𝘺𝘰𝘶'𝘳𝘦 𝘫𝘶𝘴𝘵 𝘴𝘰𝘢𝘬𝘪𝘯𝘨 𝘪𝘯 𝘪𝘵
continua ⇘
[Kuroo Tetsurō] >> Sono qui fuori <<
[Kuroo Tetsurō] >> Davanti all'ingresso quando esci mi vedi subito <<
[Kuroo Tetsurō] >> Se non mi trovi ho sbagliato scuola <<
[You] >> lol <<
[You] >> un secondo e esco <<
[You] >> c'è un sacco di gente prima o poi ce la farò spero <<
[Kuroo Tetsurō] >> Ti aspetto fai con calma <<
Sospiro, quando alzo la testa per guardarmi attorno, lascio andare un filo di fiato che trattenevo nei polmoni da stamattina.
Ok, è venuto per davvero. Non mentiva.
Non so perché faccio ancora così fatica ad accettare e constatare il fatto che non menta e che non mi stia prendendo in giro.
Stringo nelle mani le bretelle dello zaino, getto piano il capo indietro per poter vedere oltre i capelli che mi ricadono sempre inevitabilmente di fronte agli occhi, metto a fuoco la scena che mi si para davanti.
Odio la scuola.
Non l'educazione scolastica, quella mi lascia del tutto indifferente, ma l'istituzione, l'abitudine, l'atto.
La scuola, io la detesto.
Cos'è che dovrebbe fare, coltivare il mio pensiero critico, educarmi? Fornirmi una cultura di base, darmi la possibilità di intraprendere qualsiasi strada io voglia dopo?
Stronzate.
Magari nei sogni di qualche stupido politico annoiato.
L'unica cosa che la scuola fa qui, in questo angolo di mondo, è puntarti la canna di una pistola alla testa e costringerti a star seduto, zitto, muto, nella giungla che è l'adolescenza, la diversità, l'ecosistema di una classe.
Se fossi ricco, magari, se fossi in uno di quei collegi privati. Ma non lo sono.
Sono solo uno dei tanti.
La scuola lucida i diamanti e lascia le pietre dov'erano, sparse fra la ghiaia che le rende tutte uguali, tutte grigie, tutte calpestabili. Se sei una pietra preziosa ti raccoglie, ti affila, ti lascia rispendere, se invece sei normale, allora ti lascia marcire nella tua mediocrità assieme a tutti gli altri, girando la testa dall'altra parte, dimenticandosi che tu sia mai esistito.
L'ho sempre odiata, la scuola.
Ho sempre odiato i miei compagni, i miei professori, la stupida lavagna bianca, gli stupidi pennarelli scarichi per scriverci sopra, il suono della campanella, gli infissi che cadono a pezzi, quelle quattro aiuole spelacchiate che la circondano.
Ho sempre odiato la galera d'essere mediocre, sveglio ma non geniale, uno fra tanti fra le fila pigre di adolescenti tutti diversi e tutti uguali, trasparente anche qui, dove mi avevano detto avrebbero cercato di me il potenziale, e non la maledizione che ho sempre avuto.
Cosa dovrebbe rendermi migliore, di questo posto? Cosa dovrebbe invogliarmi alla curiosità?
Gli altri?
Ma se agli altri non sono manco mai stato visibile. Ma se agli altri di me non è mai importato.
Là, a chiacchierare di cosa fare dopo la scuola, a parlare delle loro uscite, dei loro appuntamenti, urlando come bestie di fronte ai miei occhi vuoti giorno dopo giorno, senza mai spostare lo sguardo verso di me, senza mai nemmeno notarmi.
Cosa me ne faccio, io, di loro?
Credo di avere il valore che ha l'appendiabiti a lato della porta, per i miei compagni di classe.
Sono là e non mi muovo.
Sto zitto.
Se mi va bene qualche volta posso essere utile per chiudere la finestra dell'aula.
Mia madre quando andava al liceo era quella che piaceva a tutti, quella popolare, me lo ripete sempre. Tutti la cercavano e tutti la volevano, non come me, che se non ci fossi otterrei la stessa attenzione che ottengo ora.
Ma non importa. Davvero, non importa.
Se prima aspettavo pazientemente in fila per uscire contando le persone di fronte a me e pensando a quanto sarebbe stato divertente vederle sparire come neve al sole, ora aspetto trepidante contando le persone di fronte a me sperando che si levino di mezzo per farmi uscire prima.
Ce l'ho anche io una vita, ora, lo sapete?
Faccio cose davvero divertenti, molto più divertenti delle vostre, davvero.
Non sono più quella cartina geografica impolverata che pende calante sul muro e che tutti vedete senza guardare, ora sono qualcuno, ora l'attenzione non la cerco, me la prendo.
Stupidi stronzi.
Interminabile la lista di cui fate parte, assieme a mia madre, assieme a chiunque, di persone che non m'hanno mai meritato.
Mi mordo l'interno della bocca, stringo forte il telefono fra le mani, prego e spero che gli idioti che mi circondano si rendano utili per una volta nella loro vita e si levino dal cazzo.
Invece no.
Ovviamente, no.
Stanno là, fermi, tappo contro la porta.
Come credono che io possa farmi largo, eh? Sono un fottutissimo metro e sessantacinque, peserò quaranta chili bagnato, come li levo, questi, di torno?
La fila si muove, io con lei.
Fate in fretta, fate in fretta, cazzo.
Fate...
– E quello chi è? Oh, Cristo. Vieni qua, vieni qua, guarda que... –
– Dio santissimo, da dov'è uscito? Sto sognando, sto palesemente sognando. Non può essere una persona reale. –
– Ma la moto? Ma vogliamo parlare della moto? – – Ma che moto, la faccia, scema. –
Giro la testa di scatto.
Eh?
Perché mi pare che le tipe che sono ferme, stupidamente immobili di fronte all'ingresso stiano parlando di...
