𝘪 𝘫𝘶𝘴𝘵 𝘳𝘦𝘮𝘦𝘮𝘣𝘦𝘳𝘦𝘥 𝘴𝘰𝘮𝘦𝘵𝘩𝘪𝘯𝘨
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Un tuono squarcia il cielo in lontananza.
Lo vedo, mi sembra di essergli di fronte, mi sembra di guardarlo ad un centimetro da me, ad un soffio dal mio viso.
Apre le nubi, distrugge la pace secca e stantia di questa sera, non chiede il permesso di schiantarsi a terra e illuminare per un secondo, un istante il mondo che gli si para di fronte, lo fa e basta.
Pioverà.
Dice che pioverà.
Non lo sussurra, non lo mormora.
Lo urla.
Vorrei essere come te.
Vorrei poter essere come te.
Vorrei avere il coraggio di squarciare il cielo, vorrei avere il coraggio di non chiedere, di non pensare, di non bloccarmi stretto tra gli ingranaggi di me stesso.
Vorrei urlare come urli tu senza chiedere scusa.
Vorrei che qualcuno mi guardasse e pensasse di me quel che penso io ora di te.
Vorrei brillare.
Vorrei essere notato.
Vorrei comunicare qualcosa che non sia solo un timido sibilo di voce intimidita che scade e si scioglie nel nulla, vorrei governare il mondo anche se solo per un istante, consapevole, conscio e fiducioso che tutti sapranno che ci sono stato, quando scomparirò nell'aria e nel nulla, esausto, sfinito, ma fiero d'aver brillato tanto anche se solo per un attimo e basta.
Invece non sono nulla di tutto quello che sei.
Se fossi qualcosa, sarei...
Io sarei una giornata di Sole con qualche nuvola.
Dimenticabile.
Perdibile.
Ignorata.
– Devi darmi qualcosa in cambio se vuoi che ti prenda da bere, splendore. –
Sbatto le ciglia lunghe infoltite del mascara che ho rubato a mia madre.
Si appiccicano fra loro, quasi, l'umidità l'ha sciolto e l'ha reso pastoso, pesante sullo sguardo.
– Cosa vuoi in cambio? –
– Potresti iniziare facendomi un bel sorriso. –
Tiro su gli angoli della bocca pigramente, mi esibisco in una di quelle espressioni di plastica, finte, palesemente infastidite.
A quanto pare gli va bene lo stesso.
– Così, bravo. –
Non so perché sono qui.
Non so bene nemmeno dove sono.
So che...
Ho litigato con mia madre, stasera.
Wow, tremendo, Kenma, è davvero tremendo. Povero, mi dispiace, dev'essere difficile, dev'essere problematico, dev'essere...
Come se fosse qualcosa che non succede mai.
Come se fosse qualcosa di straordinario.
Come se fosse qualcosa a cui non sono abituato.
Certo che sono abituato.
La mia vita, tutta, tutta intera, è scandita da me che litigo con mia madre. È scandita dalle sue urla, dai suoi improperi, dalla mia voce sfinita, dalla sensazione che la biologia ha detto una gran stronzata quando ha affermato che quella fosse mia... madre.
Mia madre.
La più grande condanna che mi è stata inflitta.
Mia... mia madre.
– Allora, mi prendi da bere? –
– Piano, piano, ancora non sono contento. –
Non so perché mi costringa a mischiarmi con questo genere di persone, davvero, non ne ho idea.
Con queste...
Sono fuori città. Quando quella stronza ha smesso di urlarmi addosso mi sono vestito, sono uscito di casa, ho preso il primo bus che è passato alla fermata, sono sceso ad una fermata a caso e ho cercato un bar.
Forse non avrei dovuto.
È pericoloso.
È pericoloso, no?
Quantomeno non è noioso, se è pericoloso, immagino.
E della noia e della monotonia di non essere un cazzo se non il capro espiatorio di una vita andata storta sono un po' stanco, a volte.
La mia mamma mi odia.
Lo so che la mia mamma mi odia.
Dovrei dirlo piangendo?
Dovrei dirlo o pensarlo con le mani strette attorno al petto tra un singhiozzo e l'altro cercando di aggrapparmi al mio respiro, dovrei dirlo tremando? Dovrei dirlo urlando in un accesso d'ira? Dovrei dirlo distrutto e annientato?
Lo dico come lo penso.
Coscientemente.
La mia mamma mi odia, è un dato di fatto, è una consapevolezza cementata nella mia testa, è una cosa che è così come le cose che sono così e basta, come gli assiomi, come i teoremi.
La mia mamma mi odia.
So anche perché.
– Cos'altro vuoi che faccia? –
– Vieni più vicino. –
Percorro un passo verso il tipo che ho puntato tirandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, metto su l'espressione più innocente e carina che riesco a tirare fuori dal mio arsenale.
La mia mamma mi odia perché le ho rovinato la vita. Perché era una quattordicenne carina in una scuola per bene che ha fatto un errore una volta ad una festa e che si è ritrovata buttata fuori di casa senza un soldo o una prospettiva di sopravvivenza prima che io facessi capolino come idea nel mondo.
Rimanere incinta di me è stato il suo grande errore, il suo grande rimpianto.
Lei mi odia perché sono nato.
Vorrei cercare di capire il suo punto di vista, ma non riesco, perché la spada di Damocle pende sulla mia gola, non sulla sua, nella presa di coscienza che sono una maledizione per la vita di chi dovrebbe amarmi e forse anche per la mia, di vita.
Sono troppo giovane, forse, per aprire i miei orizzonti e cercare di perdonarla.
Ma non mi sento in colpa per questo.
Lei dovrebbe sentirsi in colpa per avermi condannato a vivere così.
Il tipo mi schiaffa una mano sulla spalla.
L'istinto primario è quello di scostarmi, ma non lo faccio. Ho un obiettivo che voglio raggiungere, e non mi farò spaventare.
– Come hai detto di chiamarti? –
– Kenma. –
– Solo "Kenma"? –
– Solo "Kenma". –
Vedo come i suoi occhi mi scivolano addosso. Lo riconosco, quest'istinto che si annida dentro le sue iridi.
È come i fidanzati di mia madre la guardano quando è particolarmente carina, vestita bene, acconciata, quando mette i loro vestiti.
