7.1 Spettacolo Patetico

«Per ora è tutto, signorina, può andare.»
Non me lo faccio ripetere due volte: scatto in direzione della porta, attraverso il corridoio con passi rapidi, e in un attimo sono già fuori dagli uffici temporanei della FIA.
Il cuore mi batte ancora forte, ma mi costringo a respirare piano, cercando di rallentare, come se mi preparassi alla partenza di una corsa.

L'aria fresca e pungente del paddock mi travolge, densa di odori familiari: olio, pneumatici e un sottile retrogusto di adrenalina.
La frenesia della gara si sta affievolendo, il circuito si sta svuotando e qua e là ci sono ancora meccanici che smontano le motorhome, accompagnati dal clangore metallico dei pezzi che vengono riposti nei camion, pronti per raggiungere la prossima tappa.

Mi stropiccio gli occhi stanchi, ripercorrendo nella mente l'ora abbondante di interrogatorio. Avevo concordato con Leonardo una versione piuttosto semplice, inequivocabile: "Sono parte dello staff tecnico, ho agito solamente per salvaguardare la sicurezza del pilota e della vettura."
Nonostante ciò, gli investigatori hanno insistito per avere mille dettagli, cercando il minimo errore, una contraddizione che facesse crollare la storia, ma penso di essermela cavata.
Ho ripetuto fino alla nausea come ho tentato di avvertire Seneca, che non mi ascoltava, e che l'unica soluzione per evitare un incidente catastrofico era intervenire direttamente.
E, per ora, sembra che abbiano abboccato.

Mi stringo nella tuta, stanca e frustrata dall'intera situazione, e do un calcio a un sassolino solitario.
La pietra rotola via e sparisce nell'oscurità fino a scontrarsi contro qualcosa con un rumore secco. Rumore seguito da un verso stridulo che spezza la calma della sera.
«Ehi! Attenta alla mercanzia, jolie». Una figura si stacca dall'ombra di un camion parcheggiato e io alzo gli occhi, incontrando lo sguardo penetrante di zio Frost. Odora di fumo, ma almeno non ha una sigaretta tra le dita, questa volta.

«Stavo diventando vecchio ad aspettarti! Cos'è, ti hanno chiesto si raccontare tutta la Bibbia, capitolo per capitolo?»
«No» replico esasperata, con gli occhi rivolti al cielo e un sorriso ironico sulle labbra «si chiedevano come mai un pilota pluripremiato sia così incline a perdere il senso dell'umorismo.»
Frost solleva un sopracciglio, divertito. «Ah, interessante. Vediamo se lo recupero prima che la tua versione dei fatti ci costi una multa a sei zeri.»

Sto per ribattere, ma lui inclina la testa e agita una mano davanti al volto in modo teatrale, come se fingesse di annusare l'aria.
«Leonardo mi ha mandato a controllare che fosse tutto a posto. Ma prima, Isabeau, dobbiamo affrontare una questione più...urgente» dice, storcendo il nasino delicato «Sai, temo che l'odore di tensione non si sposi bene con l'olio motore.»
Lo fulmino con lo sguardo. «Stai dicendo che puzzo?»
Lui solleva le mani, fingendosi innocente «Mais non! Stavo solo pensando che potresti gradire una sosta alle docce. E, da vero gentilhomme, mi offro di accompagnarti di persona ai bagni dei box. A quest'ora non c'è più nessuno, quindi non dovrai neanche far la fila.»

Lo seguo, brontolando tra me e me, finché arriviamo davanti alla porta dei bagni e, quando si gira, un sorrisetto furbo gli compare sulle labbra. «Nous voilà. Tu rilassati. Io vado a cercarti qualcosa di pulito da mettere. A meno che tu non abbia bisogno di aiuto per lavarti la schiena...»
L'occhiata che gli rivolgo parla da sola e, infatti, ridacchia e prosegue «Bien, alors. Nel frattempo, potresti riflettere su come sei riuscita a far impazzire mezza scuderia in un solo giorno.»
«Grazie, Frost» mormoro sottovoce, mentre lo guardo allontanarsi con quel suo passo sicuro e baldanzoso. Ma non so se lo dico davvero a lui o all'universo, per avermi dato un momento per riprendere fiato.

