𝘬𝘦𝘦𝘱 𝘵𝘩𝘦 𝘸𝘢𝘵𝘦𝘳 𝘸𝘢𝘳𝘮
continua ⇘
Quando si ferma di fronte a me, mi torna in mente la mamma.
Quando nel panorama spento e solito della strada di casa mia, dove non succede mai niente, dove niente è mai interessante o meritevole anche della più piccola attenzione, compare come portasse l'apocalisse con sé, mi ricordo di quel che mi diceva lei.
Le piaceva la sua stazza.
Non faceva altro che dirlo, quanto le piacesse.
Le piaceva che fosse alto, alto tanto da svettare sopra di lei. Le piaceva che fosse solido, che fosse grosso, che potesse stringerla e farla sentire piccola e indifesa, protetta da qualcuno che allo stesso modo poteva ucciderla con una mano.
Descriveva il suo corpo.
Le spalle, le braccia, la schiena.
Come i muscoli si muovessero la pelle piegandola e increspandola sotto la superficie liscia, come l'inchiostro la tingesse, come fosse attraente vederlo muoversi in quell'opera d'arte che è la sua apparenza.
Non sono solito darle ragione.
Non odio la mamma, ma buona parte di quel che dice sì.
Eppure...
Sono d'accordo con lei.
Mi trovo inevitabilmente sulla sua stessa linea di pensiero.
Piace anche a me.
Mi piace da morire.
Scende dalla moto e si toglie il casco che mi sembra di essere incastrato nella scena di un film di second'ordine.
È minaccioso, Kuroo Tetsurō.
Fa paura.
Sembra non finire mai.
Potrebbe fare di me quel che vuole. Potrebbe tirarmi senza fatica, potrebbe spezzarmi un braccio, potrebbe stringere il mio collo con una mano sola, i suoi polpastrelli si toccherebbero se mi avvolgesse la vita.
Si muove come un soldato, si vede che genere di vita ha fatto, cos'è, o era, a che cosa appartiene.
Niente di quel che fa è sprecato, è tutto efficiente, affilato, diretto.
Si muove come se conoscesse come il palmo della sua mano tutto ciò che lo circonda, come se il mondo fosse suo, tra le sue mani, stretto e plasmato solo dalla sua volontà.
Mi sento minuscolo.
Insignificante, quasi.
Mi sento un granello di polvere.
Mi sento un fedele di fronte ad un dio, e se prima quel dio s'era dimenticato di me, neppure aveva la voglia, la pazienza di guardarmi, ora i suoi occhi sono fissi sui miei e il mio essere niente prende importanza, trovando nell'essergli devoto l'unico significato della mia esistenza.
Hai ragione, mamma, è attraente, vergognosamente attraente quanto il suo corpo sia più grosso del mio.
È un tale peccato che sia io ora a pensarlo e non più tu, no? Un tale peccato.
Mi dispiace.
Tu non te lo meritavi.
Io me lo merito, perché io ho molto più bisogno di lui di quanto tu non ne abbia mai avuto, e perché è la prima persona che vede me oltre te, me nonostante tu cerchi di adombrarmi anche in questo.
Vuole me, lui, non te.
Tu continua ad urlare che mi odi a qualche centinaio di metri, chiusa nella casa dove credevi sarei rimasto per chiederti scusa di essere vivo.
Sembra che il mondo mi abbia finalmente concesso un barlume di vendetta sulla vita miserabile che mi hai costretto a condurre.
– Kenma. –
Alzo lo sguardo.
I bordi delle mie labbra si sollevano in un sorriso.
– Ciao, Kuro. –
Arriva di fronte a me. China lo sguardo in modo quasi parodistico per schiantare gli occhi sui miei, tira su le braccia, appoggia le mani grandi sulle mie spalle.
– Come stai? –
– Prima non un granché. –
– E ora? –
Socchiudo gli occhi, lascio cadere la testa da un lato.
– Ora sto molto, molto meglio. –
Stringe le mani, io continuo a sorridere e l'aria attorno a me si scioglie, passando da quel banco denso d'ansia e disperazione ad una nuova versione di se stessa, più leggera, più calma, più... più respirabile.
Sai qual è il problema che ho con te?
Lo penso mentre ti guardo.
Lo penso mentre lascio scorrere le mie iridi sulle tue, sul loro colore ambrato, sul minuscolo riflesso di me che ci vedo dentro.
È che ne voglio sempre di più.
Ne voglio di più, Kuro.
Di più.
Io ne voglio sempre di più.
Mi stai facendo uscire di testa.
– Ti ha fatto del male? –
– Chi, la mamma? –
Annuisce.
– Hai detto che ti stava lanciando le cose. –
Scuoto il capo.
– Le lancia ma non mi prende. Sto benissimo. –
– Sicuro? –
– Sicurissimo. –
Non sembra fidarsi di quel che dico e miseria, quanto mi piace che non si fidi. Quanto mi piace che mi squadri per assicurarsi che io stia bene. Quanto mi piace che ancora non abbia tolto le mani da me.
– Hai pianto? –
– No. –
– Non hai pianto? –
Alzo le spalle.
– Per lei le lacrime le ho finite. E non saprei sinceramente per chi altro versarle. –
Sorride come se gli piacesse quello che gli ho detto. È un sorriso piccolo, storto, ma c'è e mi fa sentire apprezzato come quasi nulla ha mai fatto nella mia vita.
Sento una botta di coraggio colpirmi la cassa toracica.
Alzo le mani e gli prendo i polsi, li stacco da me. Scivolo con le mani sotto le sue, passo il pollice sulle falangi delle sue dita, guardo le lettere tatuate là sopra.
Ricordo questo tatuaggio perché credo sia il primo che ho notato sul suo corpo quando si è presentato a casa nostra qualche mese fa.
C'è scritto "born dead", una lettera per dito, in un carattere scuro e un po' arzigogolato che somiglia a quello dei vecchi codici medioevali.
– Nato morto, un po' come te, no? –
– Un po' come me, sì. –
Indugio con le mani sulle sue.