È una bella donna, quella stronza.
È piena di altri stronzi, che cambia come cambia le mutande, che compaiono a casa per sparire due giorni dopo lasciandomela sbronza e distrutta da recuperare.
– Cosa ci fai qui stasera, Kenma? –
– Vorrei bere qualcosa. Ho litigato con mia madre e vorrei distrarmi un po'. –
– Hai litigato con la tua mamma? –
Lo dice con...
È come se lo dicesse ad un ragazzino, manco ad un adolescente, ad un dodicenne che fa i capricci.
Il fatto che questo suo tono non gli levi dallo sguardo quell'aura d'attrazione mi disgusta.
– Mi ha trattato un po' male. –
– Non vai d'accordo con la tua mamma? –
Appoggia la mano un po' più in su, verso il collo. Muove il pollice come per accarezzarmi, sento il suo polpastrello sfiorarmi la linea della mandibola.
Quanto schifo mi fa, questo bastardo.
Mi viene da vomitare.
Però...
– Non andiamo molto d'accordo, no. Allora, mi prendi da bere? –
– Piano, ho detto. Piano. –
Sto perdendo il mio tempo?
Quant'è difficile prendermi da bere?
Potrei aver sbagliato preda.
A mia discolpa non esco spesso, non ho molti amici, anzi praticamente nessuno, non sono familiare con l'interazione sociale e non so leggere le persone.
Credevo che aver visto mia madre girarsi e ripassarsi la qualunque m'avesse insegnato qualcosa, ma forse mi sono sopravvalutato.
Probabilmente usare come esperienza soltanto quella indiretta coi fidanzati di qualcuno che non sono io non è stata la migliore delle idee.
Però...
Lei che farebbe?
Che farebbe, la stronza?
C'avrò pur qualcosa di lei dentro, no?
– È che sono un po' timido. Se mi prendessi da bere magari riuscirei a sciogliermi un po'. –
Sbatto le ciglia.
Ho anche freddo, per la miseria, che in questo posto di merda se non ho l'età giusta non ci posso entrare.
È stata un'idea di merda, vero?
È stata un'idea di merda.
È colpa sua, però, non mia. È lei che mi odia, lei che mi fa venir voglia di scappare, io sono solo un povero ragazzino vittima di abuso psicologico che cerca di trovare un po' di sollievo, no?
No, non sono niente di tutto questo.
Sono solo stupido.
Sono solo un cretino che usa ogni scusa disponibile per giustificare le proprie stronzate.
Sono...
Non so se darmi una scusante per quel che faccio o incolparmi di cercarne una. Non so se mi sento in colpa per non riuscire a capirla e a condividere con lei il dolore di aver perso tutto per un errore, o se mi sento incazzato perché riversa su di me l'odio che non è riuscita a dare ad altri.
So che voglio un cazzo di drink.
Un cazzo di drink, per la miseria.
Datemi da...
– Quanti anni hai, Kenma? –
– Diciannove. – mento.
– Quindi sei maggiorenne? –
– Sì, solo non posso ancora bere. –
In Giappone bisogna avere vent'anni per bere, ma la maggiore età si raggiunge ai diciotto. Io non ce l'ho, la maggiore età, ma questo lui non deve saperlo o il mio patetico tentativo cadrà in pezzi come un castello di carte investito da una folata di vento.
– Tu quanti ne hai? –
– Quanti me ne dai? –
– Venticinque? –
– Fai il ruffiano, ragazzino? –
Certo che faccio il ruffiano, è ovvio che lo faccia. Lo sto facendo da venti minuti buoni, te ne rendi conto solo ora?
Idiota.
– Non ne hai venticinque? –
– Ne ho venti di più di venticinque. –
– Oh. –
Mi viene da ridere, mi trattengo.
Che scenario, miseria.
Un diciassettenne con una situazione familiare tesa che scappa di casa per andare a bere e abborda un quarantacinquenne per convincerlo a comprargli qualcosa di alcolico.
È uno di quelli che vedi scritti sul giornale nelle pagine di cronaca nera.
Sono davvero un genio.
– Cosa vuoi da bere, Kenma? –
– Qualcosa di pesante. –
– Tipo? –
Cosa beve sempre mia madre?
Lei beve...
– Whisky. Si chiama così, vero? –
– Sei sicuro di volere del... –
– Ti prego. –
La patina che gli offusca la vista è un'altra di quelle che ho visto negli occhi dei fidanzati di mia madre.
Quando lei si piega, quando fa quella voce un po' melensa, quando tocca loro il braccio o il collo passando piano con la punta delle unghie lunghe.
Eccitazione sessuale.
Mi fa sempre più schifo, questa situazione.
Ma ho quasi fatto, no?
Ho quasi fatto.
– Tu rimani qui fuori, vado a prenderti da bere. –
– Ti do i soldi per... –
– Non preoccuparti dei soldi. –
Apro il mio sorriso ancora di più.
– Davvero? –
– Che uomo sarei se ti facessi pagare? –
Oh, non lo so.
So che uomo sei ora.
Un uomo che fa schifo.
Però...
– Grazie. –
Non dà cenno di muoversi.
Perché non si sta...
Si sporge verso di me.
Alza una mano, appoggia l'indice sulla sua stessa guancia, dove ha la barba di un paio di giorni, ce lo batte sopra un paio di volte.
Oh, merda.
Ok, così tanto posso farlo.
Ma solo così tanto.
Solo...
Mi alzo sulle punte dei piedi, sono piuttosto minuto di corporatura, mi allungo verso di lui e avvicino le labbra verso la sua guancia.
Posso farcela, solo questo posso farcela, posso...
Mi afferra il viso con una mano.
Lo gira.
Lui...
Schianta le labbra sulle mie e la reazione iniziale è quella di congelarmi, rimanere immobile e atterrito da quello che mi sta succedendo, cercare di comprendere la situazione.
Il ghiaccio mi si spande dentro.
Ma quando me ne rendo conto, di quello che sta cercando di fare questo viscido, disgustoso pezzo di merda, allora il ghiaccio si spezza e si accende il fuoco, dove prima c'era solo il freddo della paura.
