𝘪 𝘧𝘪𝘭𝘭 𝘵𝘩𝘦 𝘣𝘢𝘵𝘩 𝘸𝘪𝘵𝘩 𝘣𝘶𝘣𝘣𝘭𝘦𝘴
continua ⇘
Sono passati sei giorni.
Me ne rendo conto quando accendo la schermata del telefono e vedo la data che campeggia in alto, là, scura a contrasto col colore chiaro dello sfondo pre-impostato del cellulare che non ho mai avuto cuore di cambiare.
Sei giorni.
Sei...
Sei giorni.
Sei giorni dopo, come sto?
Sei giorni dopo, cos'è successo?
Sei giorni dopo... sei giorni dopo, cos'è cambiato?
Spengo lo schermo col tastino sul lato.
Niente.
Non è cambiato niente.
E tutto ancora, forse di più, mi pare una fantasia della mia mente, un'allucinazione, un sogno, più che un effettivo ricordo dentro di me.
Metto via il cellulare, riprendo il libro che avevo pigramente lasciato da parte per concedermi qualche istante di pausa, lo appoggio di nuovo sulle mie ginocchia e immergo una volta ancora i miei occhi fra le righe fitte che al momento, so bene di non poter comprendere.
Cosa mi aspettavo che sarebbe successo?
Niente.
In realtà, niente.
Non mi sono mai aspettato... niente, io, dalla vita.
Non è che avessi una vera e propria speranza, nei confronti di questa cosa, assolutamente.
Però...
Cerco di concentrarmi sul paragrafo.
La vita è la stessa di prima. La scuola, casa, mia madre. Il mio anonimato non è mutato di una virgola, la mia sensazione d'essere inutile, trasparente, acqua che scorre sul mondo e che non si ferma raccolta da nessuna parte, ma semplicemente continua a defluire, defluire, finché di lei non saranno rimaste poche gocce dimenticate da tutti.
Kuroo Tetsurō è stato un fulmine a ciel sereno, un tuono, come quelli che guardavo una settimana fa. È stato un lampo di luce improvviso, l'esplodere di qualcosa di grande, importante, meraviglioso.
Ma la scarica è svanita.
È passata oltre.
E ora di me, rimane...
Guardo il telefono, lancio un'occhiatina vaga allo schermo nonostante l'abbia controllato un attimo fa, mi do un ceffone mentale quando mi rendo conto di cosa io stia facendo.
Non mi ha scritto.
Non mi ha contatto.
Non credo gli...
L'ho chiesto a mia madre, stamattina. Le ho chiesto, così per ridere, per fare, senza serietà, che cos'avrebbe fatto lei se "una persona che le interessava fosse sparita dopo averle dato segnali contrastanti".
Mi ha risposto che non ne aveva idea.
Che a lei, questo, non era mai successo.
Ovviamente, questo capita solo a me.
Stringo lo sguardo sullo schermo scuro, il mio cervello prega, brama, chiede di vederlo illuminarsi, di veder comparire là sopra il nome, l'idea, la percezione di Kuroo Tetsurō.
Ma non accade.
Perché a me, solo a me, capita che il mondo sia così oberato da se stesso da dimenticarsi della mia presenza, da dimenticarsi che un barlume di gioia, forse, lo merito anch'io.
Merda, domani ho la verifica.
Sapevo di avere la verifica.
E invece di star qui a studiare come dovrei fare, per mantenere quella mediocrità grigia dei miei voti, sto perdendo tempo a fissare il telefono sperando che l'ex di mia madre, di undici anni più grande di me, mi scriva, quando palesemente non ne ha intenzione.
Cazzo, se non parlassi di me stesso quasi riderei.
Che sfigato.
Che misero atto d'inutilità della vita.
Che persona... sola.
Chiudo forte gli occhi, cerco di radunare tutti i pensieri, di metterli in fila per poterli risistemare nei loro rispettivi cassetti e liberarmi il cervello anche solo per un attimo, un'oretta o due, per permettermi di tornare ad essere almeno me, nel mio grigiore e nella mia noia, più che un cretino che spera qualcosa che non dovrebbe sperare.
Non c'è nessuna speranza.
Non c'è nessuno scenario.
Non c'è nessun motivo.
Non c'è...
Il rumore della porta al piano di sotto mi fa sobbalzare. Le pareti sono sottili, la casa su due piani ma piccola, la serratura che si sgancia e la porta che si apre arrivano alle mie orecchie immediatamente, spezzando e gettando in pezzi qualsiasi concentrazione io stessi cercando di ottenere.
Ah, perfetto.
Ancora meglio.
È... è tornata.
Lei, Medusa, lei, Gorgone, lei, pietrificatrice di uomini condannata all'odio da chi non ha saputo amarla, rispettarla, volerle bene. Lei, col fardello di un peso che odia, che non ha chiesto, che esorcizza il suo dolore con la rabbia, con la crudeltà d'essere chi è.
È un mostro.
Ma almeno qualcuno di lei... si ricorda.
La sento urlare, ridere, la voce che si mescola alla sua è maschile, bassa, non la conosco. Non credo mi saluti, non la sento dire il mio nome, ma ride, ride forte, credo sia ubriaca, di nuovo, di sicuro lo è il suo interlocutore.
Si divertono.
Vogliono bere ancora.
Credono la casa sia loro, mentre urlano e festeggiano un giorno che era come tutti gli altri, speciale solo per chi qualche volta tenta di renderlo tale.
Alzo gli occhi al cielo così tanto che temo di lasciarli bloccati là, incastrati nell'osso, per sempre a guardarmi dentro.
Ci mancava solo lei.
Solo, solo lei.
Non bastavano la mia verifica che andrà male, la mia solitudine, Kuroo Tetsurō che appare e scompare, la mia tristezza, il mio grigiore, no.
Anche lei.
Lei che mi odia e che comunque nonostante mi odi vive meglio di me.
Lei che si diverte.
Lei che sulle mie spalle butta solo cioè che non le piace, perché tutto quello che di bello ha se lo tiene solo per sé.
'Fanculo.
Questa cosa deve...
Mi lascio cadere indietro sul letto, il libro crolla di lato, metà si schiaccia sul materasso, metà mi rimane in grembo. Prendo il telefono con un braccio stanco, lo schiaffo accanto alla mia faccia, schiaccio la guancia contro il lenzuolo per poter guardare.