Indugio col contatto e indugio con lo sguardo, fisso ogni minuscolo dettaglio.
Non porta l'orologio ma c'è un braccialetto a catenella d'argento, sul suo polso, la pelle è ruvida, le nocche mostrano quella stellina tipica di ferite rimarginate sopra altre ferite rimarginate, porta sulla sinistra un anello di quelli semplici, sobri, giusto una banda di metallo nero che corre sul medio.
Ha delle belle mani.
Sono grandi, le vene compaiono in superficie, le cicatrici e i segni non riesco a non trovarli attraenti nella loro violenza.
Sono mani da cui mi farei toccare.
Da cui muoio dalla voglia di farmi toccare.
Incastro le mie dita fra le sue.
Sono così... piccole.
Così sottili.
Così...
– Allora, avevi detto che mi avresti portato a mangiare la torta di mele. Mi porti a mangiare la torta di mele? –
Quando tiro su lo sguardo per tornare a fissare la sua faccia invece che le sue mani, mi rendo conto che non ero l'unico ipnotizzato a guardarle.
Stacca gli occhi un istante dopo di me.
Sorride quando si rende conto che l'ho colto a fare la stessa cosa che stavo facendo io.
– Sì, ti porto. Ti va ancora? –
– Muoio dalla voglia. –
– Allora andiamo subito. –
Cammina all'indietro verso la moto di un paio di passi tirandomi con sé, senza separarci, quando è costretto a sciogliere le sue dita dalle mie non sembra farlo volentieri, anzi.
– Hai un'ora per cui devi essere a casa? –
– Che c'è, vuoi rapirmi per tutto il pomeriggio? –
Mi guarda fra le ciglia.
– Potrei. –
– Non direi di no. –
Si china e prende il casco.
Me lo porge.
Qualche istante dopo ha di nuovo le mani sulle mie, ad allacciarsele in vita prima di partire per andare chissà dove, lontano da qui, in un posto che non conosco ma che non riesco a pensare sia infinitamente migliore di questo dove non sono altro che il misero, infimo prodotto del disprezzo di mia madre.
La zona in cui vive Kuro, perché mi pare di ricordare mi avesse detto di abitare qui vicino, è un posto molto più bello di quanto non mi sarei aspettato.
Non voglio dire che sembra un delinquente, perché non lo sembra, però mi immaginavo il suo aspetto così minaccioso e turbolento più adatto ad un posto come lui, minaccioso e turbolento, invece che ad un quartiere residenziale che non mi pare niente meno di tranquillo.
Non c'è rumore, le persone in giro sono poche, le macchine parcheggiate sono ferme e l'unica cosa a squarciare il silenzio siamo io e Kuro che chiacchieriamo camminando verso il locale in fondo alla strada.
Mi sembra di essermi tolto dei pesi da dentro le tasche, di essermi tolto delle cavigliere di metallo. Cammino e le mie gambe mi paiono dieci chili più leggere, i movimenti più facili, tutto meno opprimente.
Mi tiene una mano sulla schiena, mentre camminiamo.
Non so perché lo faccia, non credo ci sia davvero un motivo, so solo che le sue dita si aprono sulla curva della mia spina dorsale con delicatezza.
Vorrei che mi stringesse di più.
Vorrei che strizzasse e tastasse, che prendesse la mia carne fra le mani e la toccasse come se fosse sua, perché potrebbe esserlo se mi dicesse di volerlo.
Vorrei...
– Hai qualche verifica a breve? –
Sbatto le palpebre, torno sul pianeta Terra.
– Scusami? –
– Hai qualche verifica a breve? Magari posso darti una mano, se devi studiare. So che non sembra ma ho fatto l'Università prima di entrare nell'esercito. –
– Oh, non lo sapevo. –
– Già. –
Mi sposto il più piano possibile verso di lui, giusto per sentire meglio il suo profumo e per godermi la sua presenza al mio fianco.
– Niente verifiche, da quanto ne so. Interrogano di matematica la prossima settimana ma sono già passato. Cos'è che hai fatto all'Università? –
– Chimica. –
– Davvero? –
– Ah-ah, non sembro un chimico? –
Rido piano, alzo le spalle.
– Non tanto. –
– Come mai? –
Prendo fiato con calma, stringo le labbra in una linea.
– Non lo so, i tatuaggi, il modo di fare. Sembri molto più un soldato cattivo che uno scienziato da laboratorio. –
– Tu dici? –
– Dico, dico. –
Muove il pollice sulla mia schiena come se volesse accarezzarmi oltre i vestiti, poi scivola con la mano verso il fianco, stringe piano.
Devo appellarmi a tutto il mio autocontrollo per evitare di ansimare.
Mi piace così tanto, il modo in cui mi tocca. Mi piace la delicatezza che avvolge la decisione con cui lo fa, la consapevolezza che se volesse chiuderle per davvero, le dita, potrebbe rompermi una costola, farmi male davvero.
– Io non sono un soldato cattivo, Kenma. –
Alzo lo sguardo verso di lui, allaccio le iridi con le sue.
– No? Sei un soldato bravo? –
– Non sono più un soldato. –
– Continui a sembrarlo. –
Intensifica appena la stretta.
Io sbatto le ciglia.
– E un po' anche ad esserlo, secondo me. Continui a sembrare uno che potrebbe farmi un sacco di brutte cose. –
– Tipo? –
Tipo...
Trattengo la mia immaginazione.
Le metto il cappio al collo e l'appendo dentro la mia testa, la guardo ballonzolare a destra e a sinistra finché non rimane ferma immobile uccisa, distrutta da me.
– Tipo uccidermi con una mano. Oppure rompermi un osso. –
Le sue pupille si dilatano appena.
Alza un lato della bocca.
– Perché mai dovrei farlo? –
– Non lo so, se ti facessi arrabbiare. –
– Tu non puoi farmi arrabbiare, Kenma. Tu sei troppo bravo per farlo. Sbaglio? –
Lascio cadere la testa verso il suo braccio. I miei capelli lo toccano appena, i miei occhi quasi faticano a mantenersi incollati verso l'alto, sui suoi, mi sento così indifeso e piccino sotto il suo sguardo che m'inchioda a terra.