Mi divincolo come riesco, apro le mani sulle sue spalle e lo spingo indietro, per quanto la mia forza fisica sia ridotta forse non se l'aspettava e si lascia spingere indietro, mi rivolge uno sguardo confuso.
– Che cazzo fai, Kenma? –
– Che cazzo fai tu! –
– Stavo... –
Mi asciugo le labbra e reprimo un conato.
Non gli piace il gesto, forse il mio tono, perché si ricompone e l'attimo seguente è di nuovo addosso a me, questa volta con una mano stretta sulla maglietta.
– Vuoi farti offrire da bere o no? –
Ho paura, ce l'ho davvero, ma...
Non sono una persona che se le manda a dire, mai stata.
Sono come mia madre, uno stronzo.
– Ti ho solo chiesto di comprarmi un cazzo di drink, non di cercare di baciarmi. –
– Non me l'hai chiesto? –
Mi strattona e mi agita un secondo nell'aria gelida.
– Ma se sei venuto tu a fare la troietta per fartelo offrire. Mi stavi pregando. –
– Io non ti stavo pregando. –
– E hai anche il coraggio di lamentarti? –
Abbassa il tono della voce, la sua mano si stringe più forte sul tessuto, sembra incazzarsi ancora di più, ancora di più.
Forse dovrei stare zitto.
Forse dovrei...
– Se ti comporti da troia io ti tratto da troia. –
Dovrei andarmene, dovrei...
– Se ti chiedo d'inginocchiarti a succhiarmi il cazzo in cambio del drink che vuoi tanto, tu t'inginocchi e mi succhi il cazzo. Sono io che comando qui. –
Spalanco gli occhi.
Mi si aprono proprio da soli.
Diventano due fanali.
Ha detto...
Lui ha detto...
Combatti o corri, Kenma.
Prima combatti, se la battaglia la puoi vincere.
Ma questa, questa è...
Qui si corre.
Apro una mano sul suo petto e con tutta la forza che ho spingo indietro.
– Me ne vado. –
– Te ne vai? Credi di potertene andare quando ti pare? –
– Me ne vado. Io me ne... –
Fa un passo dalla mia parte.
Tutto dentro di me trema.
No, io non so come gestirla questa situazione, io non so...
Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo, che cosa...
– Tu non vai proprio da nessuna parte. –
– Ho solo diciassette anni. – sussurro, con un filino di voce, perché è la prima cosa che mi viene in mente, è la prima che mi passa per il cervello.
Si ferma.
Il tipo si ferma.
Mi guarda, mi squadra.
– Mi stai dicendo una stronzata? –
– Ho di...diciassette anni. Vado al liceo, faccio seconda. Ho solo diciassette anni, ho solo... –
Il secondo, l'istante che passa a fissarmi e a soppesarmi col solo giudizio del suo sguardo è infinito, terrorizzante.
Alza le mani.
– Vattene, allora. Vattene, cazzo, sparisci. Diciassette anni, merda, se mi beccano con un diciassettenne mi ammazzano, dovrei ammazzarti solo per aver mentito, dovrei... –
Indietreggio.
Continua a parlare.
Continua a dire...
Mi sta seguendo?
Mi segue?
Non mi sta...
Mi giro, gli do le spalle, muovo le gambe più in fretta di quanto mi sarei aspettato di riuscire a fare e torno da dov'ero venuto, o almeno credo, con il corpo scosso da tremori che sembrano terremoti e panico puro addosso.
Porca troia.
Mi segue?
No, non mi segue.
Se mi segue che faccio?
Dove vado?
Devo chiamare mia madre?
Devo chiamare...
Mi guardo indietro, non c'è nessuno, fa freddo ed è buio ma non mi sembra che ci sia nessuno, la strada è libera, vuota.
Devo...
Prendo il telefono dalla tasca dei jeans.
Devo chiamare la mamma.
La odio, mi odia, ma per la miseria, verrà a prendermi, no?
Verrà a...
Mi tremano le mani, le ginocchia, cammino sempre meno svelto, le gambe iniziano a farmi male. Il cuore mi batte nel petto tanto che temo possa saltar fuori da un momento all'altro, il panico mi scorre addosso, mi scivola fra i muscoli.
Apro la rubrica con lo sguardo annebbiato dalle lacrime che non mi ero reso conto di star versando.
Ho fatto una cazzata.
Ho fatto una...
Scelgo il contatto, chiamo, porto il telefono all'orecchio.
Squilla.
Mi fermo.
Una goccia di pioggia mi cade in testa.
Il mondo si ferma.
Si ferma immobile, si blocca, non respira, non vive, rimane intrappolato in un limbo d'attesa che si perpetua propagandosi dal suono del mio telefono.
Squilla.
Squilla.
Squilla.
La chiamata si stacca.
Ok, ok, niente panico. Non se ne sarà accorta, non se ne sarà...
Rifaccio la chiamata.
Il telefono squilla.
Squilla.
Squilla.
Rispondi, rispondi, rispondi, ti prego, ti prego, rispo...
La chiamata si stacca.
Il mio braccio precipita verso terra, il telefono stretto in mano, mi cade lungo il fianco, il freddo mi s'infiltra fra le ossa, la pioggia mi si schianta addosso come se mi odiasse e non vedesse l'ora di soffocarmi e lasciarmi là, da solo, ad annegare sotto il pianto di un mondo che, di sicuro, non piange per me.
Cosa ti aspettavi, Kenma?
Avete litigato, ti odia.
Ti sei messo in tutto questo da solo.
Geniale idea, quella di scappare di casa per credere di essere come uno di quei personaggi nei film che sopperiscono alla loro delusione uscendo con gli amici.
Come se ne avessi, poi, di amici.
Mi sembra che l'acqua mi schiaffeggi il viso.
Giusto così, è giusto così.
Fammi male, mondo, che tanto non me ne hai già fatto abbastanza.
Lei ha ragione, quando dice che non saresti dovuto essere qui.
Non c'è per te un angolo di pace, Kenma, non c'è per te un secondo di calma.
Sei nato per questo.
Sei nato per...
Non so se quelle che scorrono sul mio viso siano lacrime o gocce di pioggia.
Il paesaggio sembra enorme, vasto, desolato attorno a me.
Il protagonista di una storia senza trama.
Questo sei.
Il protagonista di una storia che non si svolge, perché non interessa a nessuno sapere come andrà a finire.
