𝘪 𝘧𝘦𝘦𝘭 𝘪𝘵 𝘤𝘰𝘮𝘪𝘯𝘨 𝘰𝘶𝘵 𝘮𝘺 𝘵𝘩𝘳𝘰𝘢𝘵
!! c'è il riferimento ad uno scenario di molestie, di per sé non sono descritte molto esplicitamente però ci sono quindi niente be aware of that !!
continua ⇘
Kuro non parla.
Mi guarda sistemarmi, ripulirmi, rassettarmi e ricompormi, mi osserva immobile recuperare i miei vestiti, rimettermeli addosso, legarmi i capelli, lavarmi via il sangue dal corpo. Schianta gli occhi su di me come se anche quelli avessero i denti e mangia la vista delle mie dita sottili che scartano i cerotti a forma di animali che la mamma ha comprato in farmacia, stupidi, infantili, qui solo perché là sullo scaffale erano in saldo.
Stringe il mio polso dove un delfino plastificato tenta di tenere insieme i lembi di pelle che io stesso ho squarciato con un morso, mentre mi trascina fuori.
Parte verso non so dove, senza spezzare mai il silenzio che ci circonda.
Ho domande, litri stagnanti di domande, ma non le dico, e obbedisco ciecamente alle sue direttive, mettendomi buono e fermo dietro la sua schiena, mentre mi conduce in un posto che non conosco, per un motivo che non comprendo, in una situazione che non afferro.
Penso, per una frazione di secondo, che sia scorretto da parte sua negarmi la minima spiegazione, ma mi ricordo, la frazione di secondo successiva, che non è negazione, la sua è assenza.
Non mi nega le parole, lui non le ha.
Le parole sono tipicamente umane, espressione di una razionalità senziente che ci ha permesso di fare di questo mondo una realtà da piegare e plasmare.
Lui umano non è.
Aspettarsi parole da lui, in queste situazioni, è semplicemente fuori contesto.
Allora mi stringo al suo corpo e vago con lo sguardo attorno a me, il panorama cambia e si evolve in quello di una parte della città che non conosco, mi sorgono spontanei altri dubbi, ma li soffoco, smetto di martellare la mia logica con domande su chi sia "l'amico" e cosa c'entri la telecamera, convinto che se Kuro ha scelto questo corso d'azioni, ce ne sia un motivo.
Sto zitto quando frena di fronte ad un condominio che sembra esattamente identico a tutti quelli che lo affiancano, non parlo mentre mi toglie il casco, non proferisco parola nel momento in cui preme una combinazione di numeri sul tastierino esterno e mi apre la porta del complesso perché entri prima di lui.
Saliamo le scale in silenzio.
Sai di chi è tipico il silenzio, Kuro?
Di Dio e degli animali.
Di Dio, perché Dio non parla, e chi lo prega lo fa senza che lui risponda.
Degli animali, perché gli animali non sanno parlare, e chi gli si riferisce lo fa senza che loro siano in grado di rispondere.
Il tuo silenzio qual è, Kuro?
Il mio?
Un mese fa avrei saputo risponderti.
Ora parti di me differenti offrono diverse alternative plausibili.
Ci fermiamo al terzo piano, io con il fiatone, Kuro inalterato, mi indica con lo sguardo una porta e io la fisso, aspettandomi che suoni, che bussi.
Non lo fa.
Ed è solo ora, quando serve, non quando vuole, che apre la bocca e sfrutta una capacità che per lui è solo quello, una capacità, e non parte integrante di quello che è.
– Suona tu. Fatti aprire. –
– Kuro, come faccio a farmi aprire? Di chi è questa casa? –
– Del ragazzo di tua madre. Suona e digli che hai bisogno di lui. –
– Del ragazzo di mamma? In che senso del... ragazzo di mamma? –
La confusione mi sorge spontanea.
Non... capisco.
Perché siamo a casa del ragazzo di mamma? Perché Kuro sa dove abita il ragazzo di mamma? Che cosa c'entra in tutto questo il ragazzo di mamma?
Che cosa vuol dire?
Che cosa...
– Fatti aprire. Quando siamo dentro ti faccio vedere perché siamo qui. –
Osservo i suoi occhi ambrati dalla mia statura ridotta, e per un attimo solo...
Attendo.
Aspetto.
Paziento che l'onda delle mie emozioni si palesi.
Mi conosco ed è così che sono fatto e so che arriverà, quello tsunami di dubbi e di incertezze che mi è tanto solito, e allora sto là fermo e cerco di guardare l'incresparsi dell'acqua che rivela il suo arrivo, ma sorprendentemente, in quei pochi istanti che passo fermo prevedendone l'impatto, mi rendo conto che nulla di tutto ciò sta per accadermi.
Non arrivano, le paure.
Non arrivano le congetture, le domande e le pugnalate, non arrivano i "e se sono tutti in combutta per odiarmi", non arrivano i "si conoscono e stanno solo aspettando di prendersi gioco di me".
Non succede niente.
Non mi scuoto più.
Faccio quel che Kuro mi chiede con il corpo intessuto delle ferree fibre della fiducia, fiducia in lui, in me stesso, e nell'essermi spogliato della mia fragilità, avendo raggiunto un punto così basso e marcescente e putrefatto da non riservare altro che la più cruda delle realtà.