– Non sbagli, Kuro. –
– Lo so. –
Non mi ero mai sentito così.
Mai.
Lo guardo e mi sento in un modo tutto nuovo, strano, sconosciuto.
Mi sembra che qualcuno mi stia scaldando la pelle da dentro, nello spazio fra la cute e i muscoli, mi sembra che il mio stomaco mi faccia il solletico, che il sangue si faccia immediatamente più fluido.
Non avevo mai incontrato qualcuno che mi facesse sentire come mi sento quando sono con te.
Non avevo mai incontrato qualcuno che mi desse così tanta...
Attenzione.
Merda.
Mi sta davvero dando alla testa.
Mi rimetto col collo dritto quando lo sposta la mano dalla mia schiena per infilarla nella tasca.
La prima intenzione è quella di chiedergli di rimettercela subito, ma quando lo vedo tirare fuori qualcosa dalla giacca m'incuriosisco e me ne dimentico.
Cos'è?
Sembra...
– È un Chupa-Chups? –
Lo è. Alla Coca-cola, stretto ancora nella carta che lo avvolge.
Perché diavolo ha...
– Se non fumo mi viene voglia di caramelle. È un problema? –
– No, certo che no. Scusa, non me lo aspettavo, solo questo. –
– Immagino. –
Sorride prima di portare la carta verso la bocca e stringerla fra i denti per strapparla. Infila la plastica in tasca, immerge il lecca-lecca fra le labbra, le stringe, la sua glottide si muove.
– Stai cercando di smettere di fumare? –
– No. –
– Allora perché non... –
– Non voglio fumarti davanti. Fa male. –
Sbatto le palpebre mentre l'informazione si sedimenta nella mia testa.
– Guarda che sono abbastanza grande per... –
– Non sei abbastanza grande. Fa male. –
Il cuore mi perde un battito.
È una cosa che potrebbe dire un... padre.
Rendermene conto mi genera due sensazioni completamente differenti.
Da una parte dentro di me fiorisce l'idea che qualcuno possa prendersi cura di me. Che a qualcuno interessi, che qualcuno mi protegga, che qualcuno mi stia dietro e mi copra le spalle.
Dall'altra...
Mi fermo, lui si ferma con me.
Mi sposto per poterlo guardare in faccia, tiro su il mento finché i miei occhi non sono allacciati ai suoi.
– È così che mi vedi? –
Aggrotta le sopracciglia.
– Eh? –
– Mi vedi solo come qualcuno che è troppo piccolo per fumargli davanti? –
– Kenma... –
– Mi vedi solo come un ragazzino? –
Nei suoi occhi riluce una vena di realizzazione, quando dico queste parole.
Chiude la bocca.
Lo vedo deglutire.
– Mi vedi come un fi.... –
– Ci provo. È quello che provo a fare, sì. –
Il sangue nelle mie vene si addensa, il respiro si cristallizza, mi ritrovo immobile.
– Provo a vederti come quello che sei, un ragazzino. –
Ci prova.
Dice che "ci prova".
Vorrei chiedergli...
Se poi, alla fine, ci riesce.
Se poi...
– Perché, come vorresti che ti vedessi, Kenma? –
– Come vedi lei. –
– Tua madre? –
Annuisco.
– Vorrei che mi vedessi come vedi mia madre. –
Prende il bastoncino del lecca-lecca fra le dita.
– Non credo sia saggio da parte tua chiedermi di farlo. Al momento non sono il più grande fan di tua madre del mondo, sai. A differenza di te, lei non mi piace. –
– Io ti piaccio? –
L'aria fra di noi è pesante. Giurerei di sentirla stratificarsi sulle mie spalle, di fronte al mio viso, diventare un banco denso di nebbia che separa i miei occhi dai suoi.
Kuro alza la mano libera.
L'appoggia sul mio viso, sulla mia guancia.
– Sì. –
– Ma ti piaccio come se fossi un ragazzino? –
– Te lo ripeto, Kenma. Tu sei un ragazzino. –
Io non sono...
– Lei ti piaceva, però. Ti è piaciuta. –
– Erano mesi fa. –
– Però è successo. –
Annuisce, sospira piano, non stacca di un millimetro gli occhi dai miei.
Ha le pupille così dilatate che il loro colore nero mi pare divorare l'ambra delle iridi.
– Non come una ragazzina. –
– Tua madre è un'adulta, Kenma. –
– Io no? –
S'irrigidisce.
Lo vedo.
Il suo corpo si tende sotto i muscoli, sotto i vestiti, la mascella si stringe e la mano sulla mia guancia si fa più decisa, più pesante.
C'è qualcosa che nascondi sotto tutta questa dolcezza, Kuro, non è vero?
C'è qualcosa di scuro, dentro di te, come il tuo nome, qualcosa di nero.
Tira fuori il lecca-lecca dalle labbra e m'indica con quello.
– Tu non sei un adulto. È la terza volta che te lo ripeto, Kenma. Tu sei un ragazzino. –
– Solo un ragazzino? Ai tuoi occhi sono solo un ragazzino? –
Non risponde.
Verbalmente, non risponde.
Ma col corpo mi pare farlo per un attimo.
Non le conosco, queste cose, io. Non lo so, quale reazione dovrei aspettarmi da lui, non ho mai fatto niente del genere, a parte recepire qualche brandello d'informazione dal comportamento di mia madre, non ho alcun termine di paragone.
Ma se dovessi indovinare...
No, Kuro.
La risposta è no.
La risposta è che ci stai provando, vedo che ci stai provando, ma non ce la fai.
Non sto ballando questo valzer da solo.
Siamo in due.
In una sala da ballo che cade a pezzi, sotto il soffitto che ci cade addosso, con le piastrelle che si sfaldano, ma in due.
Prende fiato per rispondermi, abbassa la mano col lecca-lecca proprio di fronte al mio viso e l'idea che mi compare nella mente nemmeno tento di ragionarla prima di metterla in pratica.