Nemmeno le cose buone ho preso da lei.
Solo...
L'inutilità.
Non sono nemmeno capace di fare quello che fa lei.
Non sono nemmeno capace di sfruttare gli uomini, per quanto possa essere deplorevole, non sono nemmeno capace di piacere a qualcuno che fa qualcosa per me perché glielo chiedo sbattendo le ciglia.
Ora che faccio?
Forse cadrò qui e rimarrò qui.
Piangerebbe, se sapesse dove sei?
Sarebbe preoccupata?
No, no.
Direbbe che me lo sono meritato.
Perché me lo sono meritato.
Me lo sono...
Dov'è la fermata del bus? Sono piuttosto certo che non ne passino più a quest'ora, ma magari, se mi va bene, se mi va...
Ti va bene?
Se hai fortuna?
Hai mai avuto fortuna nella vita, Kenma, credi che il mondo ti riservi questa coccola, questo gesto d'amore?
Non la vedo nemmeno.
È troppo buio.
Rimango fermo a prendermi la furia del cielo addosso.
Che altro posso fare?
Non posso fare niente.
Non posso fare...
Lei almeno qualcuno che va a prenderla ce l'ha.
Qualcuno che si preoccupa per lei.
Anche se sono tutti diversi, anche se sono uno peggio dell'altro, anche se non la sopportano e dopo un po' se ne vanno, quantomeno per un periodo di tempo ci sono o ci sono stati.
Io...
Potrei chiamare un taxi?
Sì, e con quali soldi lo pago?
Forse...
Apro la rubrica del mio cellulare.
Ci sono dieci contatti.
Ci sono dieci...
Mia madre, qualche compagno del liceo a cui ho chiesto i compiti e da cui non ho ricevuto risposta, la compagnia telefonica, la segreteria della scuola.
Niente.
Niente di niente.
La desolazione di un desolato, la disperazione di un disperato.
Vivi la tua vita dicendoti che è tutta colpa di tua madre, Kenma, bravo, fallo. Che tanto almeno hai qualcuno a cui attribuire tutti i tuoi difetti, no?
Però poi che ti rimane in mano?
Niente.
Scorro col dito per raggiungere il fondo.
Nessuno.
Nessuno, nessuno, nessu...
Leggo il nome e i ricordi mi si aprono nella testa.
I miei occhi si appoggiano sulle lettere scritte in linea retta sul mio cellulare, vicino all'immagine anonima con cui il mio telefono salva gli utenti di default, e il mio cervello si apre e ripesca un'immagine dietro l'altra.
Il ragazzo di mamma, quello con cui stava quanti, due mesi fa?
Era rimasto due settimane, forse tre.
Me lo ricordo.
Me lo ricordo bene.
Era...
Gentile.
Ricordo l'esatto momento in cui mi aveva lasciato il suo numero.
Mi aveva chiesto se potesse, per ogni... evenienza.
Se potesse darmi il suo...
L'adrenalina mi scorre nella spina dorsale come una frustata. Esplode in un impeto di qualcosa che vaga a metà fra il coraggio e la disperazione.
Premo il nome.
Appoggio il telefono all'orecchio.
Squilla.
Squilla.
Squilla.
Figurati se risponde, cazzo.
Ma che cazzo pensavi, Kenma?
Ha lasciato tua madre e in ogni caso era lei, che gli interessava, di certo non tu. T'avrà dato il numero per farle un favore, per fare bella figura con lei, era gentile per ricevere apprezzamenti da lei, non perché gli importasse di te, di te non importa a nessuno.
Ti avrebbe lasciato uscire, tua madre, non ti avrebbe risposto, se le fosse importato di te?
Sarebbe andato via, tuo padre, se gli fosse importato di te?
Ti avrebbero lasciato tutti da solo, se a qualcuno fossi mai interessato?
Sei quello che dice lei.
Un impertinente stronzetto con la bocca troppo larga e aspettative troppo alte.
Sei niente.
Sei molto meno di niente.
Manco un viscido approfittatore era così interessato da te da molestarti per bene.
No, questo non lo devo dire.
Non devo dirlo, ma...
È vero.
È...
– Pronto? –
Il mio cuore si ferma.
Ha risposto.
Ha risposto, ha risposto, ora devi dire qualcosa, devi...
Il panico e l'adrenalina si mescolano alla pioggia.
La mia voce trema.
– Sei... sei il ragazzo della mamma? Sei... –
– Kenma? Sei Kenma? –
Sa il mio nome?
Si ricorda di...
– Sono Kenma. Scusa se chiamo, scusami, fa freddo e piove e non sapevo chi chiamare e giuro che stacco se ti do fastidio è che non so davvero che fare e mi sono perso, è notte, fa freddo, freddissimo, e... –
– Kenma, dove sei? –
– Sono.... –
Dove sono?
– Non so dove sono. È una strada. Un'autostrada. Ho preso il bus e non mi ricordo il nome della fermata. Non ne ho idea, so solo che fa freddo e... –
– Tua madre dov'è? Sei con lei? Vi siete persi? –
Deglutisco la saliva.
Ovvio che le interessi di lei.
Ovvio.
A chi interessa di te?
Ti ha risposto perché gli interessa di lei.
Solo di...
– A casa. Sono da solo. –
– A casa? Tu sei di notte non si sa dove e lei è a casa? –
Ha il tono infastidito, sembra... incazzato.
Ce l'ha con me perché l'ho disturbato?
È ovvio che ce l'abbia con me, ma...
– Non volevo scappare. Sono uscito perché abbiamo litigato ma le chiederò scusa quando tornerò a casa, lo giuro, solo... non so cosa fare. –
– Lei non ti risponde? –
Sento il rumore di qualcosa di sottofondo.
Un rumore metallico.
Cosa sta facendo?
– No. –
Il rumore successivo che arriva alle mie orecchie pare... una porta che si apre.
Sta aprendo una porta?
Sta andando da qualche parte?
Forse...
– Non so perché ho chiamato, scusami, non volevo disturbarti, davvero, ora stacco, scusami, davvero, scu... –
– Non staccare la chiamata. –
Non devo staccare la...
Sono stanco.
Sfinito, solo, disperato, infreddolito.
