalla tasca della giacca, le affondo nella toppa con le mani che tremano per la temperatura tanto rigida, ascolto il rumore della porta che si apre e si richiude a rintoccare la mia ora, metto piede in casa un passo alla volta. Appendo il giubbotto dall'etichetta all'ingresso, mi sfilo le scarpe, percorro i passi che mi separano dalle scale.

Mi fermo quando il colore bluastro della televisione mi sommerge.

Non vorrei farlo.

So che devo.

– Oh, ciao, Kenma, già di ritorno? Credevo che saresti rientrato prima. – mi sento dire dalla voce appiccicosa, sbiascicata e volgare di mia madre, che mi appare di fronte mezza stesa sul divano, appoggiata contro un uomo che vedo in casa ormai da qualche settimana, con un bicchiere mezzo pieno in mano colmo del vizio che la contraddistingue.

– È quasi l'una di notte, mamma. –

– Ah, sul serio? Merda, devo essermi assorta, non mi ero resa conto fosse così tardi. –

Prende il telecomando sporgendosi oltre il suo fidanzato, ferma qualsiasi stronzata stessero guardando, agita la mano di fronte a me indicando l'interruttore della luce.

L'accendo.

Calo il sipario di fronte a noi.

Accolgo il suo viso con tutto l'odio che provo per il mio.

– Ma che hai addosso? – è quel che ricevo, senza sorpresa, solo disprezzo.

– Un vestito. –

– E chi te l'ha comprato? Io no di certo. –

– Il mio ragazzo, mamma. Il mio ragazzo mi ha comprato questo vestito. –

Con la lampadina che getta il suo bagliore giallastro fra noi, illuminando e rivelando tutto quello che prima era solo accennato, sento due paia di occhi studiarmi e inseguirmi nel salotto di casa mia.

S'inerpicano su per le mie cosce coperte dai collant, verso la gonna corta e stretta, sul tessuto trasparente, sulla chiara forma delle mutande di pizzo che certo lasciano ben poco all'immaginazione.

Mi sta bene.

Kuro ha detto che mi sta bene.

Non accetterò niente che non sia la sua opinione.

– Ragazzino, apprezzo che ti faccia dei regali ma mi sembra un po' eccessivo. Non puoi andare in giro col culo di fuori in quel modo, sembri una puttana da marciapiede, Kenma. –

– Mamma, tu vai in giro con i pantaloncini inguinali nove mesi l'anno. –

– Ma io posso, tu no. –

– No, è il contrario. Io posso, perché sono giovane. Tu hai trent'anni. Forse è il caso che passi ai jeans e la smetti di credere di avere la mia età. –

La vedo aprire la bocca e tirare dentro l'aria in un respiro mozzato, sta per rispondere, ma viene interrotta dal suono del suo fidanzato che...

Ride?

Di lei?

Concorda su quel che dico e ride di lei?

Spalanco gli occhi come fa mia madre.

Lo guardo, concedendogli un'attenzione che prima non aveva in me mai suscitato.

Non è un bell'uomo. Non è brutto, ma bello no di sicuro. Avrà una decina di anni più di mia madre, sembra alto, non Kuro ma alto, i capelli sono un po' radi, l'espressione non pare particolarmente reattiva.

Mi suscita istintiva diffidenza.

Però mi beo del suono della sua risata come se fosse una melodia che non ho mai sentito.

– Beh, in effetti non ha tutti i torti. È giovane, alla fine può permetterselo. Non essere così fiscale. –

– "Fiscale"?! Non sono fiscale, sono oggettiva, ha un cazzo di vestito trasparente con delle mutande sotto che sembrano filo interdentale, per la miseria. Non si va in giro così. Chissà poi che cazzo ci va a fa... –

Si gira verso di me di scatto.

– Che cazzo ci vai a fare conciato in quel modo, eh? Cos'è che sei andato a fare, Kenma? –

– Non sono affari tuoi cosa faccio in privato col mio ragazzo, mamma. –

– Certo che sono affari miei, sei mio figlio, è compito mio assicurarmi che tu non faccia puttanate. –

– Ah, è compito tuo? Da quando? Da ora? –

– Un'altra parola con quel tono e non esci per una settimana. –

– Sei talmente sbronza che probabilmente domani non ti ricorderai nemmeno di averlo detto, mamma. –

Si morde l'interno della bocca, vedo dal modo in cui muove il suo corpo che sta per alzarsi, ma il suo fidanzato la trattiene, la costringe a rimanere seduta, le dice di calmarsi.

