𝘪 𝘴𝘢𝘪𝘥 𝘵𝘰𝘰 𝘮𝘶𝘤𝘩, 𝘪𝘵 𝘰𝘷𝘦𝘳𝘧𝘭𝘰𝘸𝘦𝘥
!!! questo capitolo contiene smut ma non solo contiene smut contiene smut strano nel senso che è piuttosto crudo e non è dolce e mi azzarderei a dire che se i personaggi non fossero questo kuro e questo kenma potrebbe persino sembrare violenza quindi per favore se siete sensibili al tema skippate questo capitolo. ah, ci sono anche continue menzioni di sangue e di violenza fisica. inoltre siccome a quanto pare alla mia mente bacata non sembrava abbastanza, c'è una sovrapposizione fra il personaggio di kenma e quello della madre che sotto certi punti di vista potrebbe essere disturbante (la dinamica non è incestuosa, ma è effettivamente un po' bordeline). !!!
!!! c'è un riferimento ad uno specifico passo della genesi [19:1-11], [19:30-38], quello delle figlie di lot. in breve, per chi non lo conoscesse, due angeli si rifugiano a sodoma nella casa di lot e quando la folla inferocita va da lot chiedendogli di poter abusare degli angeli suoi ospiti, lui offre al loro posto le figlie. la conclusione è che gli angeli permettono la fuga alla famiglia di lot per ringraziarlo del gesto, ma io mi riferisco in questo contesto solo all'offerta del padre. c'è successivamente un'altra menzione nella quale viene raccontato che le figlie di lot, morti i mariti, abbiano fatto ubriacare il padre per poi unirsi a lui sessualmente. !!!
continua ⇘
Il retro delle mie cosce giace adagiato sul tessuto morbido delle lenzuola del letto della mamma. Le punte dei miei piedi sfiorano appena il pavimento, la luce è aperta e chiara, entra e sventra dalle finestre aperte, di fronte a me la mia condanna mi guarda col viso che odio e che porto nonostante questo.
Questa stanza è piena di specchi.
C'è l'armadio a fianco della porta, quello che fronteggia il letto, dove la superficie riflettente copre il legno delle ante, ce n'è uno a figura intera accanto al comodino, un altro tondo e appeso al muro, immagini e immagini che si spostano in angoli dove la solitudine gridava così forte da instillarle il bisogno di farsi quantomeno compagnia da sola.
Osservo i miei stessi occhi e osservo lei in me, rimango fermo e immobile nell'aria placida della mattina, vedo me e lei e noi che siamo la stessa cosa, che veniamo dallo stesso posto, che siamo la costola e il frutto, la vena e il sangue, il parto e il figlio.
Figlia di Lot, io, gettata al macello per proteggere gli angeli, lasciata come carne putrescente a far da scudo a qualcosa di più sacro, di più santo, migliore. Figlia di Lot, io, infida serpe che s'unisce col padre nei fumi dell'alcol, figlia di Lot, io, creatura di Sodoma, utile a conservare ciò che c'è di puro ma troppo gravemente intossicata dalla polvere che la città m'ha fatto respirare per rifiutare d'essere marcia e sporca come ogni altro abitante di questo posto infernale.
Ce l'ho mai avuta una speranza, mamma?
Ce l'ho mai avuta, una scelta?
Guardami, da quello specchio che mi restituisce me e te, guardami dentro, nella carne, nelle ossa, nel muoversi disperato dei miei organi che lottano per tenermi in vita.
Ce l'ho mai avuta, io, una possibilità sincera di ricevere il tuo amore?
E quando neghi, quando scuoti il capo rivelandomi che no, io questo lusso non l'ho mai meritato, chi guardi, a chi parli, chi rifiuti?
Me?
O te stessa?
Perché io fatico, in quest'istante, a comprendere chi sia me e chi sia te, mamma.
Fisso le iridi chiare sulla figura che mi sta di fronte e non so chi c'è là dentro, impresso e marchiato.
Chi è che detesto tanto disperatamente da condannarlo all'esecuzione che si compirà fra queste quattro mura?
Detesto te?
Detesto me?
Siamo mai stati qualcosa di diverso, mamma?
Siamo mai stati separati, io e te?
C'è stato un istante, uno solo, in cui strappato via dal tuo corpo che ha respirato per me, mangiato per me, vissuto per me nel miracolo incomprensibile della genesi, io e te siamo stati entità diverse e differenti?
Io attraverso questo mondo col capo chino sotto il peso dei tuoi peccati, ma tu lo calchi col ventre rimarginato dallo squarcio che ha permesso a me di esistere, e siamo forse staccati, siamo forse distinti, siamo forse indipendenti l'uno dall'odio dell'altra?
Mamma.
Madre.
Gli permetterò la violenza perché necessito di guardare nei suoi occhi il mio esserti estraneo?
Gli permetterò la violenza perché spero che invece attraverso me la faccia a te?
Dopotutto non è quel che è già successo?
Ha concesso delicatezza a te e attraverso te ha concesso delicatezza a me.
E allora mangiasse me, attraverso me, mangerà te?
In quest'ossario di troppe scelte fatte male, in questo ammasso di macerie di vite rovinate e rovinanti che prende forma nel pallido tentativo di imitare una casa indefinibile tale per la freddezza che invece di rifuggire suggerisce, io chi sto offrendo al sacrificio?
Oh, mamma, quanto vorrei poter amare quella figura riflessa nello specchio, quanto vorrei amare te e me, albero con le radici immerse nella cenere e frutto intriso dell'acre sapore del veleno.