Non mi ha scritto.
Non mi scriverà.
Posso... riguardare quei tre messaggi, però.
Credo che mi dedicherò a questo.
Apro l'app di messaggistica, la chat è la prima, senza una foto, solo col nome e il cognome stampati là a fissarmi, zitta, muta, silenziosa.
E pensare che una settimana fa ero convinto fossi venuto a salvarmi.
Forse sei solo venuto a ricordarmi quanto sono triste, quanto sono solo. Forse sei venuto a prendermi in giro. Forse non sei nemmeno venuto davvero.
Forse...
Mi vibra fra le mani.
Contro ogni regola secondo cui più guardi qualcosa meno quella si sbriga ad accadere, il cellulare mi vibra fra le mani.
Fa un rumore che quasi non conosco, quello della notifica, la tendina si abbassa, mostra...
Cosa?
Sto sognando, vero?
Sto allucinando.
Ho studiato troppo e sto impazzendo. È così, è per forza così, non può essere altrimenti. Perché ora, perché adesso, perché proprio...
In realtà sono sei giorni che passi le tue giornate col naso di fronte al telefono, Kenma. Sei giorni. Pensare che non sarebbe successo in questo modo è ingenuo.
Pensare che sarebbe successo, d'altro canto, era illudermi.
E quindi...
[Kuroo Tetsurō] >> Ciao <<
[Kuroo Tetsurō] >> Scusa se ti scrivo di punto in bianco ma non ti sei fatto più sentire <<
[Kuroo Tetsurō] >> Volevo solo controllare che stessi bene <<
Il cuore mi salta fuori dal petto. Sfonda la cassa toracica, divelle il mio torso, si fa strada a mani nude dilaniando e squartando ed esce, inizia a vagare per la stanza.
Cosa?
Non sta succedendo davvero.
Non sta...
Mi tremano le mani.
[You] >> ciao <<
[You] >> sì sto bene <<
[You] >> grazie per aver chiesto <<
Fisso le parole che ho scritto e che pendono dalla mia parte con odio, con disprezzo, mi viene naturale chiedermi se fosse questo tutto quello che avevo da dire ad un uomo che spero, mi auguro mi contatti da giorni, e al contempo mi chiedo che altro avrei potuto scrivere, che altro...
[Kuroo Tetsurō] >> Non hai avuto altri problemi? <<
[You] >> tranne la verifica di mate di domani e mia madre che fa casino no grazie a dio <<
[Kuroo Tetsurō] >> Povero Kenma <<
Mi pare di... intravedere la sua faccia dietro quelle due parole. Mi pare d'intravedere il suo mezzo sorriso, quello che ho potuto ammirare sei giorni fa e prima, quando stava con mia madre.
[Kuroo Tetsurō] >> Posso chiamarti per controllare che tu stia effettivamente bene e non ti sia infilato in un'altra situazione di merda? <<
Rispondo senza pensarci.
[You] >> certo sisi quando vuoi <<
Passa qualche istante surreale prima che la realtà si compia e spazzi via tutto il grigiore che s'era accumulato dentro di me in sei giorni d'interminabile silenzio conclusi da un semplice, stupido, normalissimo "ciao".
Lo schermo si accende, la chiamata compare, e io scorro col dito talmente veloce che nemmeno credo il cellulare squilli nell'orecchio di Kuroo.
Lo porto verso di me.
Ammutolisco.
Sto zitto in attesa che la sua voce compaia e che, bella com'è, rilassi ogni mio singolo muscolo e mi faccia sentire poco, giusto un po', più speciale di come non mi sentissi un attimo fa.
– Hai fatto in fretta, ragazzino. Che c'è, aspettavi solo che ti chiamassi? –
Ride, quando lo dice.
Io arrossisco, perché è vero e perché ho l'impressione che sappia che lo è.
– No, solo mi sto annoiando un sacco. –
– I compiti e tua madre, eh? –
– I compiti e mia madre. –
Sospiro, lui ride di nuovo, i rumori si mescolano.
– Stai avendo una serata tremenda? –
"Ora no", vorrei rispondere, ma non lo faccio, non...
– Un po'. –
– Ti va di raccontarmi cosa sta succedendo? –
– Non voglio farti perdere tempo. –
– Non lo faresti. Te l'ho chiesto io. M'interessa, Kenma. –
Se dovessi descrivere la sensazione che provo, credo la paragonerei ad una frustata per la velocità, l'impatto e il rumore che fa dentro di me. Una frustata piacevole, pur sempre una frustata.
Mi sento improvvisamente più caldo, improvvisamente più rigido, più debole. Il mio respiro si spezza, il cuore salta un battito.
Gli... interessa?
Di me?
Di me, di me, a lui interessa di me, di me e solo...
– È tornata a casa un attimo fa con uno. Urlano un po', sai com'è mia madre, ha il tono di voce... alto. Io sto cercando di studiare ed è difficile con loro che fanno rumore. –
È difficile anche concentrandomi esclusivamente sul mio cellulare in attesa che tu mi scriva, ma questo, se permetti, non te lo dico.
– Hai provato a mettere un po' di musica? –
– Non studio molto bene con la musica, mi distrae. –
– Mmh, miseria. –
La sua voce ha qualcosa di pieno, in sé, qualcosa di caldo e basso e avvolgente. Si sente meglio quando stringe le labbra e mugugna, risuona meglio, quella nota così maschile, così attraente.
– Tanto fra venti minuti o vanno in camera da letto o si addormentano. Devo solo aspettare un pochino. –
– Non li senti quando vanno in camera da letto? –
– Sì che li sento. Ma di solito dura poco. –
Io sento, ovviamente sento, questa casa ha le pareti di cartongesso, sembrano carta velina per le onde acustiche che mi si schiantano nelle orecchie.
– E poi se vado in bagno quasi non si sente niente quindi mi metto lì per un po' finché non finiscono e poi torno a studiare. – aggiungo, dopo un attimo.
Rimane in silenzio, all'inizio.
Poi, quando parla, il tono non è mellifluo, è un po'... incazzato.
– E tua madre lo sa che senti? –
– Non credo si sia mai posta il problema. –
– Ma come cazzo si fa? –
Sento le mie sopracciglia aggrottarsi da sole.