Apro la bocca.
Appoggio la lingua sotto la caramella.
Stringo le labbra, succhio e tiro indietro la testa finché il bastoncino non è più fra le sue dita ma stretto fra i miei denti.
– Io non sono un ragazzino, Kuro. Sono grande. –
Non riesce a parlare.
Mi fissa.
Mi fissa così intensamente che temo potrebbe scottarmi col calore penetrante dei suoi occhi.
– Grande abbastanza per... –
Per...
Per te.
Perché tu mi veda come vedevi lei.
Perché tu mi prenda in considerazione.
Perché tu smetta di fingere di essere solo una persona dolce e premurosa e mi faccia vedere cosa si nasconde sotto alla tua facciata, sotto al tuo controllo, al tuo trattenerti.
Non ho paura di te.
Dovrei averne?
Dovrei, Kuro?
Io...
Sorrido.
Succhio di nuovo il lecca-lecca e lo lascio muovere nella mia bocca spostandolo con la lingua.
– Mmh, è buono. Non credevo fosse così buono. –
Continua a rimanere zitto.
Fermo immobile e zitto, con le dita ancora aperte sul mio volto, gli occhi incastrati nei miei.
Fallo, Kuro.
Fai quello che stai pensando.
Smetti di trattenerti, avanti.
Prenditi quello che vuoi.
Cos'è che vuoi da me, eh?
Lo sappiamo tutti e due che non è vero, che ai tuoi occhi non sono niente di più di un ragazzino. Lo sappiamo tutti e due che sotto tutte le tue belle parole si nasconde qualcosa di più torbido, più sbagliato, che vuoi fare ma ti imponi di tenerti per te.
Io sono qui.
Qui per te.
Qui per...
Scioglie i muscoli, lascia cadere la mano lungo il fianco e ride piano.
– Potevi dirmelo che ne volevi uno, ne ho un altro in tasca. – scherza.
Tutta la tensione, con mio enorme fastidio, si scioglie, le sue parole riportano l'aria ad una dimensione più leggera, più calma, e la scarica elettrica che ci collegava scompare.
Spalanco gli occhi.
– Eh? –
– Te l'avrei dato. Non c'era bisogno di rubarmi il mio. –
Oh, questo stronzo.
Maledetto, stupido stronzo.
Sei...
– Dai, su, non dovevamo mangiare la torta di mele, io e te? Che ci facciamo qui fermi per strada? –
Sento il sangue irrorarmi le guance, il calore spandersi sul mio viso.
Non so che dire.
Non so che...
Sporgo il labbro in un broncio e stringo le braccia al petto, mi allontano di un passo e mi giro verso il locale.
Cammino senza dire niente.
Imbarazzato dall'aver provato a fare qualcosa che palesemente non avrei dovuto nemmeno pensare, destabilizzato dal suo cambiamento così repentino e...
Non dovevo, cazzo, non dovevo.
Gli sono sembrato ridicolo?
Riderà di me?
Ora non mi porterà più da nessuna parte?
Merda.
'Fanculo.
E io che per una volta volevo...
Quando mi stringe il collo da dietro, la presa non ha niente della dolcezza che un secondo fa stava provando a comunicare.
È una morsa che scende verso le spalle, serrata e spaventosa, un indizio di violenza che sinceramente credevo di non potermi aspettare.
Mi fermo subito.
Come un gatto preso dalla collottola, mi fermo immediatamente, le mie articolazioni si rilassano, il corpo mi pare diventarmi di gomma.
Sento il suo respiro colpirmi un orecchio, il suo viso appoggiarsi sopra una delle mie spalle.
– Non fare cose di cui non ti piacerebbero le conseguenze, Kenma. Non giocare col fuoco. –
Non...
Apro la bocca.
Prima che possa dire qualsiasi cosa, la sua voce taglia la testa alla mia.
– Ci sono cose che non devi sapere. Non chiederle, perché non voglio che tu le sappia. –
Ci sono cose che...
– Non cercare qualcosa che non vuoi trovare. –
La mia gola s'inaridisce. Nonostante la caramella, la mia bocca mi sembra riempirsi in un istante di sabbia.
– Ci sono posti da cui non puoi più uscire dopo esserci entrato. Non entrarci. Non ti piacerebbe niente di quel che c'è dentro. –
Un brivido mi corre lungo tutta la spina dorsale.
È terrore.
So che è terrore.
Ma non è solo terrore.
È anche...
Provo a dirglielo.
Provo con tutte le mie forze ad impormi di girare la faccia, aprire la bocca e usare la voce per dirgli che non può saperlo, che a me non piacerebbe, che non può sapere cosa io voglia o non voglia fare.
Ma come intravedo un barlume dei suoi occhi, desisto.
È spaventoso.
M'intimorisce.
Non... ho il coraggio.
E mentre tremo di paura a vedere anche solo uno stralcio, una briciola di quello che è davvero Kuroo Tetsurō, lui torna quello di prima come se non fosse successo niente, perde lo sguardo violento, la rigidità delle mani, la violenza e si stira la schiena al mio fianco.
– Allora, andiamo o no? –
Le mie gambe si muovono senza che io lo decida.
– Andia... andiamo. – sussurro.
Ricomincia a camminare.
Lo faccio anch'io.
Con un pensiero fisso e turbolento che inizia a costruirsi nella mia testa che non sa distinguere bene ciò che non devo volere e ciò che inizio a bramare come se fosse l'unica boccata d'aria di un naufrago che sta annegando.
Ritorno alla vita reale, respirando senza ansimare e con le ginocchia che riprendono stabilità, che sono seduto sul divanetto di un bar con una fetta di torta davanti grande quanto la mia faccia.
Ho meno freddo di prima, le gambe tirate su e incrociate sotto al sedere, le maniche della felpa non mi cadono sulle dita e i capelli mi scivolano di fronte alla faccia.
Mi scuoto dal mio torpore.
Torno sul mio pianeta.
Ricomincio a respirare.
– Vuoi un elastico? Così non ti mangi i capelli. –
Alzo lo sguardo.