Ma alla fine, non posso, e non posso perché...
Figlia di Lot, io, esposta alla furia della folla per concedere la fuga di chi dopo avermi generato ha visto in me solo carne inaspettatamente capace di parlare, figlia di Lot, io, vittima di quella carne e fautrice della sua stessa decadenza.
Sei tu forse Lot?
Sei l'angelo?
Sei la folla?
No, nessuna di queste tre cose.
Lot è la sorte che pende su entrambe le nostre teste rotte assieme, l'angelo fuggito quel che forse in un'altra vita, in un'altra prospettiva, saremmo potuti essere, la folla il mostro che busserà alla porta e che io farò entrare concedendogli di cibarsi di quel che di buono rimane in me.
Tu sei mia sorella.
Figlia di Lot, tu, che cerca negli sguardi delle sue pari comprensione e riceve solo l'acida sensazione che nella morte siamo tutti da soli, figlia di Lot, tu, condannata al mio stesso destino e nonostante questa anelante di subire rispetto a me una fine più rapida, figlia di Lot, tu, sorella finché l'odio ha impedito ad entrambe di ricordare cosa fosse, una sorella.
Ti odio, mamma, ma non ti odio perché sei mia mamma.
Mi odi, mamma, ma non mi odi perché sei mia mamma.
Ci odiamo, ma nessuno dei due sa cosa voglia davvero dire, "mamma".
Ci odiamo, perché finiremo assieme, ed eppure, pur sapendo che le parti dei nostri corpi saranno strappate e gettate nello stesso posto, ognuno ringhia e graffia e morde nella speranza che ad uno dei due l'essere sventrato sia più dolce.
Ci odiamo, perché vivere è sopravvivere, e sopravvivere è un atto egoista.
Mamma, madre, me stesso, chi sei, tu che mi guardi?
Chi è, quell'immagine che sorride e muove le caviglie sottili, che si regge sui polsi smunti, che s'immerge nel riflesso e ci si lascia annegare dentro?
Chi è quell'essere che pare un angelo ma sotto i capelli biondi e i tratti dipinti dalla delicatezza è solo una figlia di Lot?
Forse lo amo solo perché quando sono con lui posso soddisfare di me sia l'istinto di liberarmi della nostra imprescindibile unione sia il bisogno d'infliggerti dolore.
Forse lo amo solo perché era tuo e da tuo mio, ed è mio e da mio tuo.
Mamma.
Madre.
Mi hai dato luce, è così che si dice, no?
Luce.
Dev'essersi persa in quella camera d'ospedale, qualcuno deve avercela rubata, perché qui non ne percepisco il più piccolo spiraglio, nonostante le finestre spalancate, nonostante il palesarsi del Sole.
Ma senza quella ho vissuto lo stesso.
Sono cambiato, sono evoluto, sono mutato.
E scarafaggio che vive nel buio, muschio che s'inerpica nell'umidità del sottobosco, stupida, stronza, lurida figlia di Lot, hai nutrito la mia crescita senza che di luce se ne vedesse l'ombra.
Mamma.
Madre.
Guarda bene rinchiusa da quello specchio l'ordalia che sto per fare di entrambi.
Guarda bene.
Non staccarmi mai, mai più, gli occhi di dosso.
Quando sento il cellulare tintinnare per l'arrivo di una notifica, lascio defluire i miei pensieri fuori dalla testa e faccio leva sulle braccia per tirarmi su, stiro distrattamente le pieghe dei vestiti addosso al mio corpo, senza controllare chi mi abbia scritto apro la porta della camera ed esco, diretto all'ingresso della casa.
Ho fatto quel che ha chiesto ieri, mi sono messo addosso quello che portavo prima di tutto questo, mesi fa, e nonostante abbia tentato di tornare quel Kenma vergine della sua presenza, i capelli biondi stonano pericolosamente col resto. Sembro la mamma vestita come me, non sembro me, non sembro lei.
I passi rintoccano sul parquet e pur non facendo rumore giurerei di sentirli rimbombare come campane a morto ad ogni centimetro che supero per avvicinarmi a ciò che c'è oltre la porta.
Il sorriso sul mio volto nasce spontaneo, e non so se sia di felicità o di sollievo, non so se rappresenti la prospettiva di vederlo e farlo mio o quella di finirla, finalmente, questa falsa fusione di figlio e madre.
Appoggio le dita sottili sulla maniglia della porta, la tiro giù, l'aria è gelida quando entra e sbatte violentemente contro il mio corpo.
Rivolgo lo sguardo in alto, lassù, dove c'è lui, il mostro, la folla, il boia con la lama in mano, e dentro di me la gioia è così sfrenata che persino provarla mi affatica.
Ti amo, Kuro.
Ti amo perché odio lei.
Io...
Mi faccio da parte, lascio che entri in casa, richiudo la porta alle sue spalle, silenzioso e riflessivo come un pensiero, osservo la sua figura nella cornice di casa mia e mi rendo conto che nulla di quel che abbiamo fatto finora sarà mai tanto importante per me.
Mangiandomi fuori di qui hai mangiato quel che lasciavo uscire, Kuro, quel che tu e tu solo possedevi, ma qui dentro, qui dentro c'è anche lei e mandarla via è impossibile.