– Secondo te se gli vado a parlare faccio una figura di merda? –
– No, no, vacci, gli chiedi una cosa a caso, così lo vedi da vicino. –
– Ok, ok, un attimo che mi sbottono la camice... –
Mi faccio strada sbattendomene di tutto e tutti. M'infiltro fra due cretini di fronte a me e fra altri due davanti a loro, tiro una spallata che fa probabilmente più male a me che alla persona che se l'è presa, sgomito, sguscio fra la gente finché il Sole non m'illumina la faccia.
'Fanculo.
'Fanculo, stronza. Sbottonati stocazzo.
Mi ritrovo di fronte all'ingresso con una fila di persone dietro che mi guarda e di cui sento gli occhi addosso, la tipa – suppongo sia lei – a fianco, l'oggetto di tanta attenzione esattamente davanti a me.
Oh, sì che lo capisco perché s'era formato l'ingorgo per guardarti e commentarti, lo faccio.
Ha la giacca di pelle, quella che mi aveva prestato, le braccia incrociate, è appoggiato sulla moto parcheggiata esattamente di fronte all'ingresso, come aveva detto, le gambe lunghe stese di fronte a sé, gli occhi chiusi al Sole che lo sommerge e fa scintillare il colore corvino dei suoi capelli.
Però non li perdono. Non lo faccio.
Non devono permettersi. Tu sei...
Mi sento trascinare indietro di colpo.
Mi ritrovo le cinque dita di qualcuno strette attorno al polso, l'equilibrio del mio corpo si perde indietro.
Spalanco gli occhi e reagisco appena prima di cadere a terra. Riesco a rimanere in piedi, ma...
– Dove cazzo vai, tu? Ti pare il modo di infilarti così? C'è una cazzo di fila, se non sai rispettarla sarà meglio che impari. –
Mi giro per indietreggiare dal marasma di persone dalle quali è spuntata fuori la mano che tremo, non tanto per le parole che ancora il mio cervello sta elaborando, quando per la sorpresa, per la rapidità con cui mi sono reso conto di non essere evanescente, ma corporeo anche per queste persone.
Quasi mi sarei aspettato che la sua mano mi passasse attraverso. Sarà che c'è Kuro.
Sarà che la sua presenza conferisce a me la facoltà di esistere.
– Allora? Ci senti? Almeno chiedi scusa, idiota. –
Mi scuoto dal mio torpore.
C'è un tizio di fronte a me, anche lui sbucato fuori dalla folla come evaso dalla prigione di arti che gli sta alle spalle, che cammina verso di me e mi guarda male.
Non so chi sia.
L'ho già visto, ma non ho la minima idea di chi sia.
Prendo fiato per parlare ma non so cosa dire, non ne ho la minima idea, quindi indietreggio, penso, cerco di ricordarmi come si fa a parlare con le persone perché credo davvero di essermelo dimenticato.
– Sei muto? Non sai parlare? "Scusa", si dice "scusa", a me a tutti gli altri. – Indietreggio ancora.
Cerco di non guardarlo, odio guardare le persone negli occhi, ma dovunque il mio sguardo rimbalzi ne trovo uno verso di me e non so chi parli, se sia lui o gli altri, se ce l'abbiano con me o se mi vedano o se magari guardino Kuro o se...
Migliaia di occhi, migliaia di mani, di dita, come liane, come ortiche, come rovi, piante carnivore di fronte al fragile esoscheletro di una piccola mosca, denti e denti, pupille, iridi, mi seguono, mi seguono, ora che mi vedono mi seguono e no, era meglio essere trasparente, voglio essere trasparente, voglio...
– C'è qualche problema? –
Osservo la scena convinto di star allucinando e di essere ancora in attesa di uscire, sicuro che questo non sta succedendo ed è solo, di nuovo, il mio cervello che scappa dalle redini della sua logica.
Kuroo Tetsurō non lo guarda, il tipo, all'inizio. Guarda di fronte a sé.
Lo fa in maniera chiara, forse scenica, l'atto di abbassare il livello dei suoi occhi e la sua testa per rivolgergli la sua attenzione. Lo fa con calma, palesando a lui, a me, a tutti, quanto debba chinarsi per poterlo guardare in faccia.
È per metà di fronte a me, le braccia sempre conserte ma i muscoli della schiena rigidi, la voce ugualmente fredda.
– Kuro! –
Non mi risponde ma muove indietro un braccio per toccarmi, per farmi sentire che c'è e che si è ovviamente reso conto della mia presenza.
– Allora? Ho chiesto se c'è qualche problema. –
Pietra.
Per un attimo mi sembra che sgorghi da lui, e che si faccia strada tutt'attorno a noi.
Calcestruzzo, grigio e muto, che permea le superfici e s'indurisce, si crepa prendendo le forme di chiunque ci circondi, trasformi il paesaggio in un cimitero di lapidi antropomorfe che ci guardano senza poter reagire.
Quando ci sei tu non c'è nient'altro.
Affondi la lama nel terreno e quello si spacca in due, lasciando cadere qualsiasi cosa ci sia attorno nel baratro che ci è distante, perché noi siamo sopra a guardarlo dall'alto.
Il tipo non risponde.
L'intera platea trattiene il respiro.
– Come pensavo. –
Il muro di mattoni che è il suo corpo s'incrina e si sposta, quando si gira per guardarmi.
Increspa le sopracciglia come a chiedermi se vada tutto bene, inchiodato dal suo sguardo riesco ad annuire, ancora ammutolito dalla velocità di tutto quel che è successo.
Si scioglie un po' e sorride, quando mi vede reagire.
Prende un respiro e lascia la posizione, muovendosi verso di me per condurmi più lontano, da dov'è arrivato, per portarmi a casa.
Lascio correre anche io. Dimentico tutto e lo seguo.
Ma...