Lei alla fine cede.

Beve col broncio sulle labbra un altro sorso di quel che ha nel bicchiere, mi dice qualcosa che ad un figlio probabilmente non dovresti dire, ma lascia perdere.

Lui mi rivolge uno sguardo strano.

Cosa si aspetta che faccia?

Che lo ringrazi?

Io non ho alcuna intenzione di ringraziarlo.

L'unica persona che nella vita ringrazio, è fuori da quella porta, lontana da qui, e nessuno di voi due può nemmeno lontanamente avvicinarcisi.

Passa qualche istante in cui mi chiedo se effettivamente dovrei salire le scale e andarmene da questa scenata inutile, ma poi mi madre riprende fiato e mi sento costretto a rimanere qua a farmi sputare addosso il suo veleno di vipera.

– Lasciamo perdere il vestito, Kenma. Lui, me ne parli da un po' ormai, com'è? È un bravo ragazzo? Ti tratta bene? –

– Sì, mamma, mi tratta bene. –

– È bello? –

– Molto. –

La vedo affinare lo sguardo, piegare la testa incuriosita.

Il nervosismo che infradiciava le sue parole è quasi totalmente scomparso, ora, come succede sempre in queste situazioni, quelle in cui il suo umore è una zattera in balia delle onde capricciose dell'alcol. Va, viene, cambia e torna com'era, certe volte la rende più gestibile, come adesso, altre una iena che ride e si lecca i brandelli di carne putrefatta dai canini.

– Bello tipo... – indica con lo sguardo il suo ragazzo al suo fianco, non credo lui recepisca, ma lo faccio io, e scuoto la testa.

– Di più. Più tipo... –

– Tipo Tetsurō? –

Sentirle dire il suo nome è...

Strano.

Da una parte suscita in me la sensazione dilaniante del furto, mi fa sentire derubato da lei di qualcosa che non so come riprendermi, e dall'altra però mi distende i nervi facendomi sentire superiore, nella consapevolezza che per lei "Tetsurō" è solo un termine di paragone pressoché irraggiungibile, per me la constatazione reale dell'averlo fra le mani e di farmi avere fra le mani da lui.

Non rispondo.

Il ragazzo di mia madre mi concede il tempo di non farlo.

– Chi è Tetsurō? – le chiede, incuriosito.

– Un mio ex di qualche mese fa. Kenma se lo ricorda. –

Certo che me lo ricordo.

Non nel modo in cui credi tu.

Continuo a stare in silenzio.

Lei continua a parlare.

– Era molto bello ma Dio, era strano. Di quelle persone che non sai mai se le conosci davvero, non so se hai presente il tipo. Gentile, per carità, ma sembrava sempre che avesse la testa da un'altra parte. –

Oh, mamma, ma lui aveva la testa da un'altra parte.

Lui ha tutt'ora la testa da un'altra parte.

È che proprio fatico a immaginare come reagiresti, a sapere che quella "altra parte" che tu descrivi non è un pensiero o un ricordo traumatico ma il corpo e il volto di tuo figlio diciassettenne.

La debolezza di sentirmi privato da lei del suo nome, soccombe sempre di più al senso di superiorità.

Tu non l'hai mai avuto. Non lo riavrai. Rimarrà per te solo quello, solo il suo nome, solo la sensazione di non sapere che cosa gli passi per la mente, solo il fatto che non ti abbia voluto, non ti abbia scelto, non sia rimasto.

– Era uno con la testa fra le nuvole? –

– No, più che con la testa fra le nuvole era come se certe volte non fosse là con me. Come se mi guardasse e vedesse qualcos'altro. –

No, non qualcos'altro.

Qualcun altro.

Nello specifico, quella parte di te che tu detesti, quella che ti piace di meno, quella che non vorresti fosse mai nata.