Quando mi guarda ha ancora l'ambra, negli occhi, un sottile filo a simboleggiare che c'è ancora qualcuno, dentro al suo corpo, ma nonostante l'ambra l'intensità del modo in cui scortica il mio corpo guardandolo è innegabile e perfetta.
Si toglie la giacca, la appende al gancio accanto alla mia, sfila gli stivali uno con l'altro, si tira indietro i capelli rivelando il tessuto muscolare pieno d'inchiostro che guizza al movimento, tace come taccio io, mi guarda di nuovo, si guarda attorno, torna su di me.
Come allora, mi fissa, e più di allora comprendo il significato di quello sguardo che mi era prima incomprensibile.
Annuisco.
Alzo le braccia e gli rivolgo i polsi chiari, come se gli stessi offrendo accesso a tutto quel che ci scorre dentro, lui di rimando mi stringe con le mani piene di cicatrici e mi tira in avanti, per poco non inciampo, atterro sul suo petto, dita fra i capelli biondi della mamma, collo stirato indietro, labbra sulle mie.
Non lo tocco, non mi muovo.
Rimango là, il dolore delle ciocche tirate, mento serrato dal tocco di chi teme che io mi rompa e contemporaneamente godrebbe, a vedermi rompere, labbra e sapore di Kuro.
Adora me e punisce te, con questo modo di amarci, mamma.
Se mi stesse mordendo e se stesse cercando di strapparmi le interiora passando dalla bocca, non credo la sensazione che proverei sarebbe poi tanto differente. Morde, mangia, divora e consuma, e spero che mi strappi lei e che strappandola la uccida anche.
Infila una mano sotto il tessuto liso della maglietta, mi spinge indietro e intravedo il divano, ma certo solo di poche e semplici idee, m'impongo staccandomi, indico con lo sguardo la camera della mamma, e lui comprende, sorride, annuisce.
Mi prende in braccio, ma non per avermi vicino, lo so, solo per impedirmi di scappare, e con un paio di movimenti è là, ad aprire la porta sugli specchi che si ripetono infiniti, varcando la soglia e violentando ciò che lei possiede di privato, non adagia ma lascia crollare me e lei sul materasso.
Lo guardo dal basso, col sangue che inizia a scaldarsi nelle vene.
Qualche momento sembra che lotti.
Ma poi quel che guardavo viene sconfitto, e quel che conosco vince, e gli occhi diventano neri, il sorriso si perde, il fiato si fa più corto.
Cerbero con le tre teste, questo sei, tu. Cerbero, che non sa con quale mente pensare, spaventoso, minaccioso guardiano dell'Ade, Cerbero che magari sarebbe stato un cane normale, se di teste ne avesse avuta una sola, ma costretto all'affollamento di pensieri interminabili è capace solo di rabbia e di violenza, è capace solo di tenere fuori.
Però per quanto sia mostruoso fa comunque la guardia, perché è pur sempre un cane, e quello è pur sempre il suo destino.
Basta nutrirlo, e rimarrà fedele.
Il problema non è Cerbero.
Il problema è quel che protegge.
Appoggia un ginocchio sul letto, si regge col polso, sento il battito del suo cuore imperversare contro il mio, getto indietro la testa, offro il collo, Kuro ci s'immerge come se fosse l'acqua ad un disperato in mezzo al deserto, macchia, strappa, squarcia e morde la pelle chiara, lecca i rivoli scarlatti, ne cerca altri, stringe tagliandomi il respiro e me lo restituisce, mangia, perché ha fame, perché io ed io soltanto ho concesso a lui il pranzo dentro una ciotola che attendeva paziente dalle mie dita.
Io tengo lo sguardo fisso sullo specchio a figura intera all'angolo della stanza.
Soffri, mamma? Ti vedo inarcare le sopracciglia e sembra dolore, poi piacere, quel che ti passa in viso. Fa male, non è vero? Però non credi anche tu che sia, nel male che ci fa, la cosa migliore che tu abbia mai provato? L'enfasi, mamma, il trasporto con cui ci prende, la rabbia e il puro e nudo bisogno, mai sentiti così chiari in nessun altro. Non lascia spazio al dubbio, lui vuole e ha, ma vuole davvero, e avrà completamente.
Mi spinge indietro dalle spalle, le mie scapole atterrano con un tonfo sordo sul materasso, i capelli come un'aureola attorno al viso, sparsi e biondi e chiari sul letto della mamma. Kuro mi strappa via i pantaloni di dosso, sembra nel modo in cui lo fa che sia proiettato indietro nel tempo, a quei momenti in cui era lei e non io e lui voleva me e non lei. Mi guarda con le cosce nude ancora martoriate da segni che lui stesso ha lasciato, le iridi non scorrono ma scuoiano la mia carne, come se volesse vedere sotto, come se necessitasse in questo preciso istante di sapere cosa si nasconde sotto quella pelle marchiata.
Do cenno di volermi togliere la maglietta ma mi precede, ha fretta, non ha tempo per la mia gestualità pacata, e allora mi trascina dal colletto quanto basta perché la mia schiena si separi dalla superficie su cui era appoggiata e me la leva di dosso come se il mio averla messa l'avesse in qualche modo offeso.
Mi preme giù dal petto.
Apre una mano sul mio petto e respira a pieni polmoni guardandomi, lì, inchiodato giù dal suo peso e immobile, in mezzo al letto della mamma.
Il nero gli cola dallo sguardo.
Non c'è ma lo vedo comunque, spesse e dense gocce che solcano il viso di un cane che non credo abbia mai imparato a piangere, mi si attacca addosso, mi s'infiltra nella pelle, nutre la mia miseria con un veleno più pungente di quello fruttato e paziente di mia madre.