Mi sono messo a nudo, mi sono fatto mettere a nudo, fino all'interno, fino alle ossa.
Quel che abbiamo fa così schifo che non riesco nemmeno più a dubitarne.
Muovo qualche passo verso la porta, alzo la mano sul campanello, mi fermo prima di premere il polpastrello sul bottone.
– Come faccio a farmi aprire? –
Kuro mi guarda e accenna un sorriso. Anche lui si sposta verso la porta, ma dall'altro lato rispetto al mio, là dove c'è il cardine, così che quando il legno sarà aperto ne risulterà nascosto.
– Fai come hai fatto quando hai chiesto a me di venirti a prendere a notte fonda su un'autostrada, Kenma. –
– Ok. – riferisco, e schiaccio il piccolo interruttore giusto sotto al nome.
Lo sento risuonare anche da fuori.
Sento qualcuno spostarsi, sento dei passi, e la mia mente ricorda quando questa stessa cosa l'ho fatta alla porta di Kuro, settimane fa, disperato e in lacrime.
È stato l'inizio di questo, quell'istante?
O forse solo il fulcro?
È stata la prima volta che ho vinto su di te? La prima che ho perso? La mia condanna, la mia salvezza? Sei tu che ti sei offerto aprendoti a me che cercavo di entrarti dentro, sono io che mi sono prostrato mostrandomi in ginocchio e pregandoti di riprendermi?
Provo nei tuoi confronti una tale adorazione, Kuro.
Ma è l'adorazione di chi si dedica a una divinità, come pensavo allora?
O è quella di chi ringrazia un fedele, come ho pensato qualche ora fa?
Non lo so.
O forse sì, forse lo so.
Forse semplicemente non è il momento esatto di dirlo.
I rumori si fanno più intensi verso la porta, faccio mezzo passo indietro, il mio volto muta in un'espressione differente, la mia testa mi mette di fronte ad uno scenario diverso.
Quando la porta si apre, rivelandosi in uno spiraglio chiuso da una catenella tirata, io non vedo il ragazzo della mamma, che mi si rivolge sorpreso ma stranamente non infastidito, ma Kuro, il mio Kuro, che chiamavo mesi fa sotto la pioggia per farmi venire a salvare, per farmi venire a prendere.
– Kenma? Che ci fai qui, Kenma? Come fai a sapere dove... –
Singhiozzo. Di fronte al mio Kuro, io spalanco gli occhi grandi e stringo la gola, sento una patina di lacrime glassare le mie iridi, esprimo paura, esprimo disperazione.
Tiro su col naso.
– Ho chiesto alla mamma dove abiti, io... è che... è successo che... –
– Kenma, stai bene? –
Scuoto la testa.
– No, non sto bene, ho paura e... una mano, ho bisogno di una mano, io... lui... non so cosa fare e... –
Kuro, salvami, Kuro. Kuro, va tutto male nella mia vita, salvami, salvami e salvati e condannaci salvandoci, sii fedele, sii leale, sii riferimento, protezione, calore.
– "Lui" chi? Cos'è successo, Kenma? –
Mentire mi riesce così facile quando ti vedo, Kuro, perché forse non ti sto mentendo, perché forse sto dicendo la verità.
– Lui è venuto... a casa mia, e mi ha... mi ha... ho bisogno di una mano, ti prego. –
– Il tuo ragazzo, Kenma? Il tuo ragazzo ti ha fatto qualcosa? –
Annuisco disperatamente, le verso, quelle lacrime, e chiedo e prego e imploro salvezza, sinceramente disperato, sinceramente sofferente.
– Lui mi ha... Dio, lui mi ha... –
Apre la catenella.
Il ragazzo di mamma socchiude la porta, sfila via la catenella dall'ingresso, la riapre per farmi entrare, e quando lo fa sbatto via l'immaginazione chiudendo le palpebre, asciugo le lacrime, vedo le dita di Kuro stringersi sul bordo di legno e forzare aperto l'appartamento.
Quel che più mi colpisce, però, è che prima di rendersi conto che fosse tutta una messinscena, prima di vedere che non sono solo, il ragazzo della mamma abbia sorriso.
Mentre apriva la porta per farmi entrare, credendomi un diciassettenne disperato perché il fidanzato gli ha fatto qualcosa di male, lui stava sorridendo.
Come se avesse vinto.
Come se avesse conquistato qualcosa.
Inizio a capire perché siamo qui.
M'immetto di pochi passi nell'ingresso, il viso rivolto all'uomo che ora è solo un uomo, non più l'idea di Kuro, ma i suoi occhi non sono più fissi su di me, guardano alle mie spalle, verso l'alto, e la sua espressione non ha più nulla del sorriso che sono certo di aver visto un attimo fa.
L'addome di Kuro mi sfiora le scapole.
Anche se non posso vederci, conosco tanto bene il suo corpo e il mio per formare un'immagine completa del nostro aspetto nella mia immaginazione.
Kenma, piccolo, fragile, minuto Kenma, con i capelli biondi, il viso chiaro, la pelle lattiginosa e gli occhi grandi, Kenma con i polsi sottili, le ombre scavate sotto le ciglia, le labbra rosate, con i lividi che strisciano fuori dai vestiti, con il cerotto a forma di delfino sul polso, le corone dei denti stampate sulla carne.