– A un certo punto quasi mi sembrava che venisse qua solo per fare da papà a Kenma, diventava strano quando eravamo da soli. – dice, ridacchiando.

No, ma che "strano", mamma, "strano" vuol dire tutto e non vuol dire niente, dovresti essere più specifica, più precisa.

Non diventava "strano".

Lui non era "strano", con te.

È che non ti voleva.

Che per quanto potesse immaginarselo o sperarlo, si rendeva conto quando eravate solo voi due, che tu non eri me per davvero, che i tuoi modi di fare stupidi e volgare non erano i miei, che stava divorando una carcassa, nonostante volesse sotto i denti l'animale vivo.

Me l'ha raccontato, lo sai?

L'altra sera a casa sua, nel suo letto, mentre mordeva la mia pelle e stringeva il mio collo spingendosi fino in fondo dentro di me, che ogni volta era peggiore, era più difficile, guardare te e vedere me. Ogni volta diventava più sottile, la sua capacità d'illudersi che fossi io, e per quanto cercasse di evitare il tuo sguardo, per quanto tentasse di non ascoltare la tua voce immaginandosi la mia, sapeva che io sarei stato tutt'altro, e tutt'altro lui voleva.

Tu sei solo una vecchia stronza che sta appassendo.

Alle persone piace la carne fresca.

Io, sono carne fresca.

– Allora, ragazzino, tipo Tetsurō? Il tuo ragazzo è bello tipo Tetsurō? –

– Sì. Tipo lui. –

– Dio, te lo sei scelto bene. –

– Lo so. –

– E com'è? È ricco? Quanti anni ha? Ti porta fuori? –

– Sta bene, è un po' più grande di me, mi porta fuori. –

Certo, non fuori a cena, fuori a mettermi in ginocchio sulle piastrelle sporche di un posto che non dovrebbe essere aperto, ma questo tu non potresti capirlo, e allora non te lo dirò.

– Quanto più grande? –

– Un paio d'anni. –

– Ti piacciono gli uomini più grandi? – mi chiede il suo ragazzo, scherzando, credo.

– Non mi piacciono i ragazzini. – rispondo, sviando la questione.

Non ribatte.

Mi guarda senza ribattere.

Ancora fatico a comprendere in che modo lo faccia.

Mia madre ride appena.

– Sei tutto la tua mamma, eh? –

– Sì. Sono tutto come te. –

O forse no, forse quel che dice Kuro è vero, forse sono diverso, sono meglio, sono peggio, sono qualcos'altro.

Forse sono solo la versione più giovane, più bella e desiderabile di te.

Forse è per questo che hai cercato d'ingabbiarmi tutta la vita, di farmi sentire nulla, perché sapevi che se mi fossi davvero staccato dal cordone ombelicale con cui tentavi di strozzarmi, allora nessuno t'avrebbe più guardato.

Dopotutto è così che funziona, no?

Kuro, e tutti quelli che verranno, anche quel rifiuto patetico che ti tiene abbracciata fingendo di amarti, non ti vorrebbero più se potessero avere me.

Non credevo, mamma, ma sei molto più patetica e spaventata di quanto potessi immaginare.

– Dai, è tardi, vai a dormire. – trancia poi, perdendo il sorriso che aveva messo su, non so se perché si sia stancata di fingerlo o perché abbia sentito il rantolare euforico dei miei pensieri.

– Vado, mamma. – acconsento, finalmente libero di poter fuggire.

Percorro qualche passo verso le scale, ma sento chiamare il mio nome, e allora mi fermo, sospiro, prendo fiato per rispondere.

– Che c'è? –

– Domani e dopodomani non sono a casa. Il negozio organizza un viaggio premio per i dipendenti ad una SPA e ci vado. Torno lunedì. –

– Ok, mamma, va bene. –

– Buonanotte. –

Non ribatto, le do le spalle, ricomincio a camminare diretto verso camera mia.

Beh, non che m'importi molto se lei c'è o meno, tanto comunque domani dovrei andare da Kuro, in questa gabbia non ci rimarrei. Il suo appartamento è più pulito, più spazioso, meno tetro, vorrei scappare a prescindere dalla presenza del carceriere.

Però...