Non sa da dove cominciare.
Ha lo stomaco che si contorce dalla fame ed eppure pare paradossalmente troppo affamato per mangiare.
Da dove dovrebbe iniziare il suo cammino verso la soddisfazione? Cosa di me dovrebbe far sparire più in fretta? Quale figlia di Lot dovrebbe prendersi per prima, tra le quattro che gli sono state gettate in pasto?
Il cuore gli batte così forte che giurerei di sentire il sangue scivolargli nelle vene.
Guarda me e io guardo noi nello specchio.
Adagia gli occhi sulle forme sottili della mia vita, sul petto premuto dalla sua mano, sul collo martoriato, sul mio viso chiaro e sugli occhi dorati, vede me e io nel riflesso vedo lei, che mi guarda indietro, ugualmente trattenuta dalla sua furia.
Mi spinge in basso più forte.
Che voglia immergere la mano nella mia cassa toracica?
Che voglia sfondare le costole e stringere forte le dita attorno a quell'ammasso di carne che chiamare cuore mi sembra un azzardo?
Forse vuole solo aprire, squarciare la tela della pelle con gli artigli, immergere il viso nella ferita, scavarmi finché non troverà altra pelle e sotto quella il tessuto chiaro del lenzuolo.
Respira.
Io sbatto le ciglia.
L'attimo seguente sta salendo sul mio corpo, in ginocchio con le cosce ai lati delle mie spalle, le dita lunghe armeggiano con la cintura, il mio viso adorante lo guarda, poi torna allo specchio, osserva lì mia madre che subisce lo stesso infelice trattamento.
Abbassa la zip dei jeans, slaccia il bottone, sposta i boxer, stringe le mani attorno a se stesso e lo fa a poca distanza dal mio viso, io non parlo, non ne ho bisogno, lui non parla, non ne è in grado, osservo me, la mamma, Kuro.
Che espressione fai, quando ti succede la stessa cosa, madre? Tu sei più navigata, più certa, ed eppure condividiamo lo stesso viso di porcellana, per cui t'osservo, osservo le tue reazioni mentre guardi un uomo farti questo.
Sorridi?
Dentro quel riflesso sorridi.
Sbatti le ciglia, sorridi, mamma, là dentro. Tiri su una mano per scostare le ciocche dal viso, accarezzi piano la coscia di chi ti sta di fronte, aggrotti le sopracciglia in preghiera, ti lecchi le labbra. Socchiudi gli occhi quando ti viene in faccia, senza smettere di sorridere, senza lasciarti andare.
Lo sai che lui ne ha bisogno, in questo tipo di situazione, che fa sempre così, perché l'eccitazione è troppa, il bisogno pure, e deve allentarla un po' quella tremenda pressione che gli impedisce di scegliere da che parte iniziare il banchetto.
Qualche secondo solo, mamma, ci guarda prima di procedere.
Qualche secondo.
Quella sul suo viso è la chiara espressione dell'animale che ha marchiato il territorio e ha rovinato quel che c'era dentro, perché rovinare è una cosa che fai con ciò che è tuo, e noi siamo suoi, questo sta dicendo.
Poi rimette a posto le mutande, e torna più in giù, le mani di nuovo stringono e strappano, serrano il petto, la gola, nella pretesa che io faccia ciò che non deve nemmeno chiedere.
Mi lecco le labbra, di nuovo.
Mando giù.
Lui sorride, noi sorridiamo.
Ci lascia andare.
Ci ribalta a pancia in giù come se non ci fosse vita dentro alla carne del mio corpo.
Braccia sotto alle cosce, indietreggia ancora, mi tira su la vita e lascia che la mia schiena s'inarchi, che le spalle rimangano premute sul materasso, morde là dove le cosce si piegano, dove sono morbide, morde e credo voglia staccare, per un attimo, credo voglia staccare e masticare.
No, non mastica.
Solo aspetta il sangue.
E quando c'è lo lecca, e poi ne vuole ancora e allora morde ancora, e noi soffriamo, mamma, a noi fa male, lo vedo dal tuo sguardo accigliato, dal modo in cui ti mordi l'interno della guancia, dalla venatura disperata dei tuoi occhi.
E allora siccome fa male ci spingiamo più forte contro di lui e ne chiediamo ancora e lui, che è sempre fedele, che ha imparato ad obbedire, lui ci soddisfa, affondando le zanne nel tessuto, evocando le lacrime scure che colano dalle ferite.
Col nostro sangue a tingergli il viso, con la striscia rossa che s'incastra al lato della bocca, poi Kuro cerca il punto dove sa che potrà essere parte di me, e mi tiene fermo, immobile dal bacino, e ci immerge il viso contro.
Ci piace, invece, questo, mamma. Ci piace e paradossalmente non fa male. Lui è sempre disperato, continua a volerci possedere, ma per lui il dolore non è il fine, è solo il prezzo da pagare, e allo stesso modo il piacere, se lo provo o meno, a lui non interessa.
Ci piace e ci fa stringere il viso. Ci piace e le sopracciglia s'inarcano, gli occhi si chiudono, le mani si aggrappano disperatamente alle lenzuola, le cosce tremano e si spalancano, il sangue cola più copioso, macchiando il candore che ci circonda.