Sì, sì, sì, eccomi, ci sono. Sono ancora con lui. Siamo entrati e ha ordinato per me, mi ha fatto sedere, mi ha portato qui, credo abbia anche già pagato.
Sono vivo, sto bene.
Sono riemerso dalla fossa in cui aveva tentato di seppellirmi vivo.
– Oh, sì, mi faresti un piacere. –
– È sul polso, prendilo. –
– Ok, arrivo. –
Allunga il braccio oltre il tavolo, io lo prendo con una mano e con l'altra sfilo la banda scura che gli corre attorno.
Non mi faccio una coda, li lego alla bell'e'meglio giusto per togliermeli via dalla faccia.
Mi guarda farlo, la sua espressione è decisamente indecifrabile.
Torno alla torta prima che il mio cervello partorisca qualche altra idea malsana.
Mi rendo conto solo ora di quanto avessi fame.
Effettivamente sono uscito da scuola per tornare a casa e pranzare, ma con la scenata di mia madre in corso non ho avuto modo di farlo.
Stacco un pezzo generoso del dolce col cucchiaino e lo porto alla bocca.
È...
Mi piazzo una mano di fronte alle labbra.
– Merda, è buonissima! –
Kuro ride piano.
– Ti piace? –
– Un sacco, un sacco. –
– Sono felice che ti piaccia, Kenma. –
Non perdo tempo e ne prendo un altro pezzo. Lo taglio e lo carico sulla superficie metallica, ma prima che possa mangiarlo, una mano molto più grossa delle mie mi ferma.
– La crema. Mettici sopra la crema. –
– La crema? –
Mi porge una coppetta piena fino all'orlo.
– Mh-mh, è più buona ancora. –
– Oh, ok, allora... –
Aspetto che sia lui a prenderla e a scaricarne una bella porzione sopra il mio pezzo di torta. Poi mi lascia andare la mano e posso mangiare.
È...
– Potrei mettermi a piangere. – borbotto, con la bocca ancora piena, mentre mando giù.
Guardo il dolce.
– Potrei sul serio mettermi a piangere. Non sto scherzando, sto per... –
– Mangia, prima di piangere, scemo. –
– Non darmi dello scemo! È davvero la cosa più buona che io abbia mai mangiato! –
Guardo Kuro.
Non è che dica nulla, ma si vede che nonostante il silenzio che esprime, ci sia gioia nei suoi occhi.
Nessuna traccia di quella pozza scura e densa di violenza e terrore, solo... qualcosa di molto più tranquillo e leggero.
Nonostante qualcosa dentro di me cerchi quel qualcosa dentro di lui anche ora, anche adesso, sempre, devo ammettere che non è male nemmeno questo.
Non è male per niente.
Mangio una terza cucchiaiata.
Non riesco proprio a reprimerlo, quel gemito di pura soddisfazione che mi rotola via dalla gola quando il sapore così delizioso si spande nella mia bocca.
Non che ci provi.
Alla quarta sento Kuro ridere.
– Ti piace davvero così tanto? La stai divorando. –
Annuisco.
– Non ho pranzato e questo è cibo degli dei. Non giudicarmi. –
– Non hai pranzato? –
Scatto con gli occhi sui suoi.
Il suo tono era...
– Mia madre non mi paga la mensa, mangio a casa. Oggi capirai anche tu che sarebbe stato un po'... complicato. No? –
La sua espressione s'arruffa.
– Non mangi mai quando litigate? –
– Mangio dopo. Quando va a dormire. –
– Ceni e basta? –
Alzo le spalle.
– Qualche volta. –
Si sporge verso di me col corpo, vedo proprio le sue spalle piegarsi dalla mia parte del tavolo, la sua presenza incombe su di me anche se è seduto ad un metro di distanza.
– Devi mangiare, Kenma. Non ti fa bene stare a digiuno. Ti rendi conto che devi mangiare, vero? –
– Sì che me ne rendo conto, ma non credo che... –
– Non c'è nessun "ma". Devi mangiare. –
Mando giù il boccone e mi pare farsi strada nel mio esofago un po' più pesante di quello precedente.
– Mangio, mangio. Non è che sono denutrito. Giuro che mangio. –
– Se tua madre non ti fa mangiare mi chiami e te ci porto io. Ma devi mangiare. Non ci posso credere che non ti fa nemmeno mangiare. –
Rimango fermo per un attimo.
Mi brucia qualcosa dentro.
Mi brucia proprio.
Lo voglio.
Mio.
Ti voglio per me.
Mio, Kuro. Mio, mio, cazzo, io voglio che tu...
– Mi porti tu? –
Annuisce.
– Ovviamente. –
Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo.
Tu...
Prendo un altro pezzo di torta. Non lo mangio ma lo taglio, lo guardo là sulla superficie della ceramica chiara osservarmi di rimando.
Tu dici che non devo volere cose che poi non saprò gestire una volta ottenute.
Ma tu lo sai che potrei dirti la stessa cosa?
Il gattino randagio torna a chiedere da mangiare se gli riempi una ciotola per pena una volta, Kuro. Il gattino randagio miagola sotto la tua porta per chiederti altra premura, se gliene dimostri un briciolo un solo istante della tua vita.
Tu sai quel che fai?
Sei sicuro di sapere quel che fai?
Perché io...
– Grazie, Kuro. –
– Non ringraziarmi. –
– Vorrei farlo anche se non vuoi. –
Riporto lo sguardo sul suo con una lentezza straziante.
Brucia, brucia tutto dentro di me, Kuro.
Brucia.
Fa male, quasi.
Fai andare via questo dolore.
Fallo andare via.
Ti prego, ti prego, ti...
– Ora continua a mangiare. E prendi anche la mia. – sentenzia, allungando verso di me il suo piattino che non aveva ancora nemmeno toccato.
– Ma... –
– Non era una domanda. –
Chino la testa.
– Ok. –
– Bravo. –
Ricomincio a mangiare.
Cerco di prendere fiato e continuare la conversazione senza impazzire.