– Eh? –
– Come cazzo si fa ad avere così poca considerazione degli altri da dar fastidio a tuo figlio per una cosa del genere? Che razza di madre è? –
– Mi odia. Non ti stupire. La mamma mi odia. –
– Ma come fa a... –
– È così e basta. Non è che c'è molto da dire. È così. Mi odia e che io ci sia o meno, a lei, non importa proprio. Non ti sei mai accorto di come mi tratta in casa? –
Kuroo sospira, ma non sembra esasperato, sembra intristito per me.
– Credevo fosse per non coinvolgerti nella nostra relazione e per lasciarti fuori. –
– Oh, no, no. È perché mi odia. Nella vostra relazione mi ha coinvolto eccome. –
– Ti ha coinvolto? –
Guardo verso il basso, verso le mie gambe accavallate, verso il muro al fondo della stanza che divide camera sua da camera mia.
– Già. Crede forse che io sia il suo confidente, o il suo confessore, non lo so. So soltanto che se deve sfogarsi con qualcuno lo fa con me e riguardo a te, insomma, ne aveva... tante da dire. –
Non sto mentendo.
Non sto affatto mentendo.
E sto parlando di...
– Che genere di cose ti ha detto? –
Sto parlando di cose che a tuo figlio non dovresti dire, ma che mia madre mi dice e mi ha sempre detto perché io suo figlio non lo sono, sono solo una bocca, due occhi e due orecchie pronte ad assorbire il suono della sua voce e nient'altro.
– Credo che dovremmo lasciar perdere questo discorso. –
– Perché? –
– Perché se no mi sa che t'incazzi. E non voglio che t'incazzi, Kuroo. –
– Non m'incazzerei mai con te. –
– Non voglio provare e vedere che succede. –
Mugugna in assenso, quando finisco la frase, poi lo sento alzarsi, o almeno credo questo significhi il rumore che sento alla cornetta, e percorrere qualche passo che risuona nell'ambiente.
– Stanno ancora facendo rumore? –
– Oh, non ci stavo facendo caso, aspetta che... no, silenzio tombale. Sono zitti. Mi sa che si sono addormentati. –
Ridacchia piano.
– Ti ho portato fortuna, eh? –
– Sì, l'hai fatto. La prossima volta che torna con qualcuno ti richiamo. –
– Quando vuoi. –
"Quando vuoi" non credo abbia il peso per te che ha per me, Kuroo Tetsurō, però apprezzo che provi ad essere gentile.
– Porta uomini a casa quasi ogni giorno, Kuroo, non ti condannerei a questo. – ribatto, col tono scherzoso perché sono ironico, forse.
– Puoi chiamarmi quasi ogni giorno. Non è un problema se mi chiami quasi ogni giorno. –
– Non lo è? –
– No. Mi piace la tua voce. Sentirti... mi fa davvero piacere. –
Il sangue smette di scorrermi nelle vene. Nel giro di qualche secondo fa dietrofront e sale, sale, sale verso la mia faccia, s'addensa sulle mie guance e mi fa sobbollire il viso.
– Sul serio? –
– Sul serio. –
Rimango zitto, con la bocca aperta a guardare il vuoto, per un tempo indefinito. Lui non parla, non so nemmeno se sia ancora al telefono, se m'abbia chiuso in faccia o cosa. Non so che dire, non so che...
Sta scherzando.
Sta ovviamente scherzando.
Chi mai vorrebbe che io, io fra tutti, lo contattassi quasi ogni giorno, a chi mai interessa di sentirmi, a chi mai io... piaccio?
Non è possibile.
Qualcosa non va, qualcosa è fuori posto, qualcosa...
– Perché hai smesso di chiamarmi col soprannome che mi davi quando stavo con tua madre? Non ti piace più? A me piaceva. – chiede poi, tranciando il silenzio con la sua voce.
Cerco di tornare sulla Terra e capire la sua domanda.
Fallisco.
– Scusami, non ho capito. –
– Il soprannome. Mi chiamavi "Kuro", quando stavo con tua madre. Perché hai smesso? –
Perché ho smesso?
Perché...
– Non voglio prendermi troppa confidenza, non voglio darti fastidio. –
– No, no, ma che fastidio, mi piaceva. –
– Ti piaceva? –
– Da morire. –
"Da morire"?
Qualcosa di me gli piace... "da morire"?
Oh, miseria.
Perché sembra tutto così... surreale?
Mi schiarisco la voce, sistemo meglio il cellulare sulla guancia, mi tiro indietro una ciocca di capelli che mi sta cadendo di fronte al viso.
Lui vuole che io lo chiami...
Non riesco a dirlo con sicurezza. Sono timido, intimidito da lui che è decisamente una persona forte e autoritaria, la voce mi trema, il tono vacilla.
– Kuro. – dico, nient'altro, sforzandomi di provare a usare quel soprannome senza esserne... spaventato.
La risposta che ottengo è...
– Oh, merda, Kenma. Avverti, prima. –
– Eh? –
– Lascia perdere, non importa. –
– Non lo dico bene? –
Sospira, sospira al mio orecchio, poi quel suono muta e s'immerge in una risata bassa, appena accennata.
– Non lo dici bene? Dio, Kenma, ma ti senti quando parli? –
Mi sento quando...
– Non sto capendo. –
– Tu non hai la minima idea di come tu sia da fuori, mi sbaglio? La minima idea. –
– Nel senso che sono attraente e non so di esserlo? –
Mi formicola la pelle.
Il mio viso sorride da solo.
– In quel senso. Esattamente in quel senso. –
– Quindi lo dico bene. Quindi ti piace come lo dico. –
– Sì, mi piace come lo dici. Te l'ho detto, mi piace la tua voce. –
– Sono bravo? –
La tensione dentro di me è alle stelle, qualsiasi suono esterno al misero mescolarsi delle nostre voci scompare, mi sento caldo, accaldato, bollente.
Prima di ricominciare a studiare farò una pausa.
Farò...
– Sì, Kenma, sei bravo. Sei stato bravo. –
Infilo le dita sotto l'elastico dei pantaloni.
– Devo finire di studiare. Ora vado. –
– Vai a studiare, sì. –
– Allora... –
– Fammi sapere com'è andata la verifica, domani. Ricordatelo. –
I polpastrelli sono freddi contro la pelle delle mie cosce, trasalisco.