Ho chiamato un ex di mia madre di notte perso in mezzo ad un'autostrada.
Non capisco niente.
Nulla.
Davvero, non...
– Guarda se c'è qualche cartello vicino a te. Qualche cartello stradale. –
Giro il collo a destra o a sinistra.
Ce n'è uno.
– Sì, c'è. –
– Leggi cosa c'è scritto sopra. –
– Non vedo bene, non ho gli occhiali, non so cosa... –
– Ti prego, Kenma, leggi cosa c'è scritto sopra. Fai uno sforzo. –
Il tono della sua voce attraverso il telefono è più metallico che dal vivo, ma simile a quanto ricordassi.
È caldo.
Pacato.
Un po'... autorevole.
Mi avvicino di qualche passo, cerco di controllare il mio respiro, di calmarmi.
Leggo ad alta voce.
Mi tremano le lettere in bocca, devo ricominciare daccapo due volte, ma...
– Bravo, Kenma. Sei stato bravo. –
Il gelo un po' si scioglie.
Se non fossi disperato e solo, mi fermerei a pensare a perché il mio cuore batta un po' più velocemente.
– So dove sei. Vengo a prenderti. – dice il secondo dopo.
– Vieni a... –
– Stai fermo dove sei, mettiti dietro le transenne, è buio e le macchine potrebbero sbandare. Arrivo subito, cerco di fare in fretta, stai immobile dove sei. –
– Ma... –
– Va tutto bene, Kenma. Arrivo subito. Non devi avere paura. Arrivo. –
Non devo avere paura.
Va tutto bene.
Arriva...
– Ti prego, fa' in fretta. – dice la mia voce senza che io possa fermarla, disperata e speranzosa e attaccata all'idea che forse a qualcuno importa, ogni tanto, di me.
– Faccio più in fretta che posso. –
La chiamata si stacca, il silenzio torna a regnare, il mondo si ferma di nuovo.
Guardo lo schermo del telefono con gli occhi spalancati, il surrealismo di quello che è appena successo ancora espanso sulla pelle, il freddo nelle ossa, fra le dita, attorno al cervello che non riesce a pensare.
C'è scritto "chiamata appena conclusa", sotto al contatto.
E sul contatto c'è scritto "Kuroo Tetsurō."
Kuroo Tetsurō e mia madre sono stati insieme poco.
Di lui ricordo com'è fatto, come suona la sua voce e la sua presenza in casa. Ricordo le spalle larghe, il viso, il modo di fare.
Non tutti i ragazzi di mia madre sono belli.
Lui lo era.
Credo lo sia ancora.
Era alto.
Alto parecchio, molto più di me.
Il suo corpo sembrava non finire mai.
Ed era...
Di solito i ragazzi di mia madre m'ignorano, fanno finta che io non esista. Mi trattano come se non esistessi, come se fossi un orpello alla loro vita di coppia, nulla di più, un elemento d'arredo nella casa di qualcuno che a loro piace di più.
Kuroo Tetsurō era gentile con me.
Ricordo che mi chiedeva... cosa avessi fatto a scuola. Se volessi fare colazione, se stessi bene, cosa facessi mentre loro uscivano. Diceva a mia madre... "non qui, c'è Kenma", quando cercava di baciarlo, diceva "lascialo in pace, dai" ridendo quando mi prendeva in giro.
Invidiavo mia madre.
Me lo ricordo bene, ora.
Io...
Invidiavo mia madre.
Pensavo che fosse troppo per lei.
Pensavo che l'avrei voluto... anche io.
Quando si sono lasciati ero felice.
Felice perché non m'avrebbe sbattuto in faccia il suo fidanzato perfetto ogni giorno.
Felice perché almeno non stava con lei.
Forse un po' triste che non l'avrei più rivisto.
Non ho mai saputo niente di lui, solo quello che sapeva mia madre.
Era più giovane di lei, ventotto anni, mi pare, ventinove. Era stato nell'esercito. Lavorava in ambito sportivo, s'infortunava spesso, certe volte era irraggiungibile.
Era simpatico.
Non sono così arrogante da pensare che gli interessassi ma...
Almeno non era cattivo.
Almeno non era...
Stringo le braccia attorno a me stesso, ma l'effetto che ottengo è opposto a quello sperato, perché il contatto forzato coi vestiti fradici mi fa raggelare.
E se andasse tutto male?
E se...
Magari ha risposto per scherzo. Magari è con lei, sono assieme, che ridono di me, che ridono di me e mi trattano male e mi lasciano solo come hanno sempre fatto. Magari ha detto che sarebbe venuto ma non viene, magari...
Posso concedermi di sperare che arrivi?
Ma perché dovrebbe, Kenma?
Per quale motivo?
È stato due settimane, tre, forse, con tua madre due mesi fa.
Per quale motivo mai dovrebbe raggiungerti o farti un favore o venirti a prendere?
Ti stava prendendo in giro.
Tu morirai qui.
Tu rimarrai qui.
Nessuno verrà a salvarti.
Ti ci sei buttato tu, in mare, sperare che qualcuno ti salvi dall'annegamento quando hai detto a tutti che sapevi nuotare, è inutile.
Tu sei...
La moto mi si ferma davanti non so quanto tempo dopo.
Con la pioggia torrenziale non mi ero reso nemmeno conto del rumore, immerso com'ero nella mia autocommiserazione.
Una figura scende, appoggia entrambe le mani sul casco, lo toglie.
Il mio cuore batte forte nel petto.
È la notte? La luce elettrica dei lampioni, la pioggia, il sonno, la paura?
Non so cosa sia.
So solo che...
Alto. Altissimo, svetta sopra di me, le spalle sono larghe, il corpo saldo, solido, completamente vestito di nero, con la giacca di pelle chiusa sul petto, gli occhi ambrati che scintillano, i capelli scuri, corvini che scendono come la pioggia entra a contatto con loro. Sembra assorbire tutta la luce come un corpo nero, sembra... invadermi la visuale.
Sembra...
Stringe il mio viso con le mani.
– Ti avevo detto di andare dietro la transenna, perché non mi hai ascoltato? –
Non riesco a dire niente.
– Merda, stai congelando. –
Mi passa le dita sotto gli occhi.