E dietro Kenma il mostro, scuro e minaccioso e imponente, che taglia fuori il resto del condominio coprendo con la stazza l'interezza dell'arco della porta, con le spalle larghe e le fattezze rigide di un corpo intagliato col coltello, con l'inchiostro sulla carnagione abbronzata, gli occhi del colore dell'ambra, le nocche costellate di cicatrici, le vene in superficie sulle mani, l'aspetto attraente e affilato di chi è bello come un'arma ben forgiata, splendente, spaventoso, inevitabile.
So quando vedo l'espressione che dipinge il volto del ragazzo di mia madre, che Kuro sta sorridendo.
Il suo terrore è innegabile.
Kuro fa così tanta paura solo quando sorride.
E mi sembra di vedere anche questo, mi sembra di poterlo descrivere perché ho chiara la figura nella mente.
Kenma e l'ombra.
Kenma minuscolo e piccolo e insignificante, poco più di un metro e mezzo, fragile ed esile, sottile, e l'ombra dietro, a rivelare che in controluce, Kenma, di minuscolo, piccolo, insignificante, fragile, esile o sottile, non ha nulla.
Kenma che è solo Kenma.
La sua ombra che è tutto quello che Kenma non è.
La sua ombra che sorride e spaventa, che è braccio di una mente, braccio incapace di pensare di una mente incapace di agire, androgino spezzato da una metà che lo cerca solo per realizzare una crudeltà che anela ad essere completa.
Dioniso offeso, ma con le mani intonse, e Agave folle, trascinata dall'alienazione delirante del baccanale, che regge la testa di suo figlio in cima ad una picca, pronta ad annegarci, nel suo sangue, in nome di un'amore che le strappa anche le radici.
Un tempo volevo che il mondo mi amasse.
Lo ricordo chiaramente.
Un tempo volevo che la mamma mi volesse bene.
Prima di tutto questo, io volevo soltanto che lei spostasse il suo sguardo su di me sorridendo, e mi dicesse che andavo bene così com'ero, che mi amava comunque, che ero la cosa più bella che le fosse capitata.
Poi però ho smesso.
C'è un proverbio, una frase che ho letto da qualche parte, che mi torna in mente, ora.
Qualcosa come...
"Un bambino che non viene abbracciato da un villaggio lo brucerà per sentirne il calore".
È arrivato il momento di bruciare.
Mi soddisfa immensamente sapere che Kuro mi darà il lusso di non dovermi nemmeno avvicinare alle fiamme.
Un braccio supera le mie spalle, emerge dall'ombra e scavalca la mia figura, si estende avanti, le dita si chiudono sulla spalla del ragazzo di mia madre, la presa è crudele, aggressiva.
La porta si chiude.
Prima che nessuno dei due, io e Kuro, possiamo parlare, la reazione arriva naturale e spontanea.
– Chi diavolo... chi diavolo sei? Kenma, chi diavolo è... –
– Il ragazzo. Io sono il ragazzo. –
Gli strizza il corpo come se volesse sentire l'articolazione frantumarsi sotto il palmo.
Il ragazzo della mamma guarda me.
– Kenma, che cosa sta succedendo qui? –
Non faccio in tempo a rispondere.
– Kenma non lo sa, cosa sta succedendo, qui. Ma io e te possiamo spiegarglielo insieme. –
– Io e... che cosa... Cristo, ma che cosa vuol dire? Che ci fai in casa mia? –
Ride.
Kuro ride.
So nell'esatto istante in cui ride che qualsiasi cosa sia, se è così divertente, è altrettanto orribile.
– Kenma, dov'è che tieni le cose importanti, tu, a casa tua? Quelle cose a cui tieni davvero tanto, dove le metti? –
Al sentirlo riferirsi a me mi viene istintivo girarmi per guardarlo. Lo faccio, e incontro il suo viso divertito, gli occhi che scintillano, il linguaggio del corpo che definisce il suo provarci gusto intrinsecamente legato alla furia.
Cerco di non inciampare nella confusione, rispondo semplicemente alla domanda che mi è stata posta.
– Le nascondo sotto al materasso. –
Kuro storce il naso, fa "no" con la testa.
– Già, che tu non vivi da solo. Ma quando vivrai da solo, le cose importanti e a cui tieni davvero le terrai in un posto ben specifico. Sul comodino a fianco del letto. –
Torna a guardare il ragazzo della mamma.
– Dov'è il tuo comodino a fianco del letto? –
– Perché diavolo vuoi... –
– Non è una domanda difficile. Rispondi. Rispondi finché hai i denti in bocca per farlo. –
Il lamento stralunato del trovarsi in casa qualcuno come Kuro s'interrompe. Panico, paura, rabbia e spavento, tutto nel suo viso nel giro di pochi istanti.
La mia ombra si sposta, corporea più che mai, mi supera e spinge l'essere umano, lo fa voltare, lo invita a far strada. Il ragazzo della mamma trema, ma dopo qualche istante fa un passo, e Kuro lo segue, a sua volta seguito da me.
Incespica, mentre cammina, questa vittima di un crimine che ancora non ho compreso.
Io mi reggo con le mani sulla schiena di Kuro, quando lo fa, e poi non le tolgo, nel tentativo di sentire il suo calore trafiggermi i polpastrelli.
L'appartamento è piccolo, un po' disordinato, la camera da letto ha le lenzuola arruffate quando ci entriamo dentro, la luce è soffocata dalle tapparelle chiuse, i bordi sono definiti ma l'arredamento non è chiaro.