– Certo. Posso chiamarti quando esco da scuola? –
– Puoi chiamarmi quando ti pare. Quando ti pare, Kenma. –
Accarezzo il lato di una gamba, la superficie liscia, lattiginosa.
– Sei sempre così carino con me, Kuro. Grazie. –
– Non ringraziarmi. Ci sentiamo domani. –
– Ciao, Kuro. –
– Ciao, Kenma. –
La chiamata termina con un suono acuto, intermittente, che non ascolto. Il telefono cade di lato, la mia testa rotola indietro e la mia mano si chiude su me stesso, la mente già a vagare fra le distese e gli avvallamenti della voce perfetta, melliflua e sensuale di Kuroo Tetsurō, che pensa che io sia attraente, a cui interessa di me, e che è ogni volta un sogno ad occhi aperti.
Da quel momento in poi, non ci sono più sei giorni d'attesa, non ci sono più prolungati periodi d'incertezza in cui non so se tornerà o meno e non ci sono più interminabili silenzi fra noi.
Da quel momento, qualcosa cambia.
Non so cosa, so solo che lo fa.
Kuroo Tetsurō partecipa alla mia vita come partecipano nel presentarsi di una strada quei piccoli, minuscoli pezzetti di vetro incastonati fra la colata di cemento che compone un marciapiede.
Non è che sia poi diversa, la strada, anzi, le cammino sopra come le camminavo sopra ieri, come le camminerei sopra se fosse fatta di ciottoli, di pietre, d'asfalto liscio.
Però brilla.
Se la luce la colpisce, qualche volta brilla.
E mi fermo a guardarla, quando brilla, perché è carina, è piacevole, perché mi fa stare meglio, anche se non cambia niente, anche se la strada è sempre quella, anche se quei piccoli pezzi di vetro sono solo, per l'appunto, piccoli pezzi di vetro.
Kuroo Tetsurō nella mia vita, in questi giorni, è così.
Non cambia niente.
Davvero, niente.
Vivo le stesse giornate, campo delle stesse cose, niente è effettivamente diverso.
Però ogni tanto mi fermo, mi fermo e sorrido. Perché qualcosa brilla e quel qualcosa mi piace, anche se il cambiamento non è radicale, anche se in realtà è tutto com'era prima.
Non è che qualcosa sia diverso.
È solo che sopportarlo ora, è un pelino meno difficile.
Mi sposto di lato quando una signora mi passa a fianco, schiaccio la schiena contro il muro, porto il telefono di fronte alla faccia.
[Kuroo Tetsurō] >> Cosa stai facendo? <<
[You] >> shopping <<
[You] >> sono nei camerini <<
[You] >> mia madre ci sta mettendo una vita <<
Mi mordo l'interno della bocca, mi guardo attorno, nessuno pare vedermi, nessuno pare guardarmi, mi confondo con la carta da parati.
Di norma avrei odiato essere qui, e odio ancora esserci, ma come dicevo prima, ora è un po' più facile da tollerare.
Vedo la scritta "sta scrivendo" in cima alla schermata, sotto al nome del contatto, aspetto trepidante che compaia qualcosa dalla sua parte, un messaggio, anche solo uno sticker.
Il mondo attorno a me fa rumore.
Vive.
Io non so se lo faccio, so solo che a nessuno qui pare importare, quasi non importa neppure a me.
Uscire con mia madre è una cosa che faccio spesso, soprattutto quando deve comprare dei vestiti, perché le serve qualcuno che le porti le buste, che le dica che sta bene, e non valgono i suoi fidanzati perché lei si veste per loro e vuole l'effetto sorpresa.
Passo le ore qui ad attendere che si provi tutto quel che vede.
Passo le ore a guardarla scegliere e abbinare i capi.
Passo le ore a...
Sono un maschio, so di essere un maschio, mi sento un maschio.
Però i vestiti da donna, alcuni vestiti da donna, non so se per l'abitudine a vederli sempre indosso a mia madre o per un puro, naturale gusto, mi piacciono.
Alcune cose le vorrei per me.
Certe volte se non si accorge gliele rubo.
Di certo non le compro e non le provo con lei, perché non so cosa potrebbe dire, non voglio saperlo, vivo bene anche senza.
Però...
[Kuroo Tetsurō] >> Tu ti sei comprato qualcosa? <<
[You] >> no io vestiti ce li ho già <<
[You] >> non saprei che comprare <<
[You] >> non mi serve niente <<
Servirmi, no, non mi serve niente. Non che servano a lei, per carità, non è così. So bene che i soldi che guadagna a lavoro, la metà, più di quelli che dà a me per campare, li sta spendendo ora per se stessa e che potrebbe usarli per tante altre cose. Però lei è l'adulta, no? Lei decide chi merita i vizi e le coccole.
Io non me li merito mai.
Solo lei.
Io devo solo sopravvivere.
[Kuroo Tetsurō] >> Non devi comprarti solo cose che ti servono <<
[Kuroo Tetsurō] >> Non c'è niente che ti piace? <<
[You] >> sinceramente non ho nemmeno guardato <<
[You] >> anche ci fosse qualcosa la vedo dura a comprarla coi soldi che non ho <<
In realtà ho mentito.
Ho guardato.
Ho visto...
Il mio aspetto fisico non è di me qualcosa che odio. Lo trovo insipido, ma non detestabile e anzi, qualche volta, qualche volta persino mi piaccio.
Sono minuto, magrolino, le gambe sono fine, i polsi e le caviglie magre, i capelli lisci, scuri, gli occhi grandi e verdi di quel verde che sembra oro, che sembra platino.
Non sono brutto.
Non credo di essere nemmeno propriamente bello.
So solo di essere... un po' particolare.
Non sono bello come dovrebbe essere bello un uomo, ecco. Non sono bello come Kuroo, che è alto, muscoloso, imponente, forgiato nell'acciaio, affilato e rigido.
Sono bello come mia madre.
Sono diverso.
Sono...
Mi piace come stanno su di me alcune delle cose che si compra lei. I reggiseni senza coppe, quelli trasparenti e lisci, i top corti, le gonne, i vestiti aderenti, i tacchi alti, gli stivali, i gioielli.