Nel frangente di qualche frazione di secondo il tipo, sciolto dal sortilegio degli occhi di Kuro, si ricorda perché è lì e muove la mano per prendere di nuovo la mia, apre la bocca per dire qualcosa che credo voglia suonare come un "non ho ancora finito con te".
La sua mano si blocca a mezz'aria, le dita ad un millimetro dal mio braccio.
Le parole gli muoiono in gola, le lettere prendono la forma di un verso di dolore, la sua pelle chiara sembra lattiginosa a contrasto con quella abbronzata di Kuro che gli stringe il polso in una morsa che pare paralizzarlo.
La morbidezza che s'era fatta strada fra i tratti del suo volto muta nell'affilatura di una lama di coltello.
Qualcosa dentro di me reagisce alla scena come se fosse di fronte ad una manifestazione sfacciata di pura violenza.
Paura.
Sento paura.
Paura che dura finché non si presenta la sensazione di potere.
Kuro non accenna a dire nulla, il tipo men che meno, passano istanti interi in cui l'unica cosa che vedo sono le dita scure dell'ex fidanzato di mia madre che si stringono sempre di più, sempre di più, sulla pelle chiara di un povero liceale.
Mi passano per la mente diverse idee.
Cosa succederebbe se uscisse un professore? Kuro passerebbe dei guai? Li passerà comunque perché qualcuno riferirà in giro l'accaduto? Che rumore farebbe il suo corpo se stringesse al punto da frantumargli le ossa? Cosa penserebbero di me tutti se glielo lasciassi fare? Cosa penserebbe lei se qualcuno le dicesse che Kuro a lei l'ha lasciata ma per me è disposto a rompere il polso ad un liceale?
Quando reagisco lo faccio scegliendo una strada sicura, soddisfacente ma sicura.
Alzo la mano e l'appoggio su quella di Kuro, che scioglie i muscoli tesi in un secondo sotto il contatto delle mie dita.
– Lascia perdere, Kuro. Non è importante. –
Vedo il muscolo della sua mandibola guizzare quando stringe i denti, ma non dice nulla.
Segue, come ipnotizzato, i miei movimenti.
Lascia andare il tipo, il cui polso cade verso il basso, pulsando in un colore rosso per nulla normale, come se non fosse una parte del suo corpo ma un oggetto appeso al suo braccio.
Le sue dita s'intrecciano con le mie.
– Andiamo, dai. –
Annuisce, quasi... inebetito.
O forse, più che inebetito, alienato, distante a se stesso, inghiottito da qualcos'altro che ora è lui e che prima non lo era.
È come se qualcuno gli avesse spento un interruttore.
Mi sembra...
– Andiamo, andiamo. – ripeto.
Mi segue in silenzio, mentre indietreggio, il resto del mondo diventa confuso e non sento cosa dicono, neppure se effettivamente dicano qualcosa.
Non c'è.
Per un po', dentro al suo corpo, lui non c'è. Non so chi ci sia.
Non lui.
Torna lentamente mentre ci allontaniamo, poco alla volta, ma prima che qualsiasi cosa l'abbia abitato per questi pochi minuti scompaia nei meandri della sua mente, quella stessa cosa mi prende il braccio, dove l'aveva preso quell'altro, mi muove le mani sulla pelle, tasta e sfiora, accarezza.
Sono sicuro che sia l'altro, e non il Kuro che vedo di solito.
Sono sicuro.
Perché non mi sta facendo una coccola, non mi sta dimostrando affetto. Sta lavando via le tracce di chiunque altro mi abbia messo le mani addosso.
Sono passate un paio d'ore quando, lui tornato alla normalità e io spoglio di tutte le emozioni che mi s'erano attaccate addosso in quegli istanti, ci ritroviamo seduti sul divano del suo appartamento, fianco a fianco, a guardare assieme un disgustoso ammasso di lettere stampate sulla carta lucidina di un libro di testo.
La sua voce risuona nella stanza ma l'argomento, per quanto possa essere lui a spiegarmelo, mi risulta comunque inevitabilmente noioso, e il sistema periferico del mio cervello credo non conosca la definizione di "periferico" perché continua a mandarmi continui messaggi e impulsi relativi a tutta una serie di dettagli di cui non dovrei preoccuparmi.
Ha la gamba contro la mia, tiene il libro giù con una mano che quasi tocca la mia coscia, sorride ogni volta che mi guarda, mi è tremendamente vicino.
Ha un buon odore, casa sua ha un buon odore, questo divano è comodissimo, lui è davvero gentile.
Ho ancora sulla lingua il sapore del pranzo che mi ha cucinato, sulle dita la sensazione di stringere le sue, se chinassi la testa di pochi centimetri starei riposando sulla sua spalla.
Sono sovraccarico, troppo perché mi riesca a concentrare su come si faccia un bilanciamento. Non voglio neppure farlo, ma anche volessi, ignorare il resto per darmi alla chimica mi è fisicamente impossibile.
Mi distraggo a guardare il suo salotto senza nemmeno rendermene conto.
Vago con lo sguardo quasi d'istinto, come faccio in classe, il mio cervello inizia un discorso a parte che nulla ha a che fare con le scienze e tutto con come quest'uomo è e come quest'uomo vive.
Casa sua è bella.
L'appartamento è grande, le finestre ampie, le stanze luminose, vive all'ultimo piano di nove, a differenza di casa mia il riscaldamento è acceso, non c'è la desolazione fuori dalle finestre ma un paesaggio residenziale, tranquillo.
I mobili sono per la maggior parte neri, l'aspetto è costoso, non ha le piastrelle vecchie come le nostre, in salotto, ma il parquet.
Ricorda lui.
È molto maschile, molto ordinato.
Completamente disabitato.
Non so se sia l'influenza dell'esercito o la tendenza a non lasciar tracce, ma non c'è segno del passaggio umano da nessuna parte.
Non c'è un piatto sporco nel lavandino, non c'è una piega sul tessuto delle poltrone, non c'è nemmeno un posacenere, è tutto perfettamente pulito, perfettamente organizzato, perfettamente asettico.