Kuro scalza il proprietario di casa con un gesto della mano, quello atterra di lato, con la schiena sul muro. Il mio ragazzo, perché così si è definito qualche attimo fa, lo supera, va verso il comodino, apre il cassetto con un movimento netto del polso.
Immerge le dita all'interno.
Riemerge stringendo fra i polpastrelli un ammasso sottile di tessuto.
Comprendo quando me lo passa cosa sia.
Sono...
– Cos'è che c'era dentro al suo comodino, Kenma? Dimmi, cos'hai in mano? Cos'è che quest'uomo tiene dove si tengono le cose importanti? –
Spalanco gli occhi.
– Sono... queste sono le mie... le mie mutande. –
– Oh, ma davvero? E dimmi, Kenma, che cosa ci fanno qui? –
– Io... io non ne ho idea. –
Pianta lo sguardo verso l'uomo paonazzo spiaccicato al muro.
– Tu, invece, lo sai? Sono nel tuo cassetto, lo sai per forza. –
– Non sapevo che... che fossero le sue. No, non sono le sue. Sono di sua madre. Quelle sono le mutande di... –
– Non sono di sua madre. Gliele ho comprate io e dopo avergliele comprate gliele ho messe io. Quindi spiegami, davvero, spiegami, che cosa cazzo ci fanno qui? –
– Io... io... –
Kuro ridacchia, poi alza gli occhi al cielo.
– Cosa? Ti vergogni di dirlo? Eppure l'hai fatto. Dirlo non dovrebbe essere così difficile. –
– Io non... –
Fulmineo, rapido come l'ho visto solo nell'atto di ridurre qualcuno ad un ammasso di carne dolorante, Kuro tira su una mano, la stringe sul colletto della maglietta del ragazzo della mamma, lo sbatte indietro, forte, contro il muro.
– Ma ora arriva il bello, perché ancora questo non è niente. Prendi il computer. Dov'è il tuo computer? Prendilo, e facci vedere cosa c'è dentro. –
– Io non ho... un computer. Non ce l'ho. No, giuro che... –
– Tu davvero non ci tieni neanche un po' ai tuoi denti, eh? Li detesti, di' la verità. Posso risolvere il tuo problema in qualsiasi momento. Se vuoi anche adesso. –
– Ma io giuro che... –
Gli si avvicina.
Abbassa il tono della voce.
Affila lo sguardo così tanto che fa male persino a me, e non lo sta rivolgendo nei miei confronti.
– Li vuoi sputare sul bel tappeto della camera da letto? Sarebbe un peccato lasciarli qui così per terra, però. Magari poi te li faccio rimangiare. –
Il ragazzo della mamma chiude la bocca.
Sono sicuro che stia passando la lingua sopra e sotto, a contarli uno ad uno, per ricordarsi che li ha ancora, i denti, che sono rimasti lì, non si sono mossi.
Con un'occhiata tremolante indica un angolo della stanza.
Kuro segue la linea del suo viso, così faccio io.
Lo lascia andare.
Ricomincia a spingerlo in giro come un oggetto.
– Kenma, prendi il computer, per favore. E portalo di là in cucina. Non ti ho mai portato al cinema, vedila un po' come se lo stessi facendo. Ti divertirai, fidati. –
Annuisco.
– Certo. –
Kuro mi sorride.
Gli accarezzo una spalla.
Obbedisco.
Lo vedo solo con la coda dell'occhio trascinare la testa del ragazzo della mamma contro l'angolo della porta, sento il lamento, non me ne curo, svolgo il mio compito.
Stringo le mani attorno all'oggetto, torno sui miei passi, seguo il rumore della voce lagnosa fin nella cucina, trovo Kuro seduto a fianco della sua vittima, le sedie vicine, il primo sorride, il secondo è tanto rigido da sembrare quasi ridicolo. Batte due volte sulla sedia al suo fianco, la mia ombra, e di nuovo obbedisco, mettendomi a lato del suo corpo, il computer nel bel mezzo del tavolo.
Kuro lo apre.
Ficca la faccia del malcapitato sul riconoscimento facciale.
A colpo sicuro apre una cartella senza nome, nascosta in un angolo, appoggia una mano sulla mia coscia, con l'altra scorre.
Sono...
Tutti video.
Con nomi decisamente evocativi.
– Hai una bella collezione, vedo. Nemmeno i peggiori dei miei compagni nell'esercito erano così attrezzati. È un complimento, quello che ti sto facendo, fidati. – gli dice, sempre col divertimento che gli tinge la voce, misto alla furia più cieca.
Scorre ancora, sono davvero... tanti.
– Miseria, sembra che tu abbia un tipo. A guardare questi titoli credo proprio che tu abbia un tipo. Ti piacciono i maschietti, eh? E non solo maschi, ma giovani, c'è scritto "teen" sulla metà di questa merda. Oh, e anche biondi. Ti piacciono i ragazzini biondi? –
I ragazzini biondi.
I ragazzini biondi come...
– Comprendo la fascinazione, sai. Sono un po' anche il mio genere. Non quanto il tuo, però, non mi permetterei mai. –
Gli parla come se fossero in confidenza, quasi amici. Ha il tono ilare e scherzoso, sciorina le parole con una tinta d'allegria, ma io so bene, bene davvero, che quest'uomo la felicità la prova solo quando sente l'istinto di uccidere.