Non li metto.
Ma non mi dispiacciono.
E un attimo fa, quando lei rovistava tra le grucce della sezione "in saldo" o "super offerta", un po' dietro, fra i pezzi a prezzo pieno della nuova collezione ho visto uno di quegli indumenti che non so se metterei, ma che di certo non mi dispiace e che di certo mi starebbe bene.
Corto corto, quasi poco più di un reggiseno di pizzo, con le bretelline sottili e un bordo di merletto sulla parte sottostante, quasi trasparente, striminzito sulla schiena.
Mi era piaciuto, quello.
Non lo comprerò.
Ma mi era...
[Kuroo Tetsurō] >> Tua madre non ti compra niente? <<
[You] >> lei compra per se stessa mica per me <<
[You] >> io tanto mi metto quel che c'è in casa lol <<
Io mi metto quel che c'è in casa. I vestiti che lasciano qui i suoi ex, quel paio o due di pantaloni che ho, sempre le stesse cose, che tanto con altro non ci farei niente.
No?
[Kuroo Tetsurō] >> E tu sei sicuro che non ci sia niente niente che ti piace nel negozio dove sei <<
[You] >> sicuro no solo non ho voglia di guardare <<
[You] >> voglio solo tornare a casa <<
[You] >> niente di più <<
[You] >> odio stare qui a guardarla provarsi le cose <<
Odio stare qui a guardarla fare cose che mi vergogno di dire vorrei fare anch'io.
Odio stare qui e sapere che io non potrò avere mai quel che ha lei.
Odio...
Non lo so, forse odio solo il fatto di essere suo figlio.
Guardo lo schermo del telefono.
Kuroo non è più in linea.
Significa che ora mi annoio da solo.
Significa che mi guardo intorno e fisso gli altri che fanno qualcosa che vorrei fare anch'io ma che non posso fare perché dipendo da qualcuno che mi odia e che pur di farmi un favore si staccherebbe un braccio.
Sposto distrattamente gli occhi verso lo spiraglio che s'intravede nel camerino.
Si sta provando un vestito.
È carino.
Ha il collo alto e le maniche lunghe, la schiena aperta, è lungo fino alle caviglie.
Mi starebbe bene.
Chissà quanto costa.
Chissà quando mi dirà che non può darmi i soldi per comprarmi la torta di mele del panificio sotto casa perché doveva comprare questo vestito.
Chissà...
Quando riapro il telefono mi rendo conto di una notifica che prima non era là. È un messaggio, e sotto ce n'è anche un'altra, una che...
Paypal?
Perché Paypal dovrebbe mandarmi una notifica?
Non ho soldi nel conto da mesi, perché mai...
"Kuroo T. ti ha inviato 10.000¥".
Il messaggio sopra dice...
[Kuroo Tetsurō] >> Comprati qualcosa di carino <<
Oh, miseria.
Miseria, miseria, miseria.
Che cosa... che cosa sta succedendo?
Perché mi ha inviato...
No, devo rimandarli indietro. Non è giusto, non è affatto giusto, sono tanti soldi e io non me li merito e non saprei come ridarglieli indietro e...
[Kuroo Tetsurō] >> Non li riaccetterò indietro so che ci stai pensando <<
[Kuroo Tetsurō] >> Quindi fai il bravo e fa' come ti ho detto <<
Devo...
Le emozioni dentro di me sono contrastanti.
I soldi sono tanti, mi sento in soggezione. Non so come comportarmi, non so come...
Però li ha mandati a me.
Mi ha fatto un regalo.
Kuro ha fatto un regalo a me.
È per me, perché mi compri qualcosa di carino, qualcosa che mi piace, che mi stia bene. È per farmi una coccola, un gesto di tenerezza, per viziarmi.
Sono tanti.
Ma sono miei.
Miei perché li ha dati lui a me, perché crede che me li meriti, perché vuole dedicarmeli, farmi un favore, un piacere.
Perché l'ha deciso lui.
Perché...
Riguardo mia madre, nemmeno mi nota. Si rimira con un altro vestito addosso, color rame, satinato, carino, niente di che. Non pare interessata a niente di quello che sto facendo, quindi mi defilo senza dire nulla, in silenzio, mi allontano e basta.
Voglio quel top.
Quello di pizzo.
Quello che sembra un reggiseno trasparente e pareva tanto carino indosso al manichino.
Mi ricordo dov'era.
È là.
So dove andare.
Mi tremano le mani per l'emozione, qualcosa di torbido mi si attorciglia nello stomaco, mi pare di star facendo qualcosa di orribile, di sbagliato, ma di volerlo fare ancora e ancora. Guardo le taglie, scorro le grucce, trovo la mia e la prendo e non mi sembra vero, di essere io a... scegliere qualcosa.
Torno ai camerini con le ali ai piedi.
Se non fossi in mezzo alla gente credo potrei addirittura mettermi a saltellare.
Ne trovo uno vuoto in fondo al corridoio, il più lontano possibile da mia madre, mi ci butto dentro quasi emozionato.
Per me.
Mio.
Sto comprando qualcosa per me e lo sto facendo perché tra tutti Kuroo Tetsurō, quel Kuroo Tetsurō, ha deciso di farmi un regalo.
Non può andar meglio di così, vero?
Non può.
Non...
Mi tolgo la felpa e la maglietta che porto sotto tutte insieme. L'aria fredda mi fa trasalire ma ignoro la sensazione, mi guardo nel grande specchio di fronte a me.
Infilo il top con quanta più cautela posso.
La taglia è giusta.
Le spalline sono lunghe, ma si possono regolare e lo faccio, le sistemo sulle spalle, le metto in modo che stiano perfettamente aderenti alle mie clavicole.
Mi sistemo i jeans troppo larghi sulle gambe, vedo le mie ginocchia spuntare dagli squarci sul tessuto che dovrebbero mostrare meno ma mostrano bene le gambe perché non sono della misura corretta, le Converse che ho ai piedi forse sono fuori stagione, ma mi piacciono.
Mi guardo allo specchio.
Sono...
Bello.
Mi sta bene.
Mi sta molto bene.
Mi fa sentire... sexy.
Il nero sembra inchiostro sulla mia pelle chiara, il pizzo ricamato disegna un merletto d'ombra e china su di me, il solco dello sterno s'intravede nello scollo, anche se non ho un vero e proprio seno, la mia pancia è piatta, la vita stretta, le clavicole sporgono.