Chiudo la porta alle mie spalle e rimango finalmente da sola nel piccolo spogliatoio che precede le docce.
Regna un silenzio tombale, ed è stranamente confortante mentre mi spoglio e mi avvolgo in uno degli asciugamani puliti messi a disposizione del personale.
Poi, in punta di piedi, mi avvio verso le docce, pregustando il momento di sollievo che mi aspetta. Ma non appena varco la soglia, mi fermo di colpo.

Seneca è qui.
Mi dà le spalle. Le mani appoggiate al lavandino stringono appena il bordo di ceramica e guarda dentro allo specchio senza riflesso, in silenzio.
Non si accorge di me, il vapore gli impedisce di notarmi, ma io lo vedo. Eccome se lo vedo.
È coperto solo da un asciugamano, stretto in vita, e ha un espressione contrariata sul volto, il resto... beh, è uno spettacolo.

I miei occhi, traditori, si muovono per conto loro, tracciando ogni linea e curva dei suoi muscoli scolpiti: le spalle ampie sembrano disegnate da un'artista, forti e toniche. La schiena liscia e dorata é un fascio di tensione e vigore, con i muscoli gonfi e definiti sotto pelle. Una spruzzata di lentiggini decora il suo corpo, aggiungendo un tocco di perfetta imperfezione al suo aspetto, accompagnate dalle goccioline d'acqua che creano un contrasto quasi ipnotico.

Stringe con più forza il bordo, le nocche sbiancano e le vene si ispessiscono sugli avambracci, poi, all'improvviso, si volta e io non faccio in tempo a dileguarmi.
Lui mi guarda. Io lo guardo. La sua espressione muta passando dalla confusione allo shock e, infine, diventa sempre più scura, arrabbiata.

«Adesso ti intrufoli anche nelle docce, pirada?» pronuncia con quella sua voce roca, livido in volto.
La mia bocca si spalanca, incredula, e batto le palpebre. Cosa ci fa lui qui?

Lo sento grugnire, irritato, mentre si passa una mano tra i capelli umidi e scuri, e una gocciolina ribelle gli cola lungo il collo spesso.
La mia mente si svuota. La seguo, avida, mentre scende lungo la curva dei suoi addominali e si insinua furba sotto l'asciugamano, dove i miei occhi non possono arrivare a vedere.

«Caralho! Sei proprio una pervertita» mi accusa, indignato e io distolgo subito lo sguardo, colpevole.
«Non avevo idea saresti stato qui» sbiascico, con gli occhi puntati a terra, sui miei piedi nudi.
«Ma certo. Come non sapevi di esserti infilata all'interno della mia monovolume, l'altra sera, giusto?» mi deride.
E, di colpo, realizzo: il maniaco era lui. È sempre stato lui.
I pezzi del puzzle cominciano ad incastrarsi. Il tono di voce familiare, l'iniziale odio immotivato nei miei confronti, l'atteggiamento arrogante. Tutto torna.
Quindi è questo il vero Seneca?

«Infatti, è proprio così» sibilo, a denti stretti.
Fa dei passi nella mia direzione e serro i pugni sull'asciugamano. Non devo guardarlo, o continuerà a farsi un'idea sbagliata di me. Non che non me lo stessi mangiando con gli occhi poco prima, anzi, ma la verità è che al di là del suo bel visino e delle sue incredibili doti di pilota, c'è una parte di lui che non conoscevo. Che forse nessuno conosce.
E che non è altrettanto piacevole.

«Sei contenta di essere stata assunta nella McQueen, pirada?» mormora, l'alito caldo che mi accarezza i capelli per quanto si è avvicinato «Molestarmi sarà più semplice, ora» allarga le braccia per invitarmi a toccarlo, ma io non mi muovo.
Come osa accusarmi di una cosa simile?
«Ti stai sbagliando Seneca. Non ho quel tipo di interesse nei tuoi confronti» gli rispondo, aspra. E questa volta lo guardo dritto negli occhi. "Sto solo cercando di sopravvivere in questo mondo" vorrei urlargli. Ma non posso farlo, non capirebbe.

«Lo vedo come mi fissi. Credi non me ne sia accorto? Sei proprio come le altre, vuoi un pezzo del grande Seneca» mi scruta da sotto le ciglia folte e scure, gli occhi stretti, giudicanti. «Pensavi di sedurmi conciata in questo modo, umh?»