Sto in silenzio.
Così il ragazzo della mamma.
Kuro si sporge dalla sua parte, muove la sua sedia solo spostandola con la mano, lo costringe a rivolgersi verso di me, si fa indietro perché mi veda.
– È bello, lo so. È così carino. Proprio un bel ragazzino biondo. Un sogno fatto realtà, per te, suppongo. –
Distoglie lo sguardo.
L'uomo distoglie lo sguardo.
E allora Kuro stringe una mano fra i suoi capelli e lo costringe a girarsi verso di me, non sembra nemmeno sentirlo, il lamento che emette.
– Così bello che non ti bastava guardarlo e startene per i cazzi tuoi a volare con l'immaginazione, così bello che dovevi vederlo, vederlo e tenertelo per te. –
Scorre più in fondo sulla cartella aperta nel PC. Ce n'è un'altra, con un nome che sono solo numeri, e Kuro la apre.
Altri video.
Data e ora nei titoli.
Un'immagine minuscola di... me, sull'anteprima sopra quelli.
– Sai, il tuo piano non era poi così male, purtroppo però non avevi calcolato me, ed è stato un grave errore. Pensavi di mettere la telecamera lassù in cima e che nessuno se ne sarebbe accorto, no? Sono piccolini, Kenma e la mamma, mica ci vedono là sopra la doccia, chi vuoi che la becchi, la telecamera. –
La telecamera era... nella doccia?
– Devo ammettere però che mi hai sorpreso, ci sono proprio rimasto. Sono là che penso che forse dovrei far fare una doccia al piccolo Kenma e che magari dovrei farla con lui, la doccia, ed ecco che la vedo e mi dico "no, idiota, figurati se è quello che immagini" e invece lo è proprio, quello che immagino. Una bella telecamera. Messa lì per riprendere Kenma, il mio Kenma, quando non se ne accorge. –
Seleziona un video e preme invio.
Parte.
Sono io che mi lavo.
Letteralmente solo... io che mi lavo.
Inevitabilmente, ovviamente, chiaramente senza nulla addosso.
Spostano entrambi lo sguardo sullo schermo.
Quando Kuro si accorge che non è l'unico a guardarlo, la mano fra i capelli si stringe di nuovo, la testa del ragazzo della mamma finisce schiacciata sul tavolo, lo sguardo forzatamente distolto dalle immagini che continuano a scorrere sul computer.
– Avevo una sensazione su di te, sai, per quello ieri sera quando Kenma mi ha detto che gli erano sparite le mutande sono venuto fuori da casa sua per aspettare che uscissi e seguirti. Ci speravo quasi, che fosse inutile. Ci speravo quasi, che non fossi così idiota da mettere le mani su qualcosa che è mio. –
– Mi fai ma... mi fai... –
– Certo che ti faccio male, lo so che ti faccio male. Credi che non voglia farti male? –
– Io ti denuncio per... per... –
– Per cosa? Perché ti ho messo le mani addosso? Guarda che Kenma qui di anni ne ha diciassette, lo schifo che tieni nella tua bella cartella è pedopornografia. Io magari me la cavo con qualche settimana, tu mi sa che dentro ci stai un po' di più. –
– Anche tu... anche tu fai quelle cose con... –
– Oh, no che non le faccio. Nessun video di nascosto, nessun furto di mutande al piccolo Kenma. È tutta merda che non mi serve. Dovresti averlo visto coi tuoi occhi, che non mi serve. –
Mi lancia un'occhiata.
C'è possesso, ma c'è anche... una strana forma di devozione.
– Non ti sei mai chiesto chi glieli facesse i morsi? Quelli nei tuoi video, sì, quelli che stavi lì a guardare sbavando coi pantaloni calati a casa tua. Te lo sei mai chiesto chi è che lo toccasse per davvero? –
Alza la testa del ragazzo della mamma, la sbatte di nuovo al tavolo, il tonfo è secco, netto.
– Chi è che ti tocca, Kenma? –
– Tu. Tu mi tocchi. –
Annuisce.
Sorride.
L'atto di sorridere non fa di per sé alcun suono, ma accompagnato com'è dal lamento lagnoso di qualcuno che soffre, mi sembra generi l'effetto di una lama rigirata di netto nella carne che si sfalda.
– Chi è che ti può toccare, Kenma? Chi è l'unica persona che può farlo? –
– Tu. Solo tu. L'unica persona sei tu. –
Euforia sfrenata.
Euforia mescolata a violenza, felicità e rabbia, soddisfazione e furia.
Lo lascia andare, lo rimette seduto, chiude il PC con un movimento rapido.
– Dunque visto il mio ruolo fondamentale in questa vicenda credo che sia opportuno per me presentarmi. Te l'ho già detto che sono il ragazzo di Kenma, ma non sai molto altro di me. Da cosa potrei partire, vediamo... –
Finge incertezza, non ne ha.
– Per prima cosa ti direi come mi chiamo. Kuroo Tetsurō, piacere mio. Non credo che ci siamo mai incontrati prima di ora. –
Al sentire il suo nome, il ragazzo della mamma spalanca gli occhi.
Guarda lui, me, apre la bocca.
– Come il ragazzo... l'ex di... di... –
Kuro si rivolge a me.