Sono sensuale.
Mi sta bene.
Sono...
Prendo il cellulare, apro la fotocamera, la punto verso lo specchio.
Non mi metto in posa, solo lascio cadere di lato la testa, i capelli castani con giusto quell'ombra di biondo da una decolorazione passata che ancora non ho tolto scivolano da una parte come una cascata su di me.
Scatto.
Apro i messaggi.
Invio.
[You] >> pensi che sia abbastanza carino? <<
[Kuroo Tetsurō] >> Cazzo <<
[Kuroo Tetsurō] >> Spero che tu l'abbia comprato <<
[You] >> lo farò <<
[Kuroo Tetsurō] >> Bravo <<
[Kuroo Tetsurō] >> Stai dannatamente bene Kenma <<
[Kuroo Tetsurō] >> Sei bellissimo <<
Le mie guance s'arrossano.
Sorrido, il labbro inferiore fra i denti, il mio riflesso in trasparenza sul cellulare.
[You] >> grazie kuro <3 <<
[Kuroo Tetsurō] >> Ti dico solo la verità e la verità è che stai benissimo <<
Sto benissimo.
Io sto benissimo.
Sto...
Torno alla fotocamera.
Mi farò qualche altra foto, sì, e gliela manderò e mi crogiolerò nella sensazione di farmi dire che sono bello, che mi merito i regali, che mi merito di essere viziato.
Lo farò.
Perché c'è qualcosa che non va nel farlo e me ne rendo conto.
Ma cos'altro ho?
Star là fuori a guardare mia madre farlo al posto mio?
Così è meglio.
Lui è meglio.
Io, al momento, mi sento meglio.
E non importa nient'altro.
Per una volta nella vita, non importa nient'altro.
E qualcos'altro, qualcos'altro ancora, nello schema delle cose che rimangono grige e sempre uguali, continua lentamente a cambiare.
Ma il cambiamento, o quantomeno l'inizio vero e proprio di esso, non avviene coi messaggi, non avviene con quel regalo così inaspettato, non avviene in quel modo.
Avviene una settimana dopo.
Avviene oggi.
Ora.
In un momento in cui non è lui che mi rende felice, ma il mondo che mi rende triste.
Sono sulla porta di casa.
Lo zaino mi pende su una spalla, la giacca aperta, la sciarpa vecchia in disordine attorno al collo, i capelli legati a caso, gli occhiali addosso.
Le mie Converse non sono nemmeno dentro il cornicione dell'ingresso.
La luce del Sole del pomeriggio non mi scalda, perché è inverno, ma mi fa sentire giusto un po' più caldo sulla nuca.
Di fronte a me, la bufera.
Lei è così.
È un po' strana.
È un po' pazza.
È...
Mia madre beve da sempre. Non so se bevesse quand'era incinta, ma so che l'ha sempre fatto dopo, quantomeno da che lo ricordo.
Lei beve.
Però è uno di quelli che si chiamano "alcolisti attivi", uno di quel genere che beve ma riesce ad avere un ruolo funzionale fuori di casa, uno di quelli che lavorano.
Dentro casa, però...
Di solito dorme. O passa il tempo con altri, fa feste, esce, si diverte, spende i suoi soldi, vive lontana da me una vita che dice io le ho tolto ma che in realtà mi par vivere più che bene.
Qualche volta...
Fa così.
Come sta facendo ora.
Urla.
Mi odia.
Mi scarica addosso tutto quello che di lei non le è mai piaciuto.
Ha i capelli arruffati, sembra una di quelle streghe dei film. Sono biondi, li tinge, per un po' li ha tinti anche a me, credeva fossero belli, poi ha smesso di aver voglia di farlo e siccome da solo proprio non sono in grado ora non lo faccio più.
La maglietta che ha indosso non è sua e non è mia, non ha i pantaloni, ha gli occhi fuori dalle orbite, grandi, spalancati, rabbiosi.
Deve averla lasciata il fidanzato nuovo.
Deve essere andata così.
Di solito è questo quello che succede.
Non ricordo se avesse fatto una scenata, quando Kuroo Tetsurō l'ha lasciata. Probabilmente sì, insomma, quello sì che era qualcuno per cui persino io ne avrei fatta una.
Chissà cosa ho pensato in quel momento.
Forse "menomale".
Forse "peccato".
Forse...
Mi tira le cose addosso. Non arrivano davvero fino a me, si fermano prima perché non ha forza di lanciarle per bene. Rovescia il tavolino del salotto, butta giù le cose dagli scaffali, mette in disordine il divano.
È colpa mia, mamma?
È colpa mia?
Io cosa ti ho fatto?
Ti ho rovinata, perché nessuno ti vuole solo perché hai un figlio?
Ti ho distrutta, perché non puoi vivere la tua vita in pace?
Ti ho rotta, perché non mi volevi?
Quando mai te l'ho chiesto, io, di nascere?
Come può essere colpa mia?
Io...
Non piango nemmeno più. Non rispondo, non ascolto, sto fermo e guardo.
Grigio, mamma. Io sono grigio e sono carta da parati, sono vetro, acqua, sono aria, sono arredo, sfondo, scenografia. Lo sono perché tu sei la protagonista di questa storia, io nulla più che un oggetto di scena.
Perché mi tiri fuori solo quando qualcosa va storto?
Perché mi hai trasformato in niente che fa niente e conta niente e quel niente viene meno solo quando devi vomitare addosso la tua furia su qualcuno?
Perché mi odi, mamma?
Che ti ho fatto?
Che scelta ho preso?
Che cosa...
Devo andar via.
Dice sempre così.
Che devo andar via, che non vede l'ora che sia abbastanza grande per andar via.
Me ne andrò e allora sarai contenta? Questo vuoi, da me?
Me ne vado.
Sì, me ne vado.
Me ne vado sempre.
Indietreggio, chiudo la porta, le sue urla isteriche si attutiscono quando sistemo il legno fra lei e me.
Mi siedo sul marciapiede qui davanti.
Aspetto.
Guardo le macchine passare e penso, senza piangere, senza parlare, senza quasi più sentire, anestetizzato al dolore dal dolore stesso, che quando le cose fanno troppo male, paradossalmente, al corpo paiono non esserci nemmeno.