Oh, beh, qualche idea inizia a farsi strada nella mia mente.

Lei l'ha sempre fatto qui.

Lei ha sempre vinto qui.

Mi ha sempre sottoposto, misero ammasso di ossa col dono dell'udito, a quello strazio terrificante di sentirla ricevere amore mentre io non ne ero meritevole.

Forse dovrei vincere anch'io, una volta tanto.

Forse dovrei...

Apro la porta di camera mia, me la richiudo alle spalle, inizio a sfilarmi i vestiti di dosso.

Mancano anche a me, le mani di Kuro che scavano la pelle e strappano via il tessuto, il colore scuro dei suoi occhi che simboleggiano quanto distante la sua umanità sia da me, il fatto che non si curi di aver speso dei soldi per conciarmi in questo modo, ma che gli interessi solo ed esclusivamente di potermi avere il prima possibile, anche a costo di stracciare, tranciare, fare a pezzi.

Lui mi mette addosso quel che gli piace, lui toglie quel che non vuole.

Funziona così.

Mi rasserena, sapere che funziona così.

Raccolgo le calze in un gomitolo disordinato, quelle sono mie, di loro non m'interessa. Appoggio però il vestito e le mutande con calma sul materasso, facendoci attenzione, perché so di non avere il diritto di romperli io, lui solo può farlo.

Tremo di freddo nel buio della mia stanza, cerco a tentoni gli indumenti che uso per dormire, infilo i pantaloni troppo grandi della tuta, la maglietta che Kuro mi ha prestato due giorni fa dopo aver fatto saltare i bottoni della camicetta e che ho lavato e nonostante tutto ancora credo profumi come lui, i calzini, una felpa a caso.

Mi lego i capelli sulla nuca distrattamente, sorridendo all'idea dell'espressione che ha fatto poco fa, mentre questa stessa cosa la facevo di fronte al laccio dei suoi pantaloni, abbassato, adorante.

Di riflesso sfioro con la mano il termosifone in camera, impreco nel rendermi conto che è freddo, non sorpreso, solo infastidito. Aveva detto che l'avrebbe acceso, quella stronza, deve essersene dimenticata, dovrò di nuovo dormire seppellito dalle coperte perché la temperatura qua è drasticamente bassa.

Prendo il cellulare dal letto dove l'avevo mollato entrando.

Cerco il numero.

Lo chiamo.

Come al solito, bastano un paio di squilli.

– Kenma? Che c'è, ti manco così tanto che volevi risentirmi subito? –

Rido piano, la mia testa si piega di lato, mi guardo le punte dei piedi.

Ah, non me n'ero reso conto.

I calzini con le margherite.

– Anche, ma più che altro volevo dirti una cosa. –

– Cosa? –

– La mamma non c'è domani e dopodomani. Ho casa libera. Potresti... venire tu qui, invece che l'inverso. –

– Vuoi che venga da te? Non credi che sia rischioso? –

– Un po' forse lo è, però... –

Mi mordicchio l'interno della bocca.

– Qui dentro tutti hanno sempre voluto solo lei. Mi piacerebbe che qualcuno volesse anche me. Odierei di meno questo posto. –

– Sai che ti ho voluto anche dentro quella casa, Kenma. –

– Sì, ma non mi hai mai preso. Hai preso solo lei. –

– Vuoi che venga là per dimostrarti che è vero che volessi te e non lei? –

– Voglio che tu venga qua e rimetta a posto l'ordine delle cose. –

Rimane zitto qualche istante, io ne approfitto per parlare.

– Così facciamo come quando ci siamo conosciuti, no? Io faccio colazione sul divano e tu mi chiedi cosa ho fatto a scuola e poi invece di baciare lei puoi baciare me. Abbracci me da dietro in cucina e porti me in camera da letto. Fai anche a me quello che facevi a lei. –

– Faccio già a te quello che facevo a lei. –

– Sì, ma non qui. –

Il tono della mia voce si abbassa, il solo pensiero mi fa formicolare la pelle.

– Cosa c'è, non vuoi scoparmi in un posto dove non credevi avresti potuto farlo? –

Risponde prima col rumore del suo respiro, poi con le parole.