– Mi conosce? Sono famoso? –
– Mamma ha parlato di te ieri sera. Sa chi sei. –
– Oh, questo mi risolve un sacco di problemi. –
Mi accarezza la coscia, torna alla sua unilaterale conversazione.
– Già, proprio io, l'ex della mamma. L'ex della mamma, undici anni più grande, lo schifoso che sta dietro al ragazzino biondo. Siamo simili, io e te, non credi? Tranne che io ce l'ho fatta, e tu sei solo un pezzo di merda che non potrà mai. Se avessi saputo che il posto era già occupato forse ti saresti dato meno pensiero. –
Cerca la mano con la mia, immergo le dita nelle sue, passo piano i polpastrelli sulle nocche, sul dorso e sul polso, la tensione è tale che sembra composto d'acciaio.
– Sono stato nell'esercito, sai, sei anni. Cacciato a calci nel culo perché a quanto pare ero troppo aggressivo persino per loro. Non una bella storia, già. Però è interessante. Vuoi sentirla? –
Non risponde.
Kuro guarda me.
Io annuisco.
– È successo poco dopo che siamo tornati dall'Iraq. Avevano iniziato a spargersi strane voci, qualcuno diceva di avermi visto ridere mentre ammazzavo una persona. Bastava che non ci fossi per un secondo e partiva tutta una sequela di "ma tu non ne hai idea, quello è pazzo, ha aperto quel soldato dalla bocca alla pancia e faceva schifo, era pieno di sangue, c'erano pezzi di interiora ovunque, e lui rideva, giuro rideva", ad un certo punto me ne sono reso conto anch'io. –
Stringe forte la mia mano.
– Che poi era vera, la voce. Era un'imboscata, era notte, avevo solo il coltello a tiro e mi sono dimenticato di fare finta che non mi piacesse. Ho sventrato quel poveretto come un pesce e mi è venuto da ridere e ho riso, mannaggia a me, forse non avrei proprio dovuto. –
È come se stesse tentando di aggrapparsi alla mia presenza, mi rendo conto.
– Allora poi tutti i commilitoni hanno smesso di parlarmi. Non che me ne fregasse un cazzo, francamente, erano una banda di idioti violenti che non volevano rendersi conto di essere idioti violenti. Si sentivano tanto meglio con loro stessi, a credere che l'unica bestia là dentro fossi io. –
È come se stesse raccontando questa cosa solo per farla sentire a me, e come se questa cosa lo spaventasse tanto, nonostante il tono, da rendergli necessario sapere che continuo ad essere qui, anche se lui la sta dicendo.
– Dovevamo tornarci, in Iraq. Alla fine dell'anno. Non vedevo l'ora. Una cosa so fare e una soltanto, se fossi stato là almeno l'avrei fatta dandole un senso. Dovevamo ripartire in due settimane. Poi i piani alti sono venuti da me, e mi hanno detto che gli altri sarebbero partiti, ma io no. Erano arrivate anche là, le voci. Volevano farmi la valutazione psichiatrica. Volevano etichettarmi come malato e mandarmi via. Qualcuno aveva raccontato quell'episodio e ora volevano mandarmi via. –
Non so se il problema sia il fatto che non volessero rimandarlo là. Forse lo è che volessero cacciarlo. Una parte di lui lamenta il torto della prima ipotesi, un'altra quello della seconda.
– Ho scoperto chi aveva iniziato quella voce. L'ho quasi ucciso sul pavimento della mensa. Mi hanno cacciato, tanto volevano già farlo, almeno li ho costretti a vedere davvero di cos'è che dovevano avere paura, invece che sussurrarmelo alle spalle. –
Si stacca da me, si gira, mi guarda. Le pupille sono dilatate, ma la striscia d'ambra chiede e prega la mia comprensione, gliela concedo con un sorriso, parte della sua tensione evapora.
– Ora, io amavo l'esercito, e sono arrivato a tanto per distruggere chi voleva portarmelo via proprio perché lo amavo, senza pensare alle conseguenze delle mie azioni, senza pensarci su. Mi sono reso conto poi che il mio modo di amare proprio non mi avrebbe permesso di tenermelo. –
Mi accarezza i capelli.
– Però ora il mio modo di amare va bene e le conseguenze delle mie azioni non cambieranno questa cosa. Quindi cos'è che potrei arrivare a fare, ora, che non mi ferma più niente? –
Gli stringe la gola con una mano.
Serra la stretta, come fa con me, ma non c'è traccia della disperazione di sapere con quel gesto quanto reale, vivo e vegeto sia sotto la sua pelle, c'è solo la rabbia.
– Io posso toccarlo. Io e basta. L'hai sentito, no? Solo io. Tu sei solo un povero stronzo che crede di potermelo portare via. Non puoi. È mio. Troveranno i tuoi pezzi sparsi nella tua bella casa del cazzo, prima che anche solo tu possa pensare di farlo. –
Stringe più forte.
L'aria gli manca, al ragazzo della mamma.
Io fisso la scena.
– Kenma vuole me. Solo me. Lui vuole me. –
Lo ripete come un mantra.
Lo ripete come se dovesse convincersi di questa cosa.
Lo ripete come...
Come...
Ho capito cos'è tutto questo.
Schianto lo sguardo su di lui e capisco, in un istante, in un attimo, cos'è che sta succedendo, cos'è che mi sta mostrando, cosa rappresenta questa scena che si svolge di fronte ai miei occhi.