Mi ha sempre dato l'impressione di una persona efficiente, che non spreca il suo tempo in attività o pensieri futili, ma sembra vedendo casa sua che viva solo ed esclusivamente l'atto stesso di vivere.
Magari l'ha comprata da poco, mi dico.
Magari ha traslocato.
E dove sono gli scatoloni, allora?
Forse non aveva nulla da portare via.
Chi è che in ventotto anni di vita non ha niente da portare via? Qualcuno che scappa.
O qualcuno che vuole lasciarsi qualcosa alle spalle. Cos'è che vuole lasciarsi alle spalle?
Che poi, tra l'altro, lui è stato congedato con disonore, me l'ha detto lui. Ho cercato cosa significasse su internet e le prospettive non mi sono sembrate allettanti, ma questo fatto a parte, ho letto che non ti pagano se ti congedano con disonore, quindi è stato effettivamente licenziato.
Che lavoro fa?
Per affittare una casa del genere in un quartiere del genere deve fare qualcosa di piuttosto redditizio.
E poi la moto, la moto sicuro gli è costata parecchio. E anche i vestiti che indossa, la giacca di pelle che mi ha prestato quella volta non era di plastica come quelle che indossa mia madre, era di pelle vera, e ha un Iphone di quelli nuovi, e anche tutti i tatuaggi non devono essergli costati poco e...
– Kenma, hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto negli ultimi dieci minuti? –
Mi ritrovo con lo sguardo piantato sul tavolino del suo salotto, assolutamente distante dal bilanciamento sul libro, il cervello vuoto e gli occhi spalancati, quando mi rendo conto di dove sono.
Oh.
È vero. Dovevo...
– Sì, sì. Stavamo parlando di... – chino gli occhi per guardare cosa c'è scritto, vedo una "C", tento la fortuna – del carbonio. Sì, del carbonio. –
Kuro mi fissa.
Poi gli scappa una mezza risata.
– In realtà mi sono messo a parlare del mio film preferito per vedere se stessi ascoltando. E quello non è carbonio, è rame. –
Inquadro le lettere come se fossero loro ad avermi fatto un torto e la noto, ovviamente troppo tardi, quella piccola "u" appiccicata alla "C".
La maledico.
Poi maledico me stesso, mentre chino lo sguardo verso il basso a guardarmi le cosce in puro senso di colpa.
– No, non ti stavo ascoltando. Scusa, è che questa roba proprio non la capisco e lo so che tu vuoi darmi una mano e non dovrei farti perdere tempo ma ecco mi sono distratto un attimo e... –
– Non mi stai facendo sprecare tempo. E devo dire che al momento nemmeno io ho troppa voglia di continuare, forse sarebbe meglio se facessimo una pausa, che dici? –
Lo guardo con gli occhi che sembrano due fanali. – Non sei arrabbiato? –
– Perché non hai voglia di studiare chimica? Non sono nemmeno sorpreso, Kenma, mi sembra normale. –
– Oh, menomale. –
Tiro un sospiro di sollievo un po' cinematografico, Kuro ride, piega la testa per guardarmi negli occhi in quel modo un po'... paterno che usa qualche volta.
– E poi te l'ho detto che non mi arrabbierei mai con te. –
– È vero, giusto, me lo dimentico sempre. –
– Te lo ricorderò finché non ti entrerà in testa. –
Mi sposta una ciocca di capelli dal viso e poi, con mio grande dispiacere, si stacca e si alza dal divano, allontanandosi da me molto più di quanto io ritenga tollerabile.
Non so se noti l'espressione che faccio.
So che cerco di non farla.
Credo però di fallire, perché gli si apre un mezzo sorrisetto sulle labbra.
Mi lascio cadere sullo spazio su cui un attimo fa era seduto di schiena, rivolgo il viso al soffitto e lascio che i miei arti riposino molli su tutto lo spazio disponibile.
Mi scappa uno sbadiglio.
Mi copro appena in tempo le labbra.
– Sonno? –
– Ah-ah. Un po'. –
– Come mai? –
Lo vedo ai bordi del mio campo visivo spostarsi nel salotto, forse per stiracchiarsi le gambe, forse per prendere qualcosa, non ne ho idea.
– Dormito poco. –
– Non avevi sonno? –
– La mamma ha portato a casa uno. –
Si blocca in qualsiasi cosa stesse facendo, rimane immobile un attimo, poi ricomincia a muoversi.
– Di nuovo? –
– Che ti devo dire, pare essere piena di pretendenti. Certo tu non puoi dire niente a riguardo, non puoi sputare nel piatto in cui hai mangiato. –
– Lo posso fare, se credevo di mangiare aragosta e poi mi sono reso conto che era un gamberetto molto grosso. –
Mi scappa da ridere.
– Questa è carina. –
– Lo so, sono un comico nato. –
Sospiro via l'ilarità in un rumore sottile, appena accennato, involontario.
Mi accartoccio una mano sul viso, strofino gli occhi.
Sto per sbadigliare di nuovo, quando lo sento schiarirsi la voce prima di ricominciare a parlare.
– In ogni caso, vuoi dormire un po' adesso? Un'oretta o due. Poi ceniamo e ti riporto a casa. –
Lo cerco con lo sguardo.
Sembra... sinceramente preoccupato.
Le sue sopracciglia sono vicine, tirate assieme dalla premura, l'espressione è dolce, pacata, genuina.
– Non dovevamo studiare chimica, noi due? –
– Preferisco che tu dorma. Chimica te la spiego domani, c'è tutto il tempo del mondo per quella. –
– Posso davvero venire anche domani? –
– Puoi venire qui quando ti pare. –
Lo dice con tale fermezza e con tale calma che il mio cervello si convince sia la verità.
Mi si scaldano le guance, le mie labbra si aprono in un sorriso, ringrazio sottovoce, gli occhi che sfuggono dai suoi.