Rimaniamo là, con il volto schiacciato in basso, le labbra che scintillano di saliva, le pupille che rotolano indietro mentre lui vuole sentire di cosa sappiamo e poterci entrare dentro tutto, completamente, perché noi siamo suoi e lui ne ha il diritto.
La smania è disperazione, nei movimenti certi e violenti di Kuro.
La smania è infelicità, e alle volte più che fame, più che necessità di liberare un istinto, sembra soltanto preghiera di tornare a casa, ricerca di un posto dove l'amore non è un miraggio ma protezione, calore, affetto.
Cerca riparo dentro al mio corpo che apre come se io qui dentro non ci fossi.
Imprime violenza dentro al tuo corpo, che sventra perché tu sei me.
Immerge due dita dentro di me, la sensazione non è dolorosa come la prima volta, ora par giusto un fastidio, facilmente eroso dal piacere che ho imparato a conoscere un po' di più. Le separa, continua a mangiarmi, il calore mi si avvita nella pancia, ci guardo attraversati da una sensazione che presto non ci apparterrà più.
Io mi lascio attraversare dalle ondate d'acqua pulita, mamma, ma tu mi fissi da là come se non riuscissi a gustarti il mare limpido perché sai che fra poco arriverà l'abisso. Io traggo gioia dal momentaneo sollievo, tu non puoi, perché sei incastrata nella paura di quel che arriverà.
Però ci piace lo stesso, ad entrambi, a te che mi osservi e a me che t'osservo, le unghie che cercano appiglio sono le stesse, le cosce che tremano, le ciglia che sfarfallano, i rumori morbidi della nostra voce. È la stessa l'enfasi con cui cerchiamo disperatamente Kuro, che mangia senza pensare ad altro, e collateralmente invece del dolore ora ci dà qualcos'altro.
Pensi anche tu che sia bello, mamma?
Sì, lo pensi, i tuoi occhi rinchiusi rilucono della stessa attrazione.
Così è più bello ancora.
La disperazione dona a quest'uomo una bellezza sfrontata, e se vederlo comportarsi come la testa più ragionevole delle sue tre suggerisce di Cerbero solo l'idea, ora non si nasconde, ed è magnificamente mostruoso, libero delle catene.
Noi lo amiamo, mamma.
O forse no.
Io lo amo, e tu lo odi, e io lo odio e tu lo ami, e lo odiamo e lo amiamo, insieme, avvolti, schiacciati e compressi in una relazione che non ne prevede due, di partecipanti, ma tre.
Lui, me e te, mamma.
Perché io e te siamo una cosa sola.
Non è bastato farti incidere l'addome per toglierti la mia parassitaria presenza.
Non è servito svezzarmi per impedirmi di succhiarti via la vita dal corpo.
Tu rimani là.
Incastrata nel mio riflesso.
Carapace di quello scarafaggio che si muove tra la polvere e le assi del pavimento, sorella, figlia di Lot, saldata alle mie ossa dal non essere mai riuscita a fare di me un figlio, ma soltanto un frutto che non viene colto, e marcisce ancora appeso al tuo ramo.
Kuro piega le dita in profondità dentro il mio corpo.
Osservo mia madre e me stesso venire travolti dal piacere inebriante e appannato dell'orgasmo che ci attraversa.
Lei ed io, noi, scossi da tremiti incontrollati, aggrappati al letto come se potesse davvero offrirci un appiglio, stanchi e sfiniti con la voce che lo chiama, che lo prega, che lo lega a noi.
Non pare rendersi conto che i nostri corpi sono più morbidi, più docili e sensibili del suo, non gli importa che quel che ci sarebbe necessario sono pochi istanti di pazienza, lui rivolta, rovina e ribalta, lui rovista, raggela, rapisce. Ci rimette con la schiena sul letto, ci afferra dai capelli, ci tira su e ci bacia, non perché ci voglia dimostrare affetto, ma perché vuole farci capire che il sapore che tiene rinchiuso là, fra le labbra, è il nostro.
Morde e mangia, ci allontana, ci tiene seduti e tremanti, ci fissa in volto.
Ci afferra la gola e stringe, non dai lati come fa quando è più in sé, eccitato ma consapevole del pericolo, no, lui schiaccia la trachea, impedisce all'aria di arrivare, preme pericolosamente contro l'osso ioide che minaccia fragile di andare in pezzi.
Ci guarda soffocare.
Saggia fra i polpastrelli il potere di concluderci.
Ci vede annaspare, e mugugnare parole che nemmeno riescono ad esserlo, parole, e nei nostri occhi sente il controllo di poter fare di noi quel che vuole.
Nei suoi occhi, però, mentre tenta di dirsi che è lui, ad averci, lui, a possederci, brilla la luce della disperazione, della preghiera, della cieca fedeltà.
L'ho detto ieri, con la mia voce più sottile.
Uccidimi, Kuro, e fallo perché mi ami.
Uccidimi, Kuro, e fallo perché io, io solo, te lo concedo, e ti concedo l'amore che non hai mai saputo come dare, come ricevere, che vuoi e chiedi e supplichi di avere nonostante questo, che sai solo io sono in grado di darti.
Più mi sventra, più le viscere che di me tira fuori avvolgono strette la sua pelle, costringendola allo stesso terrore di perdermi, quello che prova, quello che gli impone di lasciarmi andare quando sa che non potrei resistere ancora, quello che lo attraversa impetuoso come l'eccitazione mentre mi guarda tossire e riprendere fiato.
Gli sorrido.
Gli accarezzo il volto.