– Sì che voglio farlo, Kenma, che cazzo di domanda è. Voglio farlo, certo che voglio farlo. –

– Bene, allora ti aspetto domani. Come vuoi che mi vesta? –

– Come ti vesti in casa. Come ti ho visto per la prima volta tre mesi fa. –

– Come quando ti sei reso conto che volevi me e non lei? –

– Esatto. Merda, il solo pensiero mi fa... –

– Cosa ti fa? –

– Lo sai cosa mi fa. –

Fa lo stesso identico effetto anche a me.

Riporta nella mia mente i ricordi e con loro anche l'idea di come sarebbe dovuta andare, di come andrà, di com'è giusto che sia.

Non io che lo guardo incuriosito uscire senza maglietta dalla camera di mia madre e tiro al petto le ginocchia intimidito dalla sua stazza, non io che rispondo al suo saluto con una pallida imitazione della mia voce, non io che lo fisso e la invidio, perché lei ce l'ha e io no.

Kenma che vorrebbe e non ha, non è il corso corretto degli avvenimenti.

Kenma che vuole e prende, lo è, e la mamma che sbraita e non riceve, pure.

– Sei da solo, Kenma? –

All'inizio rispondo alla domanda senza capire cosa voglia dire.

– In camera, sì. Mamma e il suo fidanzato sono di sotto di fronte alla TV. –

– Puoi parlare, no? –

– Posso. –

– Allora parla. –

Quando mi arriva netto alle orecchie il rumore della zip che si apre, comprendo.

Comprendo e sorrido.

Dopotutto me l'aveva detto, cos'avrebbe fatto una volta tornato a casa.

– Di cosa vuoi che ti parli, Kuro? –

– Di tre mesi fa. Di quando ero là tre mesi fa. –

Strizzo le cosce fra di loro, mi passa per la mente l'idea di imitarlo ma rinuncio, non m'interessa. Come qualsiasi cosa riguardi il mio piacere personale, semplicemente diventa secondario, concentrato come sono nell'appagamento di dare più attenzione a quello che prova lui.

Io sono collaterale.

Il piacere fisico, è ininfluente.

Non eguaglia quella sensazione soffocante e soddisfacente del piacere emotivo di sapere di avere uno scopo, un ruolo, un fine ben preciso. Non mi rende tanto felice quanto l'idea che gli sono indispensabile per stare bene.

Non m'importa di sentire i muscoli che si sciolgono, il corpo che si rilassa e la mente che si rischiara.

Quello conta solo quando non ho lui di cui prendermi cura.

Ora m'importa soltanto che lui lo faccia attraverso di me.

– Un giorno mi sono molto arrabbiato con te, tre mesi fa, lo sai? Molto arrabbiato. Sono tornato a casa prima da scuola perché stavo male e speravo che tu ci fossi per darmi qualcosa di caldo e farmi sentire meglio. –

– Io non c'ero? –

– No, no, tu c'eri. Eri con lei in camera. Non credevi che fossi a casa. –

Respira un po' più velocemente.

– Di solito non mi fermo mai di fronte alla camera della mamma, ma quella volta mi sono fermato. Ad ascoltare. Mi sono arrabbiato così tanto, Kuro. –

Il suono che arriva dal microfono è bagnaticcio.

– Il letto sbatteva contro la parete, le molle del materasso cigolavano. Lei urlava il tuo nome, ansimava, ti diceva di dargliene ancora. –

L'immagine è vivida nella mia mente.

– Dovevo esserci io. Volevo esserci io. Steso con le gambe aperte sulle lenzuola a urlare il tuo nome e a chiederti di darmene ancora. Tu dovevi toccare me, dovevi stringere me, dovevi scopare me, non lei. –

– Kenma... –

– Perché lei, eh? Questo, pensavo. Perché lei? È più vecchia, è più brutta, è una stupida puttana senza valori che spalanca le cosce per chiunque. Io le avrei spalancate solo per te. Io ti sarei servito di più, ti sarei piaciuto di più. –

– Kenma, cazzo, Kenma... –

– Io non sarei stato egoista come lei, che ti chiedeva di farla venire, io sarei stato là ad aspettare che lo facessi tu, a pregare che lo facessi tu, dentro di me, fino in fondo al mio corpo. –

Fa un verso che non so se sia un mugugno o un gemito.