– Hai fatto bene a chiamarmi. Ora ti porto a casa. –
È venuto qualcuno.
A salvarmi, è venuto...
Qualcuno.
Qualcuno che...
– Cosa è successo? – chiede, poi, tirando il mio viso indietro perché i suoi occhi possano incontrare i miei.
È sempre più vicino.
Mi sembra di sentirlo, il suo corpo.
Di percepirmelo addosso.
– Kenma? –
– Sono uscito. Volevo bere qualcosa. Volevo... –
– Eri con degli amici? –
– Io non ho degli amici. –
Non ride di me.
Lui non...
– Ho chiesto ad un tizio di prendermi da bere ma poi è andata male e sono scappato e mi sono ritrovato qui. –
– Cazzo, Kenma. Ma che ti dice il cervello? Perché diavolo sei... –
– Non lo so, non ne ho idea, non lo so. Lo so che ho fatto una cazzata, ma non volevo stare a casa e volevo uscire e volevo... non lo so, non lo so. Ho paura, ho... –
È arrabbiato con me?
È arrabbiato con me perché sono stupido, vero?
Perché l'ho disturbato facendo una stronzata e perché...
Mi accarezza i capelli.
Guarda dritto davanti a sé, l'interno della guancia fra i denti, muove una mano sopra la mia testa.
– Va tutto bene. Ora va tutto bene. –
Va tutto bene?
Va tutto bene perché...
– Il tipo è venuto con te? Ti ha seguito? –
– Credo... credo di no. –
– Ti ha toccato? –
– Ha cercato di baciarmi. –
S'irrigidisce per un attimo.
– Tu volevi che ti baciasse? –
– No, no, non volevo, sono scappato perché... –
Sento la sua mano stringersi impercettibilmente fra i miei capelli, il suo tocco diventare appena più saldo, le parole si affievoliscono fino a scomparirmi dalla bocca.
Non so cosa intenda con questa reazione.
Non so cosa intenda con qualsiasi cosa faccia.
Non ho la minima idea di cosa stia succedendo, so solo che il mio panico ora è...
Sollievo.
Sorpresa.
Forse...
– La prossima volta mi chiami subito, ok? Subito. Se ti ritrovi da solo di notte in un posto che non conosci mi chiami subito. –
– Ti chiamo subito? –
– Mi chiami subito. È pericoloso, Kenma, è pericoloso per chiunque, a maggior ragione per te. –
A maggior ragione per me?
Per quale motivo?
Perché attiro l'attenzione?
Perché sono scemo e mi metto in situazioni di merda?
Perché sono...
– Ti sei fatto male da qualche parte? –
– No. –
– Menomale. –
Smette di accarezzarmi i capelli.
No, ricomincia.
Era... piacevole.
Era...
Mi prende di nuovo il viso con le mani, lo tira su, mi guarda. Ruota piano la testa sul collo per squadrarmi bene, come se cercasse una ferita.
Quando decide che è soddisfatto mi lascia andare.
L'attimo dopo lo vedo raggiungere la zip della sua giacca, smanettare un attimo con la cerniera, aprirla.
La toglie di dosso.
La mette sulle mie...
Ha una maglietta a maniche corte, sotto.
– Non hai fre... –
– Sono andato in guerra, Kenma, non mi faranno male due gocce di pioggia. –
Infilo con incertezza, con calma, quasi con deferenza le braccia dentro le maniche, aspetto che me la stringa addosso e me l'allacci.
È troppo grande.
Troppo...
I vestiti fradici a contatto col mio corpo continuano a farmi rabbrividire, ma mi si apre addosso una sensazione di calore che non so quanto abbia a che fare con la giacca e quanto col proprietario.
Mi ritrovo a guardarlo.
Merda, se la pioggia non gli fa onore.
Gli appiccica la maglietta al corpo e s'intravede la pelle piena d'inchiostro al di sotto, lascia libere e nude le braccia che sono tanto belle, tanto solide, mostra un'intricata corona di spine, credo, che gli avvolge un avambraccio, le vene in superficie sulle braccia.
– Legati i capelli, toglieteli via dalla faccia. –
Sbatto le palpebre.
– Eh? –
– I capelli. –
Devo legarmi...
Ok.
Prendo l'elastico dal polso e con paio di gesti stringo i capelli fradici in una crocchia.
– Meglio. –
– Meglio? –
Annuisce brevemente.
È per il casco? Perché mi serve di avere i capelli legati per metterlo? Perché...
Indietreggia di qualche passo, lo vedo girarsi verso la moto e da non so dove, non riesco a vedere dove, tira fuori un altro casco oltre a quello che ha lasciato sul sellino un secondo fa.
– Ora te lo metto, ok? –
– Ok. –
Flette le braccia e in un attimo l'acqua smette di arrivarmi in faccia e sbatte sullo strato trasparente di fronte ai miei occhi, le sue mani stanno allacciando il gancio sotto il mio mento, le dita indugiano contro la mia pelle e mi sistemano per bene.
– Tutto a posto? È largo? –
La sua voce mi arriva attutita.
– Va bene. –
– Alza la voce, Kenma, non ti sento. –
– Va bene. – ripeto, con il tono un po' più sostenuto.
– Ecco, così, bravo. Perfetto, ora sali. –
Si gira, si mette il casco che aveva addosso un secondo fa, passa senza alcun problema la gamba dall'altra parte e sporge la mano per aiutarmi.
È...
Sembra complicato.
Non lo è.
Lo sembra, però.
Ho paura di cadere e mi tremano le ginocchia e...
Ce la faccio.
Mi siedo e...
Forse parla, di sicuro non lo sento, però i suoi movimenti, quelli li capisco per bene. Cerca le mie mani nelle maniche, mi prende i polsi, si stringe le mani in vita. Mi strattona, ma lo fa delicatamente, credo per dirmi di tenermi bene, appoggia i miei palmi sulla sua pancia, mi... accarezza una mano.
Credo mi stia chiedendo se va tutto... bene?
Annuisco.
Annuisce anche lui.
Poi accende la moto, tira su il piede che aveva a terra e parte.
Tutta la timidezza che potevo provare nei confronti di stargli appiccicato come una cozza, sparisce appena accelera.
Mi stringo.
Mi stringo... forte.
Questa cosa va... veloce.
Molto veloce.