Morderà, la bestia, morderà e cercherà di allontanare il contatto, l'ha già fatto, una parte di lui lo farà sempre.
Ma terminato lo spavento, sentirà di me solo la dolcezza, dolcezza che non è supplica, solo concessione.
In ginocchio, la ferocia, la metti solo guardandola dall'alto e rispondendole con la calma, perché io lo so che dentro quei trent'anni di sangue, dentro quella vita di "no", ognuna delle tue tre teste, Cerbero, sia quella che morde, sia quella che parla, sia quella che prega, alla fine desiderava solo che qualcuno le dimostrasse affetto.
Kuro mi guarda fino in fondo agli occhi.
Non ha mai preteso di non fare schifo.
Non è un animo dolce avvolto dal filo spinato di una vita che l'ha distrutto.
Lui fa schifo, e la dolcezza, semplicemente non c'è.
Per questo, quando gli concedo amore nonostante tutto, lui si rivela così com'è, giusto un cane, giusto un animale, giusto una bestia, che non puoi pretendere sia umano, ma puoi ammansire perché faccia la guardia.
Cerbero, fletti le articolazioni e mettiti seduto di fronte alla porta.
Io ti aspetto dentro.
L'inferno, in questa storia, sono io.
Schianta la mano contro la mia guancia.
Mi tira uno schiaffo in pieno volto, la mia testa si piega sotto la violenza del gesto, il dolore si spande come uno spillo, come una corona di spilli, che trafigge la pelle e s'incastra nell'osso.
Ci guardo, mamma, a tutti e due.
Io sono il sorriso.
Tu le lacrime spremute via dai miei occhi.
Io sono la gioia.
Tu il terrore.
Riporto in linea retta il capo, me ne tira un altro.
La pelle pulsa, è rossa alla vista, appena gonfia, copiosa scende la tua sofferenza sulle mie guance, inequivocabile si stira il mio sorriso sulle labbra.
Kuro ci guarda ancora.
Gli piace che stiamo soffrendo.
Gli piace che siamo rimasti.
Ci afferra i capelli di nuovo, ancora, quel tratto di noi che ora è identico, ci fa stirare indietro la schiena e ci spalanca le cosce, ci costringe su di sé, ci entra dentro, ci scava dall'interno, ci azzanna la spalla.
Fa male.
Lui ansima e a noi fa male.
La folla possiede le figlie di Lot e quelle urlano, pregando pietà, le figlie di Lot possiedono il padre e quelle gemono, elemosinando piacere.
Non ci sono parole articolate né pensieri, c'è solo il rumore delle nostre voci che si lamentano, mischiato al suo respiro che affanna, rinchiuso dal suono del corpo che viene piegato e scavato.
Cado con la schiena sul materasso.
Guardo Kuro muoversi fra le mie gambe nel letto di mia madre.
Lascio che la testa cada di lato, si schianti una volta ancora, l'ennesima, su di lei.
Grottesco, impuro, turpe, farmi scopare guardando l'uomo che amo scopare anche lei. Sbagliato, schifoso, immondo, studiare i tratti di mia madre, mia mamma, che si aprono nella consapevolezza che questo è quello che succede a noi, figlie di Lot, quando Sodoma ci cade addosso.
Tu possiedi di me tutto, mamma, e io di te tutto allo stesso modo, ma è defluito da me a te, quando mi hai rimosso come una malattia dal tuo corpo, il coraggio.
Tu ti circondi di qualcosa che ti dia l'impressione di avere un valore. Tu menti, guardando me in questi stessi specchi, e cerchi per noi l'amore illudendoti che ce lo meritiamo.
Io no.
Io ho coraggio.
Io ti costringo a spogliarti sotto l'abbagliante luce della verità.
Questo è il nostro destino, questa la nostra sorte, la nostra congiunta fine.
Siamo nate marce, noi figlie di Lot, sperare di essere nate angeli, non diminuirà l'impeto della folla che ci salterà addosso.
Ama la folla, mamma.
Amala, madre.
Alla fine sono solo una mandria di bestie.
Se accoglierai la loro foga pregandone ancora, dopo essersi saziate di te, ti ringrazieranno per il pasto.
Loro rimarranno bestie.
Tu diventerai nutrimento.
Kuro mi tira su cosce, le schiaccia sul mio petto, le ginocchia sottili mi arrivano quasi fino alle spalle, non si ferma, le ciocche scure dei suoi capelli gli ricadono sul viso. Neri, gli occhi, e neri i capelli, rigide le spalle e serrata la mandibola, ha la bocca sporca del mio sangue, si lecca le labbra come a volerne sentire ogni istante il sapore.
Rispondo alla sua esigenza prima che cerchi la razionalità per verbalizzarla.
Mi porto un polso sul viso, apro la bocca, affondo i denti imitando le zanne del mostro che sta facendo di me un cadavere.
Stringo, stringo, urlo di dolore attraverso le labbra serrate, non smetto di stringere, lacero e strappo finché il ferro acre non esplode nella mia bocca.
Poi gli rivolgo il braccio che sgocciola.
Catturato, l'animale che riconosce solo bianco, nero e rosso, mentre si avvinghia alla mia offerta e morde dove ho morso, catturato e grato, i movimenti diventano più violenti, più serrati, gli cola il mio sangue dal mento.
Mangia e guarda come inebetito il rivolo placido che mi scorre sulla pelle chiara, non percepisce insoddisfazione, nel rendersi conto che la caccia non è tale se la preda si offre al predatore, percepisce riverenza, azzannando le dita di chi gli dà da mangiare.