Non lo so se tu lo sai, cosa c'è, dentro di me, Kuro.
Forse una parte di te lo sa e un'altra no, forse lo immagini ma non ci pensi troppo, forse neghi che ci sia.
Però c'è.
La mamma ha passato diciassette anni a scavare dentro di me.
Con pazienza, perseveranza, ha preso una pala e ha gettato via la terra formando una voragine, un buco, un solco vuoto dove non c'è niente, dove l'assenza riempie ogni angolo. Ha usato un'attenta disattenzione, una mirata negligenza, la precisa noncuranza di crescermi facendomi pensare di essere completamente vuoto, completamente inutile.
Il problema è che se prima pensavo ingenuamente d'essere intero, infelice per natura, quando tu mi hai guardato per la prima volta pensando solo a me, quella notte, sotto la pioggia, allora ho seguito il tuo sguardo e mi sono guardato anch'io.
Io non sono infelice di natura.
Sono solo vuoto.
Posso averla, la felicità.
Devo solo trovare qualcuno che aderisca ai bordi frastagliati della mia ferita e completi quella mancanza che mi fa sentire così grigio.
E se lo trovo, me lo devo prendere, costi quel che costi, perché ne va di me stesso, della mia gioia personale, e perché colui che si sente costantemente privato e che pensa soltanto alla privazione non è altro che un dipendente a cui hai tolto la dipendenza.
Mi sposto sul divano fino a toccarne lo schienale con le scapole, guardo Kuro negli occhi, prendo fiato.
È colpa tua.
Sei tu che hai iniziato a darmi le briciole.
Non odiarmi, se ora ho voglia di mangiare la torta intera.
– Tu non hai sonno? –
– Perché me lo chiedi? –
– Ci stiamo tutti e due, qui. –
Batto due volte con la mano sul tessuto di fronte a me, l'invito chiaro, palese ad unirsi a me.
Vedo la confusione spandersi sul suo volto.
Qualcosa dice di sì, qualcosa dice di no, qualcosa pensa, qualcosa vuole, qualcosa urla e qualcosa preferisce rimanere in silenzio.
– Ho freddo, non credo ne avrei se venissi qui con me. – – Vuoi che vada a prenderti una co... –
– Per favore. –
Smette di dire quel che stava dicendo.
Chiude gli occhi, la sua mascella si stringe, gli cade la testa verso il basso, prende fiato con calma e profondamente.
Sembra che tenti di controllarsi. Ma perché dovrebbe?
Gliel'ho chiesto io, può dire di sì, io voglio che dica di sì, deve dire di sì perché non sopporterei se dicesse di no e...
– Cazzo. –
La sua voce pare più bassa.
È sicuramente più lieve, non so se abbia parlato per farsi sentire da me o l'abbia fatto semplicemente perché non poteva fare altro.
Tira su il capo.
Mi guarda, a metà fra lo sconsolato e il divertito. – Non riesco a costringermi a dirti di no. –
– Allora non dirmi di no. –
– Dovrei. –
– Ne sei sicuro? –
Per un attimo non risponde, sospira.
Poi...
– No, non sono sicuro. –
– Allora smetti di farti mille problemi inutili e vieni qui. –
Fissa gli occhi su di me e prima di rendersene conto me li lascia scorrere addosso in un modo corporeo, fisico, come se mi stessero toccando.
Io non mi ritraggo.
Sto fermo.
Mi piace essere guardato così.
Anche se c'è qualcosa di... minaccioso, nel modo in cui lo fa. – Al diavolo, fatti più in là. –
Mi vola un risolino via dalle labbra quando lo sento, finalmente, cedere di un millimetro dalla mia parte, mi spiaccico più insistentemente verso lo schienale, gli lascio lo spazio per potersi davvero mettere vicino a me.
Lo so quanto fragile sia la tua volontà, Kuro.
Basta spingere un po' e ti sposti, anche se sembri essere fatto d'acciaio, alla fine ti ammorbidisci quando si tratta di me, ti lasci smuovere.
Lo fai solo quando si tratta di me, vero? Solo per me.
Assolutamente, solo per me.
Mi raggiunge quasi di fretta, quasi come se pensasse di doverlo fare subito, prima di lasciarsi trascinare via dal rimorso o dalla paura, supera con un paio di falcate la distanza che ci separa e arriva di fronte al divano.
Mi guarda in un modo che mi fa sentire al settimo cielo. Reagisce in un modo che mi fa sentire euforico.
Non ti comporteresti come se stessi cercando di resistere, se non ci fosse effettivamente qualcosa a cui resistere. Non saresti così riluttante ad accondiscendere alle mie richieste, se non percepissi anche tu che c'è qualcos'altro, oltre quel che dico e che penso.
Tu vedi quel che vedo io, no? Guardiamo nella stessa direzione.
E con ritmi diversi, tu un po' più incalzato, io navigando nella disperazione d'essere dipendente dall'affetto che mi dai, stiamo andando dalla stessa parte.
Si siede.
Con calma e lentamente.
Si siede e poi si stende, le sue gambe sono lunghe, infinite, arrivano giuste al fondo del divano, il suo corpo occupa tutto lo spazio disponibile.
Ho sbagliato, mi sa.
Non è vero che ci stiamo in due.
Ci staremmo in due solo se ci stringessimo. E non vorrà mica che io...
Lascio che una delle mie cosce gli attraversi la pancia, appoggio la fronte contro la sua spalla, il petto sul suo fianco, corro con una mano al lato opposto, mi sistemo addosso a lui senza dire una parola.
Lo sento, che trattiene il fiato.
Anche io lo faccio.
Ma nessuno dei due fa nulla per fermarmi, e di fatto, io non mi fermo. È solido.
Ogni parte di lui a contatto con me è solida, rigida, non c'è nemmeno un angolo morbido, solo ferro e mattoni. Mi muovo su me stesso per sistemarmi e il suo corpo reagisce, si contrae sotto il mio, si sposta in armonia con me mentre cerco di trovare un punto comodo.