Il cane da caccia che cattura la preda.
Il cane da caccia che attende l'ordine.
Il cane da caccia che guarda il padrone e fermo, coi denti a un millimetro dalla carne della creatura che ha braccato, pazientemente aspetta di sentirsi dare il via al massacro.
Kuro mi ha portato qui per questo.
Perché lui ha trovato la preda.
Ma io, io devo...
– Kuro, molla la presa. –
Kuro molla la presa.
Le sue dita reagiscono come tirate da fili che io stesso sto muovendo, si aprono e si ammorbidiscono, lasciano andare. La sua mano gli cade in grembo, il suo sguardo cerca il mio, gli occhi sono scuri e vuoti, ma seguono solo e soltanto me.
Non questiona.
Fa.
– Kuro, perché mi hai portato qui? –
– Dovevi vederlo coi tuoi occhi, cosa fa questo stronzo. Dovevi saperlo. –
– E poi? –
– Poi guardarmi ammazzarlo per te. –
– Vuoi ammazzarlo? –
– Tu non lo vuoi? –
Sbatto le ciglia.
Non è sangue, quello che mi scorre nelle vene. È qualcosa di più acido, più acre, qualcosa che brucia e che mi assuefà, qualcosa che volevo e che sentirmi dentro mi rende più felice di quanto io sia mai stato, qualcosa che mi serviva, che ora finalmente ho.
Il villaggio che brucia, lo sguardo che mi segue, l'importanza, l'esserci per qualcuno, l'essere importante, l'essere lei ed esserle migliore, l'avere tutto stretto fra le mani.
Il potere.
Tu ora, Kuro, fedele cane che attende ordini, tu ora mi hai dato il potere.
– Devo decidere io se lo voglio o no? – chiedo.
– Sì, devi deciderlo tu. Tu decidi. – risponde.
– Io decido? –
– Tu decidi. –
Io.
Io decido.
Io, scarafaggio fatto uomo io, figlio del mostro io, pasto per le bestie io, col sangue marcio, col peccato marchiato nelle ossa, progenie dell'orribile realtà che mi ha generato, io che non sono niente, che sono la cavità inconsistente di un corpo svuotato ad ogni parola, ad ogni gesto.
Io decido.
Io che non ho mai deciso niente.
Io che non ho mai avuto niente.
Io che ci sono nato, nel niente.
Io, neve sporca ai lati della strada io, giocattolo rotto gettato nel cestino io, banco vuoto al fondo della classe io, giornata di sole un po' nuvolosa io, trasparente e vitreo, incorporeo, amorfo, impalpabile e invisibile, spazzatura al fondo del cassonetto, comparsa in scena, contorno insapore nel piatto, polvere sotto gli elettrodomestici, una massa grigia e deforme di quello che nessuno vede, che a nessuno interessa, che non è niente e niente è quel che dev'essere.
Non si apriva, il mio vaso, ero solo una Pandora curiosa che voleva sapere cosa ci fosse dentro.
L'ho dovuto forzare. L'ho dovuto fare a pezzi e romperlo, quel vaso, e lanciarci contro qualsiasi cosa avessi, infuriarmi e soffrire e urlare fino a non avere più la voce, strapparmi le unghie per scostare il coperchio di un solo millimetro, piangere per sollevarlo appena.
Ora è sventrato e distrutto.
Io mangio gli insetti di tutti i mali del mondo a piene mani.
Manciate e manciate di zampette brulicanti, di errori rinchiusi in esoscheletri di cartilagine, che sperano di poter andare via e di infettare chiunque, la fatica che ho fatto per vedervi non andrà sprecata, non vi permetterò di uscire e raggiungere il resto del mondo.
Io vi ho tirati fuori.
Io ho sofferto per tirarvi fuori.
L'unico altro posto dove potete sperare di stare, adesso, è dentro di me.
Frantumati dai miei denti e inghiottiti dalla mia glottide, strizzati dal mio esofago, decomposti dal mio stomaco, assorbiti nel mio intestino.
Mangia, Pandora, mangia fino a sentirti piena.
Mangiali tutti, gli insetti.
Mangiali finché non vedi la farfalla e quando la guardi ridile addosso, strizzala fra le dita, mangia anche lei.
Ti sei distrutta per aprire il vaso.
Ora che l'hai aperto, quel che c'è dentro è tuo di diritto.
Mi alzo in piedi, la sedia dietro di me striscia sul pavimento con un suono che squarcia il silenzio, brillo, mi sento brillare, prendo Kuro fra le mani e tengo fermo il suo viso, mi chino, premo le labbra su di lui.
Mi divora ma anch'io lo divoro, adesso, e di fronte ad un uomo terrorizzato, di fronte ad una situazione senza scampo, provo su di me lo spumeggiare delle onde che si schiantano contro gli scogli della mia felicità.
Lo bacio, mi bacia lui, quando mi stacco sorrido, gli accarezzo i capelli.
– Sono così felice che tu abbia fatto questo per me, Kuro. –
– Sei felice? –
– Sono felice, felicissimo. –
Ha gli occhi neri, ancora gli occhi neri, ma non è la furia che li espande, è la soddisfazione che ha sempre cercato, quella di sentirsi dire che è stato bravo.
Leale, fedele, bravo e intelligente, questo sei.