Le mie cosce sono premute forte fra di loro da farmi tremare i muscoli.

– Dopo sei uscito dalla stanza. Quando avete finito, sei uscito subito dalla stanza e io ero lì, ancora seduto sul primo gradino delle scale, ad aspettare. Te lo ricordi? –

– Sì, cazzo, me lo ricordo. –

– Non mi hai detto niente ma mi hai guardato. Allora non capivo perché l'avessi fatto in quel modo, ma ora me lo immagino. –

Mi fisso i calzini con le margherite, la sua voce si piega in un altro verso.

– Avevi finito di scoparla e ti eri reso conto che non ero io, vero? Ti eri ripreso e l'avevi guardata sperando di vedere la mia faccia e invece era solo lei, e ti faceva schifo. –

– Sì, Kenma, io avevo... –

– E poi quando sei uscito e hai visto me, allora... –

– Allora ho faticato come un cazzo di disperato a tenermi le mani dov'erano e non mettertele addosso. Eri così vicino e non ci sarebbe voluto niente a prendere te e metterti dove c'era lei. Non ci sarebbe voluto niente a rifare tutto con la persona giusta. –

– Ti avrei detto di sì, Kuro. Lo sai che ti avrei detto di sì. Mi avresti fatto passare tutta la rabbia. –

Respira, la sua voce è più sforzata, più bassa, più aggressiva.

– Ti dirò di sì, domani. Sarò io, domani. Aprirai gli occhi e sarò io. –

Sarò io, e nessun altro nel mondo.

– Non dovrai nemmeno trattenerti, nemmeno un pochino. Farai quello che vuoi, tutto quello che vuoi a questo povero diciassettenne che avevi tanta paura di toccare. –

Tutto, senza risparmiarti niente, senza fermarti, senza avere paura di distruggere tutto, con l'intento di farlo, invece.

– Mordi, strappa, prendi, apri, rompi, Kuro. Scopami, strozzami, fammi a pezzi, fammi sanguinare, fammi urlare. Lasciami i lividi sul corpo, stringimi forte da frantumarmi le ossa, lacerami la pelle, colpiscimi, feriscimi, staccami gli arti dal corpo, mangiami, strappami la carne, distruggimi, demoliscimi, annientami. –

– Kenma, cazzo... –

– Non ci sarà parte di me che non sarà tua, dopo. –

– Kenma, Kenma, Kenma... –

– Sventrami e ama di me anche le viscere che sanguinano. –

– Kenma... –

– Uccidimi, Kuro, e fallo perché mi ami. –

La sua voce si piega.

S'incastra un attimo, il suo respiro si ferma, passa un istante in cui il suo orgasmo lo sento anch'io nelle articolazioni, nella cassa toracica, dalle falangi alle spalle, dalle tibie alle anche, dallo sterno al cranio, in quella sensazione di assuefarmi della sua soddisfazione. Si libera come liquido, quel veleno che m'intorpidisce i muscoli e i pensieri, filtra nei pori della mia pelle e fa marcire la carne, getta la mia testa indietro, dilata le mie pupille, costringe il mio cuore ad un ritmo che non conosce.

Questa stanza è gelida.

Ma come i viaggiatori nel deserto, come in quel film che ho visto sul computer invece che al cinema, io mi riscaldo immerso nella carcassa di un animale che ho ucciso per non crepare di freddo.

La carcassa è la mia.

Quello che ci metto dentro, io non so cosa sia.

Ascolto ansimando il respiro identico di Kuro, per un po' rimaniamo in silenzio, e io non faccio altro che vivere nel tepore di questo istante.

Poi il mondo ricomincia a muoversi.

Io tengo quel che è appena successo dentro di me, permettendogli di cicatrizzarsi nella mia memoria, acconsentendo ad andare avanti ma non privo del segno del fatto che sia accaduto davvero.

– Sono stato bravo, Kuro? –

– Sei stato bravo, Kenma, cazzo. Più passa il tempo più sei bravo con me. –

– Grazie, non desidero altro. –

Con le ginocchia tremanti mi tiro su dal letto, tengo il cellulare attaccato all'orecchio, apro piano la maniglia della porta e svolto per andare in bagno.