Strofino la guancia contro di lui.
Quando mi rendo conto che ancora non si sta ritraendo, volo con l'immaginazione a qualcosa che forse davvero non dovrei fare, ma che a quanto pare posso.
Mi sporgo, gli prendo un polso, mollo la sua mano sulla mia gamba, quella sopra di sé, invitandolo tacitamente a toccarmi e a farlo senza problemi.
Non fa nulla.
Non dice niente, non reagisce minimamente alla cosa, rimane zitto. Non fa niente, Kuro.
Però non la toglie.
Lui la lascia... lì.
Ti senti così in colpa a farle da te, le cose, non è vero?
Ti senti il colpa anche solo a volerle, lo sento, lo so.
Però le vuoi.
Hai solo bisogno di un... colpetto, per saltar giù dalla scogliera e gettarti in acqua.
Hai solo bisogno che io ti spinga un centimetro oltre la linea di partenza, poi il resto della distanza la coprirai da solo.
– Sei comodo, Kuro? –
Risponde senza parlare, annuendo e basta.
– Sicuro? –
Annuisce di nuovo.
Osservo il suo viso, i suoi occhi che sfuggono per piantarsi dovunque tranne che sui miei.
No, non sei comodo. Per niente.
Sei...
A metà.
E vorresti cadere da una delle due parti, ma non sai come e non sai se farlo t'impedirà di tornare all'altra.
Sei così bloccato, dietro i tuoi occhi, dentro la tua testa, sei così spezzato, così spaventato.
Ma non c'è bisogno che tu lo sia. Ci penso io.
Ci penso io, a te.
– Mi abbracci? –
Vola con lo sguardo sul mio in un attimo.
Sembra... sorpreso?
– Ho un po' freddo, te l'ho detto prima. –
– Freddo? –
– Sì, Kuro, ho freddo. –
Mi guarda e da questa distanza così ravvicinata, vedo ognuna delle pagliuzze dorate dei suoi occhi.
Ho freddo, sì, ho freddo.
Non il freddo che gli altri chiamano "freddo", un freddo diverso, pur sempre freddo.
Uno interno.
Uno che nasce da dentro.
Uno glaciale e fermo, grigio, che annichilisce i pensieri, i muscoli, che rallenta i movimenti, che spegne le emozioni.
Uno che somiglia alla pietra, che somiglia al Nulla della Storia Infinita, che divora, che mangia e manda giù.
Uno che scaturisce dal mio cuore e s'inerpica lungo le vene come una serpe, che costringe le mie ossa, che serra la bocca del mio stomaco.
Però tu dentro hai il caldo, no? Hai il fuoco, l'incendio, le fiamme che consumano e trasformano in cenere.
Bruceresti chi è normale.
A me, che sono freddo, che sono morto, a me scaldi e basta.
– Non lo dico a nessuno, Kuro. –
Respira piano e profondamente.
– A nessuno. – ripete.
– A nessuno. – confermo.
E allora all'ombra, nell'angolo di mondo che ci nasconde qui dentro, in questa casa che non è una casa, è un insieme di mobili dove qualcuno passa del tempo, dove non c'è traccia del passaggio di chiunque, dove la trasparenza non è sinonimo di onestà ma del puro e semplice non farsi vedere da nessuno, Kuro un po' cede.
Si ammorbidisce, lascia andare un verso gutturale di quelli che fai quando ti sposti o ti stiracchi, e stringe la mia gamba.
Poi si gira verso il fianco, mi avvolge con le braccia, mi porta al petto, fa come stavo facendo io un attimo fa, cerca e trova un punto comodo, un punto che lo faccia sentire a suo agio, e si rilassa.
E il freddo un po' se ne va, dentro di me.
Se ne va, lasciando il posto ad un'euforia che non so se dovrei provare ma che provo, quando guardo quest'uomo adulto, bello, indipendente, cosciente di quel che fa, reagire a me come se questo fosse effettivamente qualcosa che desidera.
– Così senti meno freddo? –
– Molto meno. –
– Bene. –
Adagio la testa sotto la sua, appoggio la fronte contro il principio del suo petto, in quello spazio dove le clavicole s'incastrano con lo sterno.
Sento il suo cuore che batte. Batte forte, come il mio.
È così ironico, non credi?
Sappiamo entrambi cosa sta succedendo, lo sappiamo bene. Sei così convinto di dover far finta che alla fine nessuno dei due dice ad alta voce quel che vorrebbe, sono io così spaventato all'idea di allontanarti che trattengo dentro la bocca tutte le parole che vorrei dirti chiaramente, però alla fine stiamo soltanto non dicendo qualcosa che c'è.
Forse mi sto solo illudendo. Forse vedo cose che non ci sono.
Ma perché ti sento trattenere il fiato, quando aggancio il tuo fianco con la gamba e ti stringo a me, se sono l'unico a vedere cosa c'è fra noi?
Perché le tue mani stringono la mia carne così forte, se non hai idea di cosa io voglia, se non vuoi niente da me?
Sono così abituato a convincermi che niente di quel che voglio possa essere alla mia portata che mi sento stupido, a volte, quando cerco di leggere il tuo comportamento.
Magari sono solo un illuso.
Però io sono certo che tu... sappia, e che tu voglia.
Io sono solo una povera vittima, alla fine di tutta questa storia, non sono altro. Sono il frutto dell'odio, sono un fiore fiorito fra la ferocia e la fame di mia madre, sono un piccolo esserino amorfo e grigio che si barcamena nella rappresentazione teatrale del mondo.
Era ora che il mondo mi desse l'occasione di avere qualcosa, no?
È logico che lo voglia. È logico che lo desideri.
È tutta la vita che aspetto che qualcuno mi veda.
È tutta la vita che pretendo che qualcuno mi renda il prezzo che ho pagato venendo al mondo.