Molto...
Chissà se la mamma c'è mai salita, con lui in moto. Chissà se ha mai aperto le mani sui suoi addominali come sto facendo io, chissà se ha pensato come me che quest'uomo è costruito in cemento armato e qualsiasi angolo si tocchi di lui sia solido e rigido, chissà se ha pensato come sto facendo io che fosse... nel terrore di non averlo mai fatto anche divertente.
Spero di no.
Spero di...
Mi piace come dice il mio nome.
Mi piacciono le cose che mi ha detto.
Ora che sono qui a stringerlo come se per un attimo, uno solo, fosse qui solo per me, tutto quello che un secondo fa era veloce, era immediato, diventa lento.
È stato...
Carino con me.
È sempre stato carino con me.
Lui è...
Mi stringo più forte.
Mi tratta bene.
Mi ha chiesto se stessi bene come se gli importasse di me.
A nessuno importa, ma se un pochino importasse a lui, magari...
L'odio per mia madre spunta in una forma strana, ora.
Spunta come...
Dev'essere stupida. Dev'essere una donna stupida, una donna davvero idiota. È stata con... lui e si è fatta lasciare? Come ha fatto? Non ci ha messo un po' d'impegno, miseria? Non si è resa conto di cosa avesse davanti? Non si è resa conto di cosa...
Se qualcuno del genere fosse fidanzato con me anche solo un giorno della mia vita faticherei in tutti i modi possibili per cercare di tenermelo.
Farei... di tutto.
Farei davvero...
So qual è la realtà.
Lo so bene.
E so che tutto quello che succede è molto, molto peggio di quello che il mio cuore spera.
Però... con le mani su di lui, stretto su di lui, salvato e curato come se per un attimo solo fossi qualcuno che lui desidera salvare e curare, mi viene da immaginare come sarebbe se realmente fosse qui per me e non per lei.
Lo so che è qui per lei.
Sono tutti qui solo per lei.
Io sono...
L'altro.
Perché...
Quando ricominciano a vedersi i segni dei centri abitati, compaiono i semafori. Ad un certo punto ne compare uno rosso, la moto rallenta, Kuroo tira giù una delle gambe chilometriche per reggere la moto mentre stiamo fermi.
Io non faccio nulla, sto immobile con le mani ancora chiuse e strette sulla sua pancia.
Dobbiamo proprio andarci a casa?
Non possiamo stare così per un po'?
Non possiamo...
Appoggia una mano sulle mie.
È grande, le copre entrambe, quasi. Indugia sulla consistenza morbida delle mie dita, come se fosse un gesto di riflesso, come se si stesse accertando del fatto che io le tenga là, che mi tenga per bene.
Forse l'ho avuta, la mia serata un po' pazza.
Forse questa è la mia serata un po' pazza.
È triste che per me questo significhi avere qualcuno che si prende cura di me, vero? È triste, so che è triste. Però...
Piego il viso, appoggio la guancia per quanto riesca contro la sua schiena, chiudo gli occhi.
Un attimo solo.
Un...
Il semaforo diventa verde, Kuroo rimette su la gamba e riparte.
Vorrei fermarlo.
Dirgli...
Portami dove vuoi, Kuroo Tetsurō che sei sempre stato gentile con me e a cui sembra che di me importi.
Basta che non mi porti a casa mia.
Dove vuoi, davvero.
Rimaniamo qui, che dici?
Andiamo via.
Ci verresti via con me?
Tu...
Sembra un sogno. Ho la sensazione che da un momento all'altro mi sveglierò nel mio letto tutto sudato, col respiro corto, le coperte arruffate ai miei piedi e il profilo di camera mia di fronte agli occhi.
Non so se sia reale.
So che...
Mi piace.
Vorrei rimanere qui per sempre.
Vorrei...
Riconosco la via.
Quando imbocca la via di casa mia, la riconosco. Riconosco i cartelli, gli alberi, le macchine parcheggiate sui bordi della strada, riconosco la strada, l'asfalto, il rumore silenzioso della notte quando la permea.
No.
No, no.
Vattene via.
Cambia posto, cambia strada, cambia direzione.
Non portarmi a casa.
Cosa mi rimarrà di te quando mi porterai a casa?
Il ricordo, sì, il ricordo piacevole che col tempo diventerà sempre più surreale, sempre più distante, sempre più simile ad una fantasia che ad un evento realmente accaduto.
Non portarmi a casa.
Rimaniamo qui finché...
Finché...
Si ferma.
Sul vialetto dissestato di casa mia, si ferma.
Con lui il mio cuore per un attimo.
Ferma il motore, gira la chiave, scende dalla moto, mi offre una mano.
No.
No, no, no, no.
Non farmi scendere, non farmi...
Accetto la mano, scendo com'ero salito, con attenzione, la sensazione di pace nel mio petto ora una lama che mi soffoca il respiro e il battito cardiaco nella consapevolezza che questa parentesi di serenità è finita.
Mi faccio pena da solo.
Devi essere proprio una persona in grado di avere relazioni sociali importanti per sentirti così legato ad un ex fidanzato di tua madre che è venuto a prenderti per farti un favore una volta, Kenma.
Devi essere proprio...
Mi tolgo il casco.
Lo porgo a Kuroo.
Lui si toglie il suo, lo appoggia sul sellino e così fa col mio.
– Abiti qui, vero? –
– Mh-mh, sì. Grazie di avermi portato. –
– Nessun problema. –
Devo...
Togliermi la sua giacca.
Porto le mani al collo, apro la cerniera, la abbasso e me la tolgo dalle spalle.
Piove, ma piove una pioggia più leggera, ora, più sottile, non fa rumore, offusca solo la vista.
Gliela porgo e lui l'accetta, quando si piega per prenderla vedo scintillargli qualcosa addosso, una collana, istintivamente guardo.
Ah, è la piastrina militare, è vero. Ce l'aveva anche quando stava con lei, mi ricordo, me l'aveva fatta vedere.
"Kuroo Tetsurō, 17/11/94, 202 cm, 0-, JP".
Questo c'è scritto.
Ricordo di averla letta.
Ricordo che mi s'era messo vicino per farmela vedere.
Ricordo...