– Tu non hai fame? –
– Non particolarmente e i dolci non sono tanto la mia roba. –
– Non ti piacciono? –
Scuote la testa.
– Diciamo più che dopo un po' nell'Esercito ti disabitui al sapore. Non è che ti diano il dolce, quando sei in missione. –
– Sei stato tanto? –
– Sei anni. –
– Ora? –
Si porta la mano verso il collo. Scivola con le dita sulla catenella delle piastrine, ne raggiunge una e passa il polpastrello sulle lettere a rilievo.
Seguo il suo movimento mentre mastico.
– Ho lasciato. –
– Come mai? –
– Congedato. –
La mia curiosità ha la meglio sulla regola sociale di farsi i cazzi propri.
– Ti sei fatto male? –
– No, quello è congedo con onore. –
– E tu... –
Stringe il metallo tanto che potrebbe piegarlo.
– Congedato con disonore. Ma non è una bella storia. Facciamo che te la risparmio, ok? –
Congedato con disonore?
Nel senso che ha fatto qualcosa che...
Oh, sì, in quel senso.
Ha fatto qualcosa di male.
Ha fatto...
– Come vuoi. Non volevo farmi gli affari tuoi, scusami. –
– Nessun problema. Se non avessi voluto dirtelo non te l'avrei detto. –
– Tu cosa vuoi fare dopo il liceo? –
I miei occhi si spalancano.
– Io? –
– Non vedo altri liceali qui, quindi direi di sì, Kenma. –
– Oh, io... –
Io voglio...
– In realtà non lo so. Non ci ho davvero mai pensato. Non so nemmeno se sono bravo in qualcosa, a dirla tutta. –
Lo dico con una desolazione così disarmante che mi sento fuori posto persino io che la penso, questa cosa.
È che...
– In che senso non lo sai? Non c'è qualcosa che a scuola... –
– No. Non è che mi venga bene qualcosa. Mi viene tutto allo stesso modo. –
– E non c'è nulla che ti piace? –
Prendo fiato con calma.
– Non... non ne ho idea. –
È che io non faccio niente. E non facendo niente non so nemmeno se...
– Leggere? –
– Mia madre non mi compra i libri. Dice che non abbiamo i soldi. –
– La musica, magari? –
– Sì, mi piace, ma come piace a chiunque altro. Non è che sono proprio un appassionato. –
– Scrivere? –
– Non ci ho mai provato. –
Mi guarda e scuote la testa.
– Non è possibile. No, no, ci dev'essere qualcosa che... un attimo. C'era qualcosa che ti piaceva quando stavo con tua madre. Mi ricordo che a cena scappavi sempre per... giocare a qualcosa? –
Alzo le sopracciglia.
– Intendi ai videogiochi? Beh, sì, ma era solo un giochino sul telefono e non mi definirei esattamente bravo, diciamo solo che mi diverti... –
– Ho la Playstation 5 a casa. L'ho comprata per giocare con un mio amico ma sinceramente non la uso mai. Dovrei avere anche qualche gioco. La vuoi? –
Il cucchiaino mi cade dalle mani.
Tintinna contro il tavolo.
Devo tirarla coscientemente su per masticare e inghiottire, la mascella, perché s'era aperta come se qualcuno avesse sganciato di colpo l'articolazione.
– Ma lo sai quanto costa una Playstation 5, Kuro? Ma sei pazzo? –
– Non la uso. È sprecata là solo per me. –
– Ho capito, ma non credo che... –
– Ti ci divertiresti molto più tu di me. Magari scopriresti di avere una passione. –
Scuoto la testa.
– Sì, ma non posso... –
– Certo che puoi. Se dico che puoi è perché penso che tu possa. –
– Ma se mia madre mi vede tornare a casa con una Playstation 5 mi uccide. –
– Perché dovrebbe farlo? È un regalo. –
– E se mi chiede chi me l'ha regalata cosa le rispondo? Lo sa anche lei che non ho amici e di certo non posso dirle che me l'hai regalata tu. –
– Dille che te l'ha regalata qualcuno che conosci. Che te la sei fatta comprare da un amico, che ne so. –
Lo guardo sbigottito.
È pazzo.
È palesemente...
– Conoscendola, se le dicessi una cosa del genere, penserebbe che sono andato per strada a farmi scopare per soldi, Kuro. –
L'entusiasmo nel suo viso scompare.
Il sorriso, scompare.
Rimane...
– Cos'hai detto? –
– Ho detto che conoscendola penserebbe che... –
– Che cosa cazzo hai detto di te stesso, Kenma? –
Oh.
Sembra...
– Non dire una cosa del genere nemmeno per scherzo. Non dirlo, ok? Non dirlo. –
– Stavo... non dicevo sul serio, io... –
– Non dirlo e basta. –
Perfettamente calmo e perfettamente incazzato allo stesso tempo.
Un pugnale, un coltello, un serramanico. Una lama che sta ferma ma che potrebbe tagliarti da parte a parte in un secondo, una ferita in potenza che non c'è, ma forse, fra un'ora, un minuto, un secondo, potrebbe essere qui.
– Non dire queste cose così brutte su di te. Non te le meriti. Non... non farlo, Kenma. –
Mi prende una mano sul tavolo.
Stringe le mie dita e le stringe forte.
Mi fa quasi male.
Mi fa... mi fa quasi male.
– Allora, lo ridirai? –
– Sei arrabbiato con me? –
Scuote la testa.
– No, certo che no. Solo non mi piace quando parli di te stesso così. Perché, dovrebbe piacermi? –
– Non lo... –
– Dimmi che non lo ridirai più. –
Deglutisco quel poco di saliva che ancora ho addensato in bocca.
– Non lo ridico più. Ti prometto che... –
– Bravo, Kenma. Bravo. Bravo. E ora... –
La stretta si fa più morbida.
– Se proprio non vuoi che te la regali puoi sempre venire a casa mia a giocarci, no? Ti piacerebbe? –
– Mi pia... sì, mi piacerebbe. Mi... –
– Bene. Perfetto. –
Chino lo sguardo verso il mio piatto.
Cosa sta...