Sorrido lentamente e apro gli occhi, trovo Kuro che mi fissa e non so come sapevo lo stesse facendo.
– Comunque non ti ho ringraziato per prima. Me ne sono ricordato ora. –
– Prima? –
– A scuola. –
Strofino la testa contro il suo collo e lascio scivolare via dalla gola un verso sottile, che può sembrare un sussulto, un gemito o un mugugno a discrezione di chi lo ascolta.
– È stato davvero carino da parte tua difendermi in quel modo. Nessuno l'aveva mai fatto prima. –
Sfioro una delle sue spalle con la mano, lo accarezzo appena appena, la fermo contro il suo fianco e la tengo lì.
– Mi sono spaventato quando mi ha preso per il polso. Menomale che c'eri tu. –
Improvvisamente la dolcezza del suo corpo sul mio, diventa violenza.
Non saprei come spiegarlo, ma cambia in lui l'intenzione.
Se prima mi stringeva con affetto e con calma, l'attimo dopo, pur non cambiando il modo né l'intensità, sento la pressione accumularsi su di me.
– Menomale che c'ero io, sì. Menomale. –
La sua voce suona più seria.
Anche un po' meno controllata, a dirla tutta.
– Quel figlio di puttana deve ringraziare il cielo stasera che eravamo a scuola. – continua, poi, suscitando in me una curiosità maliziosa che forse non dovrei avere ma che ho e non respingo.
– Perché? –
– Perché se fossimo stati da un'altra parte l'avrei ammazzato, Kenma. –
Un brivido mi corre lungo la schiena.
Non so se sia paura o...
– Ti ha fatto incazzare così tanto? –
– Odio le persone che non sanno stare al loro posto. Odio le persone che credono di poter fare quello che vogliono. –
– Ti è spiaciuto che mi abbia risposto male? –
– Mi è spiaciuto, se vuoi dirlo così, che ti abbia toccato. –
La stretta della sua mano si fa ancora più serrata.
Si fa possessiva.
Si fa violenta.
Devo stringere i denti per non gemere, devo farlo, davvero, e devo pensare a qualsiasi cosa mi passi per la mente, le più oscene, le più raccapriccianti, per evitare che il mio corpo reagisca alla stimolazione eccessiva che sta subendo.
Merda.
Come posso non illudermi, quando fa così?
Come posso?
Mi vuole, mi vuole, io lo so che...
– Perché ti è spiaciuto che mi toccasse? –
– Perché nessuno può toccarti. –
Mi sente tremare.
Lo so.
Non me ne vergogno nemmeno.
Prendo aria perché la sento mancarmi dai polmoni.
Poi, con il corpo talmente sensibile da sembrare argentovivo, appoggio la mano sopra quella delle due che è sulle mia coscia.
Lo spingo verso di me.
– Tu mi stai toccando. –
Le ciglia gli cadono verso il basso, sono scure, folte, contornano lo scintillare dorato dei suoi occhi, gettano un'ombra scura su un colore che già di per sé non promette nulla di buono.
– Io non faccio pare di quel "nessuno", Kenma. –
– E chi l'ha deciso? –
– L'ho deciso io. –
Cola, come fosse sciolto, come fossero lacrime di metallo, il tono delle sue iridi che cercano le mie. Rimane là ed eppure mi sembra espandersi, raggiungermi, divorarmi.
L'oro che simboleggia cosa? La ricchezza?
La regalità?
La divinità?
No, l'oro che simboleggia il potere.
Che è sfacciata, chiara, decisa constatazione di quel che lui è, di fatto, qualcuno che ha potere.
Quantomeno su di me.
C'è così tanta tensione fra noi che potrei giurare di vederla.
Mi si avvicina piano, le punte dei nostri nasi quasi si sfiorano, il modo in cui mi fissa m'inchioda immobile.
– Tu ti farai male, Kenma. –
– Mi farò... –
– Se continui così, tu ti farai male. Ti ho già avvertito, non capisco perché non mi ascolti. –
Rimango impietrito per un istante, le ossa gelide del terrore, la pelle calda dalla sensazione di essere guardato in questo modo così... bruciante.
Poi raccolgo tutto quello che ho. Che è niente.
Raccolgo tutto il mio niente, perché questo è quello che sono, e prendo fiato per parlare.
– E se volessi farmi male, Kuro? –
– Tu non sai di cosa parli. –
– E tu invece sì? –
Stringe la mandibola che guizza sotto la sua pelle.
Da qui, da questa distanza, vedo e riconosco ogni singolo movimento del suo viso, ogni singola emozione gli passi sotto la pelle.
– Tu lo sai cosa voglio, Kuro? –
Deglutisce la saliva, prima di parlare, dilaniato dalla paura di cosa potrei dirgli che corre in senso uguale e contrario alla curiosità di sentire la risposta.
– Cosa vuoi, Kenma? –
– Voglio essere lei. –
È la prima volta che lo dico ad alta voce.
È...
Strano.
Strano formulare il pensiero in maniera cosciente ed esprimerlo. Strano essere così trasparente.
Strano rendermi conto una volta ancora che la odio, sì, io la mamma la odio, ma che sotto sotto la invidio pure, perché nel suo schifo lei ha chiunque voglia ai suoi piedi, mentre io nel mio ci ho sempre navigato da solo.
Però è liberatorio.
Mi fa sentire più leggero.
Mi fa sentire...
– Voglio che gli altri mi vogliano come vogliono lei. Che mi vedano. Che gli importi di me. Che non mi trattino sempre come se io non fossi nemmeno là con loro. –
– Lo sai che a me importa di te. –
– Voglio che t'importi di più. Al punto che ti dimenticherai di avere paura di farmi male. –
– Kenma, io... –
Mi abbasso verso di lui.
Non lo tocco, solo sfioro il suo viso coi miei capelli.
Lo vedo, che mi guarda le labbra. Ma non fa niente, e niente faccio io.