Vorrei prenderla e tirarlo giù da quella, stringerlo forte, chiedergli di rimanere, di portarmi via, di fare qualsiasi cosa non sia andarsene e lasciarmi qui.
Ti prego, non... svegliarmi da questo sogno in cui ti preoccupi per me.
Anche se non t'importa niente di me.
Anche se...
– Se rimani fuori ti congeli, Kenma. Rientra. –
Sfalda la mia volontà come se colpisse con una mazza una perfetta, liscia lastra di vetro.
La distrugge, la fa a pezzi.
Ovviamente.
Ovviamente devo rientrare.
Ovviamente devo andarmene.
Nessuno vuole che rimanga.
– Ora vado. –
– Bravo. –
– Grazie ancora. –
Alzo lo sguardo verso la porta di casa.
Fammi passare.
Così potrò andare a rintanarmi sotto l'acqua bollente della doccia e esaurire tutte le mie lacrime là sotto, coperto dall'intimità di casa mia, nascosto da te che mi dai tanta speranza ma solo perché m'attacco a tutto quello che nella mia vita pare grigio invece che nero.
Fammi...
Si avvicina a me con una mano.
M'infila una ciocca di capelli fradici dietro l'orecchio, facendolo quasi mi accarezza il viso.
– Promettimi che la prossima volta che ti trovi nella merda mi scrivi subito e non stai a prendere la pioggia senza fare niente. –
Spalanco gli occhi.
Eh?
– Te lo... prometto. – rispondo, più in un atto meccanico che in un effettivo pensiero coerente.
– Promettimi che non t'infili più in una situazione del genere. –
– Te lo prometto. –
Mi guarda negli occhi.
I miei sono grandi e tondi, innocenti e infantili, lo so, li ho visti migliaia di volte.
I suoi...
Sembra un felino, Kuroo Tetsurō. Non un gatto, morbido e soffice e familiare, ma uno di quelli grandi, uno di quelli minacciosi che non sai se ti lasceranno in pace o ti squarceranno la gola con un morso.
Ha un tatuaggio che ricordo di aver visto sul fianco.
Ha disegnata sul corpo...
Una pantera.
Lui è una pantera.
È...
– Quando ti ho dato il mio numero nel caso avessi avuto bisogno di una mano o nel caso fosse successo qualcosa, intendevo che puoi usarlo, Kenma. Usalo. Chiamami. Se hai bisogno di me, chiamami. –
– Credevo che l'avessi fatto per la ma... –
– Tua madre non c'entra. È una cosa fra me e te. Io ho dato il mio numero a te. –
Ambra, ma come se nell'ambra qualcuno avesse intrappolato una goccia di sangue ad intorbidirne l'oro.
Scintillano nella notte, mi seguono, mi inchiodano a terra, mi rendono una preda che non vede l'ora di farsi scannare.
Ed è vero, che non vedo l'ora.
Io...
– Anzi... non dirle che sono venuto io, se te lo chiede. Non dirle che mi hai visto. Facciamo che è un nostro segreto, ok? –
Sbatto le ciglia.
Un segreto... nostro?
Di noi due?
Solo...
– Ok, va bene. –
– Perfetto. –
A questo punto si sposta, mi lascia libera la strada, ma...
La prospettiva di piangere non mi è più così vicina. Ora è più...
Nostro.
Un segreto nostro.
Non c'entra con lei.
Tutto c'entra sempre con lei, tutto riguarda sempre lei, tutto è solo lei, ma questo, questo è mio, è nostro, non è suo, è nostro e non è...
– Fai il bravo, Kenma, ok? –
– Faccio il bravo. –
Mi arruffa un'altra volta i capelli, mi sorride. È un sorriso piccolo, appena accennato, ma è un sorriso ed è bello e il mio cuore batte forte, così forte, la mia testa prega di non svegliarmi da questo sogno e di rimanere qui e di...
– Vai, ora. –
Mi allontano.
Gli do le spalle e mi allontano.
Lo faccio con le gambe che tremano, col cuore in gola.
Prendo le chiavi dalla tasca sul retro dei pantaloni, le infilo sulla porta, giro piano sulla serratura che non centro al primo colpo perché è buio, vedo poco, ho freddo, rientro in casa.
Non mi giro a guardarlo perché non voglio fargli vedere l'euforia sul mio viso, l'eccitazione, perché non voglio sembrargli un ragazzino emozionato all'idea che uno come lui, interessante e bello e un po' misterioso e un sacco di altre cose, abbia dato corda a uno come me.
Però so che il motore della moto non riparte.
So che aspetta che io entri.
Io entro.
Lui mi guarda.
Mi guarda le... spalle.
Mi...
La porta si chiude dietro di me, lo taglia fuori, lo allontana, il sogno finisce.
Mi ritrovo in casa mia in un attimo e mi paiono passati secondi dal momento in cui piangevo disperato sul ciglio della strada convinto che sarei morto là.
Mi ritrovo a guardare il solito bell'ammasso di nulla, casa mia, il casino, la bottiglia di vino vuota sul tavolino del salotto, il rumore solito di mia madre che russa sul divano probabilmente addormentata da tutto quello che ha bevuto.
Il sogno è finito.
La fantasia è conclusa.
Però...
La posso rivivere e posso rivivere il fatto che sia nostra, che sia mia, che sia successa e che sia successa a me, che per pochi secondi...
Il mio cellulare squilla.
Lo prendo con le mani che tremano.
Apro la notifica.
[Kuroo Tetsurō] >> Comunque puoi chiamarmi anche solo per parlare, non solo se ti succede qualcosa <<
[Kuroo Tetsurō] >> Mi farebbe piacere sentirti ogni tanto <<
[Kuroo Tetsurō] >> Ho lasciato tua madre ma tu continui a piacermi <<
Il sogno non è finito.
La fantasia non è conclusa.
O forse sono solo un folle che immagina le cose e cerca di scappare da quello che ha.
continua ⇘
comunque WATTPAD MI HA CANCELLATO IL COMMENTO A FINE STORIA APP INUTILE QUINDI ORA DI NOTTE STANCA LO RISCRIVO
OK AME NUOVA STORIA PAZZA
DITEMI CHE NE PENSATE VI PREGO
IL PROSSIMO CAPITOLO ESCE VENERDÌ PROSSIMO
UN BACIO
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