Sistemo lo zaino al mio fianco, le mani sulle ginocchia, pianto il mento là, fra le mie nocche, mi chiudo in me stesso per non sentire freddo che la stagione è rigida e non so quanto devo resistere qui.
Chissà perché l'ha lasciata.
Non questo fidanzato, ma...
Non so perché Kuroo l'abbia lasciata, non ne ho idea.
Vorrei chiederglielo.
Ma ho paura della sua risposta.
Forse dovrei chiamarlo.
Prendo il telefono dalla tasca della giacca.
Cerco il suo contatto, l'unico che ho, l'unico con cui mi scrivo, l'unico con cui parlo.
Imposto la chiamata, ascolto il telefono squillare.
È più forte di me pensare che non risponderà mentre attendo che lo faccia. Ogni volta, ognuna, lo penso e lo credo, che sono un illuso che spera in qualcosa che non succederà.
Ogni volta mi sorprende.
Magari un giorno smetterà di sorprendermi.
Magari un giorno smetterà di rispondermi.
– Ciao, ragazzino. Come stai? Ti mancavo? –
Ha la voce frizzante, oggi, sembra felice. Felice di sentirmi, felice... felice.
– Un po'. –
– Va tutto bene? –
– In realtà non proprio. –
Appoggio la guancia contro il ginocchio, guardo la strada, nessuna macchina sta passando, neppure loro fanno rumore.
Mi sembra sempre che il mondo sia diverso per me.
Più grigio.
Più vuoto.
Più silenzioso.
– Che è successo? –
– Sta avendo una crisi. Urla e lancia le cose. Sono fuori ad aspettare che si calmi, poi quando finisce rientro. Mi annoio. –
– Sei fuori dove? –
– Sul marciapiede. –
– Sul marciapiede? –
Faccio spallucce anche se non può vedermi.
– Davanti casa mia. Aspetto che finisca. –
– Kenma, per la miseria. –
– Non so che altro fare. Cosa dovrei fare? –
Le nuvole oggi quasi non ci sono, pare una giornata di Sole completa. Mi piace, il Sole d'inverno, perché è più freddo, più pulito.
La mia voce sembra quasi non esserci in quest'aria ferma di Sole d'inverno.
– Parli di tutto come se fosse normale, è questo che mi preoccupa. Tua madre t'insulta ed è normale, non ti fa studiare perché porta gente a casa ed è normale, si compra chili di vestiti e a te non dà un centesimo ed è normale, ti costringe a star seduto sul marciapiede di casa tua per quelle che saranno... che ne so, ore, ed è normale. Ti sembra normale? –
– Mi sembra che è come va la mia vita, Kuro, e che non è che possa farci niente. –
– È vero, ok, ma... –
Sospira.
Sembra infastidito.
Spero non lo sia da me.
Io non ho niente che non siano questi sporadici momenti con lui, non voglio che si stanchi, non voglio che rinunci, non voglio che...
– Cos'hai fatto oggi a scuola, Kenma? – dice poi, di punto in bianco, cambiando completamente argomento.
– Eh? –
– Raccontami qualcosa. Proviamo a distrarti un po'. –
– Guarda che io sto... –
– Non stai bene. Lo sappiamo tutti e due che non stai bene. Almeno cerchiamo di fare qualcosa che non sia parlare di tua madre. –
Mi guardo le gambe dall'alto.
In certi momenti nemmeno mi sento reale.
Come posso sapere che lo è quello che provo?
Non so se sto male.
Non so...
– Ho un amico, forse. Non so se è un amico. È uno che mi parla e si siede vicino a me nelle ore di laboratorio. Me ne sono reso conto oggi. –
– Com'è, quest'amico? –
– Un po' strano. Appiccicoso, forse. Però almeno mi parla. –
Sospira di nuovo.
– Hai avuto qualche verifica? –
– Inglese ieri. –
– Com'è andata? –
– Insufficiente. Io e l'inglese non andiamo d'accordo. –
– Non ti piace? –
– Non l'ho mai imparato. –
Lo sento stringere le labbra, mugugnare qualcosa, mi capita che i bordi delle mie labbra si alzino, sorridano, al suono così familiare della sua voce.
– La prossima volta lo facciamo insieme, se ti va, io l'inglese lo so. –
– Mi fai ripetizioni? –
– Ti aiuto a non prendere un'insufficienza. –
– Se ti va di darmi una mano a me fa piacere. –
Il tono della mia voce si scalda, lo fa il suo, sento anche se non lo vedo che sta sorridendo, m'immagino come sarebbe vederlo.
Come sarebbe...
Come...
– Mi piaceva quando c'eri anche tu a casa. Non mi piaceva che stessi con lei, ma averti là era come avere un alleato su certe cose ed era carino. Hai fatto bene ad andartene, lo sappiamo entrambi. Ma un po' mi manca non essere sempre e costantemente... da solo. – dico, senza pensarci, trascinato solo dalla mia coscienza.
Kuro sta zitto dall'altra parte.
Sta zitto per un attimo.
Io respiro piano.
– Non voglio dire che tu abbia fatto male o farti sentire in colpa, era solo... –
– Ho capito cosa intendi, Kenma, ho capito. E penso che tu abbia ragione. Manca anche a me. Quello, manca un po' anche a me. –
La sensazione che mi si spande dentro è la stessa che proverei se un raggio morbido di luce m'entrasse dentro e mi riscaldasse dall'interno.
È soffusa.
Piacevole.
Soffice.
– Mi piaceva il cibo che cucinavi. Sei molto più bravo di quanto mi aspettassi. Certo, un po' piccante, ma il coreano si fa così, no? Che poi non ho mai capito perché cucinassi sempre coreano. Sei coreano? –
– Mia madre lo era. –
– Oh, davvero? Non ne avevo idea. –
– Mio padre metà giapponese e metà neozelandese, per questo sono così alto. –
– Wow, sei un po' tutto un misto. –
– Già. –
Respira.
– A me piaceva la mattina presto, quando ti acciambellavi sul divano di casa con la coperta addosso mentre bevevi il latte. Sembravi un micetto di quelli piccini, con le orecchie pelose e il musino piccolo. –
– Un micetto? –
– Un micetto, sì. Eri tenero. –
– Lo sono ancora. –
– Lo sei ancora, sì, pardon. –
Stiro un braccio in avanti, il gomito steso su un ginocchio, mi stiracchio il collo.