– Se mi facessi male almeno qualcuno mi avrebbe fatto sentire qualcosa in questo cazzo di posto in cui non sento niente da una vita, Kuro. –
Sorrido.
– Almeno saprei di esserci davvero, qui. Saprei di essere vivo. –
Segue il movimento pacato con cui le mie labbra si distendono, osserva da vicino il mio viso cambiare, mutare in corrispondenza di quel che c'è dietro la faccia, dentro la testa.
– Tu credi che io non sappia che dentro fai schifo? Lo so, Kuro. Lo so che dentro fai schifo. –
Piego il capo, qualche ciocca mi sfugge di fronte agli occhi e cade verso le mie labbra, pendendo verso il collo.
Segue con lo sguardo la linea dei miei capelli scuri, osserva il collo con una fascinazione strana, un po'... morbosa.
– Ma dentro faccio schifo anche io. Quindi a me va bene, se fai schifo. –
Atterro piano con la testa dov'era prima, sul divano e sul suo braccio, gli occhi rivolti a lui, il corpo di nuovo giù, rilassato.
Mi guarda per un istante eterno.
Il collo, che stava fissando prima, e poi le clavicole, poi le braccia, i polsi. Mi guarda il viso, le labbra, la coscia che sta ancora toccando, la vita, i fianchi. Beve di me ogni millimetro, pare non averne mai abbastanza, aver bisogno di averne ancora e ancora e...
Scatta con una mano al mio viso.
Lo prende in una morsa che mi taglia via il fiato.
Come quella dell'altra volta, dritta al collo, questa volta, però, davanti, con le dita che raggiungono le basi del mio volto, il palmo che incastrato fra la parte sottostante il mento e l'inizio della trachea.
– È che tu non sai quanto, Kenma. Quanto faccio schifo. Tu non ne hai un'idea. Se l'avessi non mi chiederesti quello che mi chiedi ora. –
L'aria mi manca, ma la cerco insistentemente.
Quando rispondo ho la voce soffiata, graffiata, un po' vuota.
Però questa volta rispondo.
Non mi faccio prendere dal panico.
– Sei sicuro che non te lo chiederei? –
– Dovresti essere completamente pazzo, per farlo. –
– C'è un grammo di me che ti sembra sano di mente, Kuro? –
Si morde l'interno della bocca.
Lo fa forte, come se cercasse di svegliarsi, di trattenersi. Quando la riapre il bordo di un labbro è più scuro, come se fosse ricoperto da una piccola patina di sangue, la sua voce è meno intrisa di istinto, più seria.
– Dovrei alzarmi e andarmene. –
Prendo fiato come riesco.
– Fallo. –
I nostri cuori battono assieme, con lo stesso ritmo, con la stessa rapidità, il sangue si muove nelle nostre vene come se fosse lo stesso, denso e scuro, infuso di veleno e accidia, bollente, l'aria che condividiamo è la stessa.
– Mandami via, Kuro. Cacciami da casa tua, fallo. –
Ferma anche se soffocata. La mano si stringe ma la mia voce mantiene solidità, mantiene convinzione, non cede.
Non so dove nascondessi questa cattiveria, questo carattere, sotto tutte le macerie di nullità che ho sempre avuto dentro.
Forse dovevi arrivare tu per cercarla.
Forse doveva mandarmi, il mondo, qualcosa per cui valesse la pena schiudersi dalla propria mediocrità.
– Detestami. –
– Non posso. –
– Disprezzami, Kuro, cancellami dalla tua vita. –
Cala le dita, i miei polmoni si riempiono regolarmente, sento la testa pian piano iniziare a girare, farsi più leggera.
Mi lascio andare contro di lui.
Lui mi stringe, anche se non dovrebbe, anche se si ordina di non farlo.
Sorrido, col gusto metallico del trionfo in bocca, mentre le sue mani su muovono su di me, mentre mi accarezzano, consapevole che ho quasi sciolto un altro nodo, che ci sono vicino, ora, a dipanare il gomitolo alla ricerca di quel pezzo di filo che cerco.
– Non posso. Non ce la faccio. –
Inerpico una mano verso le sue spalle, apro il palmo su una scapola, muovo piano le dita sulla pelle coperta dal tessuto della maglietta.
– Allora non respingermi sempre. –
Lascia andare la tensione, il suo intero corpo trema un secondo prima di ammorbidirsi, incastrarsi col mio.
Il rumore della sua voce mi sembra ovattato. Forse è perché ho chiuso gli occhi.
– Non posso fare nemmeno questo. –
– Mmh, se lo dici tu. –
Incastro la testa sul suo petto.
– Sei tremendo, Kenma. –
–Lo so.–
Il mio respiro si regolarizza, le gambe iniziano a rallentare, ad adagiarsi nel sonno.
– È un'esclusiva solo tua. – borbotto.
– Tutto è un'esclusiva solo mia. –
Sorrido contro la sua maglietta. Lascio che il sonno m'invada.
– È vero anche questo. –
Sorride lui, anche se non lo vedo.
Mi prende in giro, mima quel che dico io, lo fa con leggerezza nella voce come se non fosse successo niente, come se tutto fosse normale.
Peccato che la sua mano non s'è mossa di un millimetro. Peccato che io lo senta, che il suo corpo reagisce al mio. Ridacchio, prima di addormentarmi.
Lo faccio al suono del suo...
– Lo so, Kenma. Lo so. –
continua ⇘
WE BACK CON LE COSE TOSSICHE
AMO LE COSE TOSSICHE
DATEMI LE COSE TOSSICHE
no scherzo
più o meno
e niente
SPERO CHE VI SIA PIACIUTO poi la prossima settimana esce scottish sithe quindi ci vediamo là però intanto SPERO CHE VI SIA PIACIUTO SE MI DITE SE VI è PIACIUTO SONO CONTENTA DAVVERO UN SACCO DI BACINI PER VOI
basta
torno a studiare
ciao cuory un bacio
mel <3
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