Mi guarda, ancora, ancora, ancora.
Imprime a fondo nel suo annebbiato cervello di bestia la mia immagine.
Collega con le sinapsi intorpidite il piacere a me, ad ogni parte di me, al mio corpo, al mio viso, al mio sangue, al mio dolore.
Divora il corpo.
Io sto banchettando della tua mente.
I movimenti si fanno più irregolari, i muscoli più rigidi, ormai non c'è traccia d'ambra, solo nero, nero, nero, solo me e la mamma che appariamo come piccoli riflessi negli occhi inebriati di Kuro, morde il mio polso, un verso di dolore mi sgorga dalle labbra socchiuse, il materasso cigola, la testiera sbatte sul muro, lui esce da se stesso, finisce dentro di me, e lì trova il calore che sa di non poter trovare da nessun'altra parte.
Ogni goccia.
Ogni centimetro.
Ogni parte, ogni grammo, ogni pezzo, ogni morso, ogni boccone, ogni tratto.
Là, rinchiuso, spinto a forza e serrato dentro di me.
Tu minacci e uccidi, Cerbero.
Ma gli anelli scintillanti della tua catena, sono appesi e stretti fra la carne inerme delle mie dita.
Si ferma.
Ricerca e ritrova il fiato.
L'ombra si ritira, l'ambra rinchiude lo scarafaggio dentro di sé, osserva frastornato il sangue e il mio aspetto, cerca rassicurazione che gli concedo, il suo petto si alza e si abbassa trascinato dal suo respiro.
Non parla, ancora non parla.
Si china.
Mescola le labbra con le mie.
Chiude gli occhi, ma i miei rimangono aperti, fissi immobili sulla mamma nello specchio. Lei ha gli occhi spalancati, le ciglia fradicie di pianto, la paura dipinta sul volto.
Le sorrido.
Serro le palpebre.
Mi abbandono al bacio.
Hai visto, mamma?
Hai visto bene ogni singolo istante, non è vero?
Non mi hai staccato gli occhi di dosso, sbaglio?
Quel che ti ho mostrato è tutto quello che sono. Quel che ti ho fatto vedere è il motivo per cui ad un certo punto ti renderai conto che di te ho rubato così tanto che io sarò te, e tu non sarai più niente.
Gli angeli hanno le ali, mamma, e noi due non le abbiamo mai avute. Gli angeli sono belli, protetti e custoditi, sono meritevoli, creature celestiali, perfetti e irraggiungibili.
La speranza di essere come loro renderà solo più feroce il tuo destino inevitabile.
Renderà più doloroso scoprire che non potrai mai essere come loro, perché sei brutta, tu, abbandonata e rifiutata, indegna, essere orrendo, fallace e terrena.
Smetti di sperare.
Ama la folla, figlia di Lot.
Ti farà a pezzi.
Ma quei pezzi saranno felici.
Abbandono mia madre quando Kuro mi stringe forte le spalle e ci sposta insieme sul letto, me sopra di lui a guardare il suo viso e nient'altro, mi chino ancora, lo bacio di nuovo.
Non so se voglia rifarlo subito, volesse non direi di no, ma mi beo per un istante del calore morbido dello scambiarci solo questo, sento il mio sangue nella sua bocca, mi lascio avvolgere.
Quando ci stacchiamo lui ha dato il controllo alla testa umana, io ho lasciato indietro la mamma, e tornano ad esserci familiari i rumori delle nostre voci.
– Kenma. – dice, incantato a guardarmi in volto.
Gli sorrido.
– Ti amo, Kuro. Lo sai che ti amo, vero? –
Annuisce.
– Lo so. –
– Non dimenticartelo mai. –
Percorre il bordo delle mie labbra con un polpastrello, accenna un sorriso.
Annuisce di nuovo.
Mi bacia ancora.
Il suo battito cardiaco torna regolare, ma lo sento dentro di me, ancora dentro di me, reagire piano al mio corpo. Gemo quando si sposta, ma invece di muovermi, mi lascio manipolare dalle sue mani quando mi rendo conto che vuole separarci.
– Non vuoi rifarlo? – chiedo, forse persino timido.
– Sì, ma non ora e non qui. –
– Dove? –
– Sul divano. Dove ti ho visto la prima volta. –
Faccio "sì" con la testa, accondiscendo pacatamente.
Mi sfiora la bocca con la sua.
– Quando torna tua madre? –
Lancio uno sguardo rapido allo specchio.
C'è sempre stata.
Non è andata via mai.
È qui, qui con noi, parte di questa strage, vittima di questo martirio, Kuro.
Non so, se tu capiresti quel che intendo.
– Torna lunedì. Possiamo stare qui insieme fino a lunedì. –
– Perfetto. –
Circonda la mia vita con le mani, tasta per qualche istante, poi mi solleva come se non avessi peso e slega i nostri corpi. Gemo piano alla sensazione, ma non faccio altro, mi adagia quasi con delicatezza a fianco a sé, sul letto.
Si tira su piano.
– Dove vai? –
– Al bagno. – risponde.
– Ok. –
Mi guarda, prima di tirarsi su e rimettersi a posto i pantaloni. Mi guarda completamente nudo e masticato, un guizzo d'attrazione si riflette nei suoi occhi, si china e mi stampa un bacio su uno dei morsi sul collo, poi si alza.
Osservo le sue spalle allontanarsi nella cornice della porta.