Ignoro il ragazzo di mia madre sulle scale che sta salendo, non so cosa intenda fare, ma non m'interessa.

– Ora vado a lavarmi i denti, se non mi senti parlare è per quello. –

– Stai andando a dormire? –

– Sì, se riuscissi a farlo il tempo prima che sia domani passerebbe più in fretta. –

– Hai ragione. –

Ridacchio piano, m'introduco nella stanza, vedo il mio spazzolino sul lavabo e lo prendo, appoggio il cellulare su una delle mensole e mi dedico due minuti – in realtà uno e mezzo perché non ho davvero voglia di contare i secondi – ad uno stupido gesto di routine, mi sciacquo la bocca, mi lavo la faccia, mi asciugo.

Riprendo il telefono in mano.

– Ho fatto. –

– Credo che andrò a dormire anch'io, sai? –

– Faresti bene, Kuro, è tardi. –

Ridacchia.

– Che fai, mi sgridi? –

– No, ma che ti sgrido, dico solo la verità. –

Il fidanzato di mia madre è di nuovo sulle scale, questa volta però mi dà le spalle, come se stesse scendendo.

Una volta ancora lo ignoro, torno in camera mia, tengo in bilico il cellulare fra la spalla e il viso, mi rivolgo agli indumenti sul materasso intento a metterli via per un'altra occasione.

Piego il vestito, poi cerco...

Cerco...

– Oh, che strano. – dico ad alta voce.

– Che è successo? –

– Non trovo le mutande. Eppure le avevo messe qui. –

– Magari ti sono cadute? –

– Può darsi, ma mi pareva fossero qui, davvero. –

Mi piego, guardo sul pavimento, non le vedo. Mi chiedo se dovrei chinarmi e cercare sotto al letto, ma mi rendo conto che dovrei usare la torcia del cellulare che è troppo scarico perché la usi senza dover staccare la telefonata con Kuro, quindi ci rinuncio.

– Torneranno fuori, domani poi guardo meglio. Tanto non è che esistano davvero i folletti che rubano i vestiti, e alla fine in casa ci siamo solo io la mamma e il suo fidanzato. –

– Magari domani ti do una mano. –

– Ecco, mi farebbe piacere. –

Lascio perdere la questione, apro il letto, mi siedo sul bordo del materasso.

– Ok, ora vado a dormire. Vai anche tu? –

Sento rumore di tessuto che si sposta dall'altra parte della cornetta, suppongo che magari si stia mettendo a letto, però poi sento anche una porta che si apre e comincio invece a credere che si sia alzato.

– Nah, forse vado a farmi un giretto, non sono poi così stanco. –

– Oh, come preferisci. Allora buonanotte, Kuro. –

– Buonanotte, Kenma. –

Chiude lui la telefonata.

Appoggio il cellulare sul comodino, prendo il cavo e lo attacco, mi rannicchio sotto le coperte sempre al freddo ma sempre anche scaldato dalla sensazione di cosa mi succederà domani.

Una mezz'ora dopo, mentre il sonno sta calando sopra di me come una falce, mi pare di sentire il rumore di una moto attraverso il vetro sottile della finestra.

Ah, me lo starò immaginando.

Quando chiudo gli occhi, dopotutto, io Kuro me lo immagino sempre.

continua

ops mi sa che ho messo anche qui il cliffhanger con la smut scs raga ultimamente devo scrivere così tante smut che boh sono arrivate tutte assieme ahahahah

niente non ho molto da dire oggi solo tipo che questi due sono toxic raga ma così toxic che se vi trovate in una situazione anche solo lontanamente simile ESCAPE VUOL DIRE FUGA E QUINDI FUGGIRE vi prego stateci attentx im almost scared

ah e anche che non so se kenma io lo odio o mi sta simpatico cioè fra ma che menace che sei cioè ok tua madre non è una santa però poretta

no ok vado che devo finire di studiare

ditemi se vi è piaciuto

vi mando un bacino

mel :D

(dovrebbero mancare quattro capitoli anche per finire questa storia credo suppongo immagino)

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