Perché mi sento così...
Ride appena.
Lo sento ridere.
Poi si sporge.
Mi accarezza una guancia.
– Va tutto bene, Kenma? –
– Oh, sì, va tutto... –
– Allora ricomincia a mangiare. E non preoccuparti, va tutto bene. Tutto, tutto bene. –
– Ok. –
Non faccio in tempo a riprendere le posate in mano che lo sento accarezzarmi di nuovo il viso.
– Credevi che fossi arrabbiato con te? –
– Per un attimo mi sei sembrato un po' strano. –
– Mh, è così? –
Tira fuori dalla crocchia montata su distrattamente una ciocca sottile di capelli. La stringe fra i polpastrelli, la tasta e ne saggia la consistenza.
– È solo che mi dà fastidio sentirti dire cose come quella. Sono volgari. –
– Non ti piace che sia volgare? –
– Non in quel modo. Non riferendoti in quel modo a te stesso. –
Annuisco.
– Ok, ok, ho capito. –
Apro le labbra.
Mangio il boccone che ho tagliato con le mani tremanti un secondo fa.
– Se anche mi arrabbiassi con te non ti farei niente, lo sai, questo, vero? Non a te. –
– Niente niente? –
Scuote la testa.
– Niente. –
Ok.
Ha detto che non mi fa niente.
Ha detto che...
La verità è che non ho idea di cosa io stai provando in questo istante. La verità è che non ne ho la minima, minuscola idea.
Non lo so.
Io...
Io non lo so.
Sono felice, so di esserlo, perché sono qui con lui e mi ha comprato della torta di mele e mi ascolta quando parlo. Sono incuriosito, perché quest'uomo è un mistero, sono colpito, perché è bello, bello in ogni cosa faccia, sono frustrato perché pare non volermi vedere come nulla di più del figlio della sua ex, sono spaventato dalle sue reazioni così immediate, sono soddisfatto dalla premura con cui si comporta con me.
Sono tante, tante cose da essere nei confronti di una persona sola nel giro di poche ore.
E se dovessi dire cos'è che tiro fuori da questa matassa inestricabile di tessuti così diversi fra loro, direi che...
So solo che qualsiasi filo io stia seguendo nel labirinto che è la sua persona, il suo cervello, mi sta sicuramente portando verso il centro, verso la stanza segreta, verso il Minotauro.
Mi sta portando verso la bestia.
Voglio vederla?
O voglio solo godermi quel che c'è attorno?
Cosa voglio...
Sì che voglio vederla.
E voglio vedere anche il resto.
E voglio tenermelo per me.
È mio.
Tutto mio.
Maledettamente, inevitabilmente, infinitamente mio.
Tutto...
– Quindi posso venire da te a giocare alla Playstation? – cambio argomento, perdendo qualsiasi timore avessi un secondo fa.
Ha detto che non mi fa niente.
Mi fido.
Non c'è bisogno di mettersi sulla difensiva.
Ci pensa lui, a me.
– Certo, quando vuoi. Dopo prima di tornare ti faccio vedere dove abito, vieni quando vuoi, senza nessun problema. –
Annuisco.
– Grazie. È una cosa davvero carina, da parte tua. –
– E di che. Mi fa piacere, anzi. –
Batto con le unghie sul legno del tavolo e finisco la mia torta.
Mando giù con soddisfazione, poi sposto il mio piatto di lato.
– Posso anche venire coi compiti, no? Hai detto che mi avresti... –
– Dato una mano, sì, certo. Se vuoi venire a fare i compiti e a giocare un po' per me va benissimo. –
Sorrido.
Lo vedo spingermi il suo piatto ancora pieno sotto al naso.
In un posto da solo con me, Kuro? Vuoi stare in un posto da solo con me, a casa tua da solo con me?
Dovrei dire di no perché non è sicuro.
Chiunque, se posto di fronte ad una scelta del genere, se invitato a casa di qualcuno che conosce poco, di undici anni più grande, precedente fidanzato della propria madre, direbbe di no.
È una di quelle cose che leggi nei trafiletti della cronaca nera e di cui pensi "ma come ha potuto fidarsi, era palese che ci fosse qualcosa sotto".
Ma...
Se volessi farmi qualcosa, qualsiasi cosa, a me andrebbe bene.
È questo il punto.
Se avessi davvero un secondo fine, se t'interessassi in un modo molto più torbido di quel che dai a vedere, io non protesterei.
Dopotutto non è quello che voglio io?
Se uno dei due dovesse essere quello losco dei due, sarei io, e ne sono convinto.
Tu...
La mamma si lagnava sempre che non l'hai mai portata a casa tua.
Diceva che le piacevi, sì, ma che le sembrava che lei non piacesse a te abbastanza da aprirti, da lasciarle un posto nella sua vita.
Ma a me lo lasci, non è vero?
Io a casa tua ci posso venire.
A me porti in giro.
A me rispondi a qualsiasi ora del giorno, di me t'importa.
No, no, non voglio che tu mi veda come vedi lei, ora che ci penso mi rendo conto di quanto ridicola fosse la mia pretesa.
Non voglio essere per te com'era lei, un passatempo, un giocattolo da gettare via.
Voglio essere molto, molto di più.
Devo solo convincerti che sono qualcuno da cui puoi volere qualsiasi cosa tu voglia.
Devo solo farti capire che puoi pensare quei pensieri che pensi possano spaventarmi così tanto.
– Nessun mio amico mi ha mai invitato a casa sua. – dico, con un filo di voce, non so nemmeno io perché.
Kuro stringe le sopracciglia fra loro, l'inizio di entrambe sale e si avvicina sulla sua fronte.
– Mai? –
– No. –
– Nemmeno una fidanzata? O un fidanzato, o qualsiasi cosa ti piaccia. –
Scuoto la testa.
– Mai avuto uno, quello è proprio un territorio inesplorato. –
– Davvero? –
Cerco qualcosa nei suoi occhi che non so se riesco a trovare o meno.
– Sì. Mai. –
– Oh. –
Oh, sì che l'ho trovato.
Lo vedo.