Quando scompare, mi ritrovo steso per metà al centro del letto, circondato da una ghirlanda di gocce di sangue, e per qualche istante mi pare di star sopra ad un trono di cenere, ossa e macerie, là dentro Sodoma che brucia.
I miei riflessi mi si ripetono attorno, e dovunque guardi ora, lei è troppo spaventata per uscire, e ci sono solo io.
Per la prima volta in diciassette anni, mi guardo completamente privo della sua presenza.
Mi trovo bello.
Smunto, magro e fragile, ma bello.
Lui mi rende più bello.
Non mi donano la dolcezza e la calma, ma invece risaltano come vestiti cuciti su misura i morsi, i lividi, i segni e il sangue. Tracciano macchie scure e violente sulla mia pelle chiara, sembrano secchiate d'inchiostro su una tela bianca, ma conferiscono al mio aspetto una bellezza nuda e furiosa, che è impossibile non guardare.
Qualcosa di me lo ama con adorazione e devozione.
Qualcos'altro, invece, che striscia fuori come un insetto in pochi istanti, lo ama con controllo e ferocia.
Qualcosa desidera che mi guardi, qualcosa desidera che mi veneri, qualcosa desidera che mi voglia e qualcosa desidera che mi obbedisca.
Il riflesso di fronte a me vuole la sua cieca fedeltà, quello alla mia sinistra che mi faccia sentire qualcuno, quello alla mia destra solo che rimanga con me.
Quello piccolo e quasi invisibile, sullo specchietto tondo, nascosto agli altri e timido, sofferente, inerme, è l'unico che si chiede cosa stia facendo di me stesso, cosa io stia permettendo al mio animo di diventare.
La paura nel suo sguardo, però, rimane sottile, ed ignorarla è facile.
Piego con fatica le ginocchia sistemando i polpacci sotto le cosce, mi pettino via i capelli dal viso, il rumore della porta del bagno che si apre mi arriva distinto.
Mi chiedo se forse dovrei alzarmi.
Al momento la prospettiva mi pare fin troppo complicata.
Kuro arriva a passi decisi verso la stanza, e quando riapre la porta, all'inizio nel suo volto leggo un'espressione che non capisco.
Poi adagio lo sguardo sulla sua mano.
Tiene stretta una scatolina scura nella mano, un paio di cavetti spuntano come zampe di un insetto, il riflesso che ne illumina un lato mi fa intendere che ci sia una parte di quell'oggetto che è fatto di vetro tondo, come una lente.
Aggrotto le sopracciglia.
– Cos'è quella? –
Kuro mi fissa.
– Una telecamera. –
– Una telecamera? Vuoi... vuoi riprendermi? –
Scuote la testa.
– Non è mia. –
La confusione mi aggroviglia i pensieri.
Non è sua?
Dove l'ha presa, allora?
Sono piuttosto certo che non ci fosse, in casa, qualcosa del genere, almeno non in un punto dove il mio sguardo potesse arrivare.
Ed eppure...
– Vestiti, Kenma. Cambio di programma. Andiamo a fare... visita ad un amico. –
– Un amico? –
– Un amico. – ripete.
Lo guardo sempre meno certo di quel che intenda.
– In che se... –
– Ti spiego quando arriviamo là. Ora fa' quel che ti ho chiesto. –
Rimango interdetto qualche istante, poi prendo fiato e capitolo annuendo, costringo il mio corpo a spostarsi, obbedisco.
Una volta vestito faccio per uscire dalla stanza.
Mi rivolgo solo un secondo allo specchietto tondo.
Ah, non era la mia, quella paura sottile che intravedevo.
Ecco dove ti eri nascosta.
All'angolo, mamma, eh?
Le concedo un sorriso.
Nasconditi, mamma, sì, nasconditi e guardami come se ti chiedessi cosa sto combinando della mia vita, come se cercassi di capire perché concedo a quella bestia di fare di me quel che vuole.
Ti sta bene addosso, quell'espressione.
A me la violenza.
A te la paura.
continua ⇘
ehm ecco mel non sa molto bene cosa dire perché la sensazione è quella di aver scritto una bella montagna di cose super schifose quindi non è che posso stare qui come una cretinetta a chiedervi RAGA VI PIACEEEEEEE perchè ecco................
però vi chiedo invece
com'era?
abbastanza schifosino?
abbastanza cattivo?
mi ci sono super impegnata sisi non so bene perché ma mi è partito così e niente ci ho dato dentro con lo schifo ed è uscito questo e sono super curiosa di sapere cosa ne pensate però no tso grazie io giuro non sono una pazza scrivo cose pazze ma non lo sono sisisisisisisi
giusto per precisare due cose è voluto che quasi in tutto il capitolo non ci sia lo straccio di un dialogo perché kenma qui è parte ma soprattutto spettatore e l'unico dialogo che effettivamente intrattiene è con sua madre ed è lui che se lo immagina, kuro qui ha un ruolo pratico, non emotivo, e somiglia molto più ad un oggetto per un fine che ad un effettivo personaggio; +++ spiace se vi ho fatto venire i brividini di schifino in una scena di smut usando il "noi" per parlare di kenma e la sua mammina ma era chiamatissimo dovevo pardon
basta
fine
prossima uscita scottish sithe giuro
un bacino
non mandatemi in prigione
non denunciatemi
non dite a vostra nonna che il motivo per cui siete diventatx della brutta gente è per colpa mia
mel :D
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