– È stato un mese di pace, quello. –
– Mi spiace di essermene dovuto andare. Non potevo fare altrimenti. –
– Hai fatto bene. –
– Resta comunque il fatto che ti ho lasciato là, e fidati che davvero non avrei voluto. –
Rimango in silenzio, rimane in silenzio lui, passa qualche istante di pace, di attesa.
Non so cosa intenda.
Non so cosa voglia dire.
Non so perché se ne sia andato.
So che l'ha lasciata.
Ma perché l'ha fatto resta un mistero, uno che vorrei sapere, uno che non ho cuore di aprire, terrorizzato come sono all'idea che la risposta non mi piaccia, che mi spaventi, che mi allontani.
Però dice che gli dispiace di avermi lasciato solo, e questo per me conta.
Conta davvero.
Anche se nel pratico non ha risvolti.
Per me... conta lo stesso.
– Ti piace ancora la torta di mele, Kenma? Ricordo che ne andavi pazzo. –
– Ah-ah, sì, è il mio dolce preferito. –
– Ok, allora... ti sembra un'idea orribile mangiarne un po'? –
– Ora? –
– Ora, sì. –
Rido, i pomelli delle mie guance si scaldano.
– Mi spieghi ora dove la trovo la torta di mele, Kuro? –
Non risponde.
Non...
Mi ascolta ridere.
Parla solo quando smetto.
Lo fa perché...
– Conosco un posto, vicino a casa mia, che la fa con la crema pasticcera più buona che io abbia mai mangiato. Ti vengo a prendere e andiamo a mangiare un po' di torta di mele, che dici? –
– Mi vieni a prendere? –
– Sì, non ci vuole tanto, passo e andiamo. Così non devi stare ad aspettare da solo e al freddo. –
– Ma... –
Mi viene... a prendere.
Qui.
Lui...
Questi non sono pezzi di vetro su un marciapiede.
Non lo sono, no.
Perché se lui viene qui, lui... mi vede. Io lo vedo alla luce del Sole, di giorno. Parliamo e possiamo...
È una cosa grande, se viene qui.
Non è più intrattenermi al telefono.
Non è più notte e confusione.
Non è più ricordo allucinato che forse è reale forse non lo è.
– Allora, posso venire? Andiamo a fare qualcosa di divertente, da soli, senza tua madre. –
– Sì. Ti prego. Sì. Quando vuoi. Adesso, ora, quando... –
– Esco subito, sono da te in venti minuti. Forse conviene che mi fermi qualche isolato dopo casa tua, così non rischiamo che lei si accorga. –
– Ok, ok, ora mi alzo e vado avanti. Ma tu vieni per davvero? –
– Certo che vengo. –
Viene qui, si presenta qui, lui...
Se è qui non è come scriverci.
Non è come parlare al telefono.
Se è qui lui...
– Mi porti via da qui? –
– Ti porto via. Non voglio che tu stia là fuori da solo. –
– Fai in fretta? –
– Giuro che arrivo. –
Stiracchio le gambe, ruoto le spalle, mi tiro su. Lo zaino non mi serve, di certo qui non posso lasciarlo, ma se conosco bene casa mia la finestra del bagno, quella dietro casa, è aperta, posso buttarlo là dentro.
Non credo si chiederà cosa ci sia di strano se vedrà il mio zaino, mia madre.
Le mie cose di solito neppure pare notarle.
Premo il telefono all'orecchio.
– Quanti isolati più avanti rispetto al mio? –
– Due o tre. Rimani sul marciapiede, non andare in strada, è pericoloso. E mi auguro che tu sia vestito abbastanza, oggi, fa freddo. –
Ridacchio.
– Che c'è, se sono vestito poco non mi presti di nuovo le tue cose? –
– Te le presto, certo che te le presto, ma non voglio che ti ammali. Fa freddo, Kenma, copriti, da bravo. –
Mi scende un brivido lungo la schiena.
Mi fermo di fronte alla finestra, avevo ragione ed è aperta, butto dentro lo zaino che atterra non so dove, mi chiudo la giacca, faccio dietrofront e ricomincio a camminare verso la strada.
– Mi copro, mi copro, lo giuro. –
– Bravo. –
– Lo sono, eh? –
– Lo sei. –
Sorrido tra me e me, cammino più leggero di prima, più contento, come se il mondo fosse un posto migliore.
– Arrivi? –
– Arrivo. –
– Ci vediamo fra poco? –
– Sì. Ciao, Kenma. –
– A dopo, Kuro. –
Chiudo la chiamata io, infilo il telefono in tasca assieme alle mani, continuo a camminare sulla strada.
Questo è più grande.
È un cambiamento serio.
Questo è qualcosa di diverso.
Non vedo l'ora.
Voglio guardarlo.
Voglio vederlo.
Voglio che guardi me.
Per davvero, di giorno, adesso.
Lancio un'occhiata a casa mia.
Chissà se ancora urla.
Chissà come sta.
Chissà se lo sa, che tutta la sua cattiveria e tutta la sua rabbia, non sempre mi distruggono, ma qualche volta, mi fanno anche una qualche malsana, inaspettata, forma di bene.
continua ⇘
ok SPERANDO ORA CHE QUESTA APP MALEFICA E MALAMENTE PROGRAMMATA DI WATTPAD MI SALVI IL COMMENTO FINALE
CIAO CUORY
ECCOMI
ECCOCI
ECCO
allora
daddy issues? sì
mommy issues? sì
issues? sì
questa roba è un issue coi piedi
come me
niente mi fa troppo ridere ogni kuroken morally grey che scrivo un nuovo lato negativo della personalità di melissa guardiamo tutti quanto è super pazza lol sarò anche squilibrata ma almeno ho materiale per scriverci su
spero che questo capitolo via sia piaciuto!!! è una storia ancora diversa da quelle che ho scritto prima perché tende - secondo me - ad un'estetica un po' liminale che mi piace ma mi ricorda anche qualcosa di strano non so è davvero un po' stramba
e niente, se mi fate sapere cosa ne pensate fin'ora mi fate contenta
un bacino
mel <3
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