C'è qualcosa che ti ribolle dentro, lo riconosco dai tuoi occhi, dal tuo sguardo, da quanto intenso sia nonostante tu cerchi di mascherarlo.
Non te l'aspettavi, questa risposta, me ne rendo conto.
Ma c'è così tanto interesse dentro di te che non riesco a fare a meno di pensare che sperassi di sentirla.
– Non ho nemmeno mai dato il mio primo bacio. Niente, zero. –
Lecco il cucchiaino sporco di crema e mando giù un po' più rumorosamente di quanto non sia necessario.
– Non mi ha mai toccato nessuno. –
– Nessuno? –
– Nessuno. – confermo.
Quando guardo Kuro, è come se ne vedessi due, di entità, di fronte ai miei occhi. Non so spiegare come riesco a distinguerle, è più un'impressione.
Però vedo due reazioni diverse e vedo due risposte diverse.
C'è Kuro l'ex fidanzato di mia madre, l'uomo gentile che cerca di darmi una mano a rendere la mia vita un'esperienza giusto un pelo meno traumatica, che mi viene a prendere e mi accarezza il viso per farmi sentire al sicuro, che mi chiede come sto e se devo fare qualche verifica a breve. Quel Kuro ascolta e comprende, annuisce, nulla di più.
Poi c'è l'altro.
Poi c'è Kuro quello a cui si dilatano le pupille quando lo tocco, quello che mi stringe le mani fino a farmi male quando parlo male di me stesso, quello che mi prende dal collo per minacciarmi di farmi i cazzi miei prima di uscire allo scoperto, quello che mi compra le cose solo per ricevere una foto in cambio, quello che non è un uomo corretto, più una bestia che segue l'odore acre del sangue.
Quel Kuro mi guarda e si gode la consapevolezza che sono una preda che nessun altro ha mai toccato.
Mi guarda come se non vedesse l'ora di affondare le zanne sul mio corpicino tenero e indifeso. Come se fossi una gazzella di qualche mese, con le zampe ancora dinoccolate dalla giovinezza, che si abbevera sperando che nessun predatore la stia guardando.
Le pantere mangiano anche le carcasse.
Ma non si può comparare un corpo morto con il gusto catartico di serrare i denti fra la carne giovane e tenera di un animale vivo, di un animale che il mondo l'ha visto da poco.
Quello che quel Kuro forse non sa è che se mi attaccasse, non scapperei. Se scoprisse i canini, io tenderei il collo per offrirgli tutto l'accesso che cerca.
Cos'è una preda senza un predatore?
Che senso ha la vita di una preda, se non c'è un predatore a cacciarla?
Mi dai un senso.
Ti prego, dammi un senso.
Ti prego, fammi vedere la belva dietro il tuo sguardo.
Voglio che mi uccida.
Voglio che mi divori.
Voglio che banchetti col mio corpo morto e che si bagni la bocca del mio sangue, voglio che mi strappi brandelli di carne con le zanne, che inghiotta ogni angolo di me e pensi che sono la cosa più deliziosa che ha mai mangiato.
Voglio che mi voglia così tanto da mandarmi giù senza nemmeno masticarmi.
Voglio che brami il mio sapore per sempre dopo avermi ripulito fino all'osso.
Voglio che difenda quel che rimane di me da qualsiasi altro predatore.
Voglio...
Io voglio...
– La prossima volta andiamo a mangiare qualcosa che piace anche a te, però, mangiare così da solo è un po' imbarazzante. – scherzo.
Kuro annuisce.
– Va bene. Pensavo che ti andasse la torta di mele, ma se vuoi che mangiamo insieme possiamo anche cambiare posto. –
– Mh-mh. Sarebbe carino. –
Batto sul fondo del piatto col cucchiaino.
– Cos'è che ti piace mangiare? –
Sorride.
Si vede un barlume dei suoi denti, quando sorride.
Giusto un riflesso chiaro.
Mi si avvicina col busto, mi guarda negli occhi, piega appena la testa di lato.
– A me? –
– No, a quello dietro. –
Ridacchia.
Prende fiato con calma.
Mi fa sentire minuscolo, mi fa sentire insignificante, mi fa sentire bloccato in un angolo, senza via di fuga, impossibilitato a scappare, quando mi guarda.
Dio solo sa quanto mi piaccia.
Quanto mi piaccia tu.
Quanto mi piaccia...
– A me piace... –
Spalanco gli occhi come fanali, guardo in faccia la morte di fronte a me.
La paura è così dolce.
Così piacevole.
Ho paura, so di avere paura.
Ma è una paura che mi fa sentire soffice e morbido, che mi fa sentire paradossalmente al sicuro, che mi fa sentire protetto.
– La carne. –
Avere paura di te è l'emozione più forte che io abbia mai provato, la più bella, la più coinvolgente.
Lo sai perché?
Perché guardandoti non ho dubbi che mi ucciderai.
Perché guardandoti so cosa aspettarmi.
E se l'indecisione costante di mia madre, il suo essere ogni giorno diversa mi ha crocifisso tutta la vita, tu sei sicuro, tu sei chiaro, tu sei palese.
So chi sei.
Per questo vorrei che mi mangiassi.
Perché io ti guardo e so chi sei.
– A me piace mangiare la carne, Kenma. –
continua ⇘
OK CIAO AMICI
ECCOMI
ANCHE OGGI LA MIA DOSE DI tossicità GIORNALIERA AAAAAAAAAA ok sono felice quanto mi piace scrivere le cose tossiche lo sa solo il buon signore lassù
niente vi chiedo se vi sia piaciuto
se volete già smettere di seguirmi
se volete mandarmi ad un tso
e niente che ci vediamo la prossima settimana con scottish sithe e che vi mando un bacio e che se PENSATE CHE QUESTA ROBA DIVENTI meno tossica OH NO AMICI STOCAZZO E STOCAZZONE THIS GONNA BE THE WEIRDEST MOST OBSCENE THING ive ever written
no forse teacher's pet la batte
non lo so
boh vediamo alla fine
un bacio amici <3
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