Non come lo diresti di un umano.
Come lo diresti di un cane.
Lo stringo con le braccia, premo il suo viso al mio petto, lo bacio fra i capelli.
– Hai fatto tutto questo per difendermi, non è vero? Per tenermi con te. –
– Sì, per questo. Per questo, l'ho fatto. –
– Così felice, sono così felice. –
Muovo le dita fra le ciocche scure e folte.
– Quando torniamo a casa ti faccio vedere quanto sono felice. Ti va? –
– Sì, sì, mi va. –
Lo tengo fra le mani come se fosse un cucciolo, una creatura dolce e tenera che ha bisogno delle rassicurazioni, perché questo è quel che tiene ingabbiato nella cassa toracica, Kuro, e questo è quello che mi ha mostrato, e di questo mi prendo cura.
– Ora devo solo decidere cosa fare, allora. Ora ci penso. –
– Pensaci, Kenma, ok. Pensaci pure. –
Si adagia contro di me, lo sento chiudere gli occhi, cullo piano il suo viso sotto al mio, consapevole che ormai, dopo aver mangiato, questo è tutto quello che nei miei confronti riesce ad essere.
Un cane.
Sposto lo sguardo verso il ragazzo della mamma, il terrore c'è ancora ma non è rivolto a Kuro, è rivolto a me, e provo nel suo essere spaventato un altro colpo d'orgoglio, tanto forte che mi fa quasi tremare.
Paura di me, non di lui, no, di me.
Perché io decido.
Occhi vitrei che pregano nei miei, convinto che forse in me ci sia compassione, perché almeno io sono un essere umano.
Oh, lo sono.
Certo che lo sono.
Non potrei decidere, se non lo fossi.
– Kenma, ascoltami, lo so che quel che ho fatto ho sbagliato ma li cancello, quei video, e ci dimentichiamo di tutta questa storia, ti prometto che... –
Mi prega.
Mi prega, lui mi prega, prega me.
Ma ovviamente lo fa.
Io decido.
– Chiudi la bocca, prima che gli chieda di costringerti a farlo. –
– Kenma... –
– Chiudi la bocca. Parli solo se te lo chiedo io. –
Serra le labbra.
Spremo le dita contro la schiena rigida di Kuro, lo bacio di nuovo fra i capelli, lo tranquillizzo.
Lascio che il tempo scorra solo perché posso, solo perché ce l'ho.
Poi mi schiarisco la voce.
– Perché non l'hai lasciata, se ti piacciono i maschi? –
Il ragazzo della mamma ha le parole che gli tremano sulla lingua.
– Non mi piacciono solo i maschi. Mi piacciono anche le femmine. –
– Quindi non è stato perché così avresti potuto continuare a vedermi? –
– Anche... anche per quello. –
Increspo le labbra, annuisco.
– Se tutto questo non fosse mai successo, che cos'è che avresti fatto? Ci avresti provato con me? –
– Forse... forse sì, non lo so, hai detto che ti piacciono gli uomini più grandi e... giuro che non volevo farti del male, solo mi piacevi e... –
– Hai sentito, Kuro? Ci voleva provare con me. Questo scarto voleva provarci con me. –
Stacco appena il suo volto da me.
Mi accolgono occhi scuri e torvi, ma tratti distesi in un'espressione inaspettatamente dolce.
– Non può. Lo sai che non può. –
– Lo so, ma non ti fa ridere? Che pensasse di avere una chance. –
– Non ce l'ha. Nessuno ce l'ha. Tu sei mio. Tu rimani con me. –
Gli bacio la fronte.
– Certo. Certo che è così. –
Si aggrappa al retro della mia schiena con le mani aperte, mi tasta, vuole toccarmi, sentire che ci sono. Cerca le labbra con le mie, gliele concedo, il bacio è paradossalmente meno violento, molto più bisognoso.
Quando ci stacchiamo mi specchio nei suoi occhi.
– Io do da mangiare solo a te, Kuro. –
– Solo a me. –
– Solo a te. –
Inspiro, espiro, mi allontano di qualche passo, indietreggio nella stanza. Porto con me una sedia, che sistemo in un angolo un po' più distante, due paia di occhi attendono e aspettano solo me.
Mi metto seduto.
– Kuro, fagli male. Rompigli qualcosa. Fallo pentire di averci anche solo sperato. –
Kuro annuisce, fa per alzarsi.
Lo interrompo.
– Però non ammazzarlo. –
Aggrotta le sopracciglia.
– Perché? –
– Perché io decido, e ho deciso così. –
continua ⇘
eheheheheheh ciao cuori io sempre più confusa nello scrivere i commenti post storia con questa storia perché non so mai cosa dire cioè ah sì ecco questo schifo l'ho fatto io com'è vi piace guardate che bello
no ok a parte gli scherzi
com'è? non vi chiedo se vi è piaciuto solo com'è sisi
manca un capitolo
che spero di riuscire a scrivere a breve!!
e questo è il penultimo
e ci ho dovuto ficcare dentro le baccanti per forza scusate non credevo di farlo ma ad un certo punto quella frase era là e che faccio la cancello no pare brutto
in ogni caso
la mia sparizione è correlata con la sessione quindi fate preghierina per me per favore (e scusatemi l'assenza ma non posso farci nulla)
spero di tornare presto
bacino
mel :D
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