Sgrano gli occhi, incredula. Non può averlo detto sul serio.
«Ma per chi mi hai presa?» sibilo, sprezzante, spingendolo via. Ma questa volta, le mie braccia molli non lo allontanano più di tanto, anzi, una fitta di dolore mi attraversa il polso, portandomi a ritirare il braccio e stringermelo al petto.
Lui fa un passo indietro, scuote la testa e, senza aggiungere altro, mi gira attorno e si dirige agli spogliatoi.
L'attimo dopo la porta d'ingresso sbatte. Se n'è andato.

Il rumore mi riscuote. Mi guardo intorno, incapace di credere a quello di cui mi ha appena accusata. Lancio una seconda occhiata alle mie spalle, giusto per assicurarmi che se ne sia andato davvero, e scelgo l'ultima doccia, quella più riparata da eventuali visitatori notturni. Sperando che lui sia stato l'ultimo.

L'acqua ci mette diversi minuti per scendere calda, ma quando infine arriva la accolgo con un gemito soddisfatto.
Mi strofino con energia i capelli, approfittando del prodotto già presente in loco, anche se si tratta di un banale shampoo da uomo tre in uno.
E, sotto il getto bollente, i muscoli indolenziti cedono e mi abbandono per un momento contro la parete. Ci sono solo io qui, gli occhi chiusi e il ticchettare dell'acqua che colpisce le mattonelle.
Nessun altro. Sono sola. Sola in questo bagno, come al mondo.
Nessuno ha idea di chi io sia in questa versione più giovane della realtà.
Non ho la mia famiglia, le mie amiche, o un posto dove fare ritorno la sera. Un rifugio.

"Pensavi di sedurmi conciata in questo modo, umh?"
L'amaro mi soffoca la gola, mescolandosi alla stanchezza che mi grava sul petto.
Seneca mi odia. Non è affascinante o carismatico, non è l'eroe gentile che ho sempre ammirato. È crudele.

«Voglio tornare a casa» mormoro e le mie lacrime si amalgamano all'acqua scrosciante «Rivoglio la mia vita, mi manca papà... e perfino quella stronza della mia gatta» una risata si insinua tra le lacrime.
Perché mi sta succedendo tutto questo?
Scivolo lungo la parete, fino a terra, e mi abbraccio da sola, sotto il getto caldo e dolce come una carezza.
Le lacrime continuano a scivolare sulle mie guance, indistinguibili dal resto dell'acqua, ma inarrestabili.
Non posso tornare indietro. Non posso svegliarmi. Posso solo accettare di essere qui, in questo tempo sbagliato, con persone che non sono quelle che amo e altre che non rivedrò più.

Scrollo la testa. Mi strofino il volto. Devo prenderne atto.
Piangere è inutile, non mi aiuterà a trovare un posto in cui dormire questa notte, né dei soldi con cui pagare il cibo o i vestiti.
Venir assunta alla McQueen potrebbe essere stata l'unica cosa positiva di tutto questo casino. Devo approfittarne.

Mi rialzo e mi avvolgo nel piccolo asciugamano, tirando su con il naso colante. Poi ne prendo un secondo per raccogliere i capelli, mentre mi dedico a sistemare la fasciatura del polso e a lavare le mie cose. Chissà quando avrò i soldi per comprare dell'intimo nuovo...

Con le mutandine gocciolanti in mano e i capelli ancora bagnati e arrotolati nell'asciugamano, vado alla ricerca di un phon ma, ovviamente, qui non ne trovo uno.
«Non hanno niente in questo dannato posto!» sbotto, con la testa sotto il getto freddo dell'aggeggio per asciugare le mani, mentre tampono il tessuto fradicio con un nuovo asciugamano.

Quando torno a guardarmi nello specchio sono un disastro: i capelli sono un groviglio nero, indefinito, e i miei occhi sono così gonfi e rossi che fatico a tenerli aperti. Senza contare il colorito pallido della mia pelle, più cinereo del solito. E le mutandine, ancora umide, mi fanno raggiungere un livello di disagio inimmaginabile.
Uno spettacolo patetico. Ma fa lo stesso.

Appoggio le mani sul bordo del lavandino, imitando in modo inconsapevole la posizione in cui ho trovato Seneca poco prima, e prendo un lungo sospiro.
«Ok, Isabeau» mormoro a me stessa «da qui non può che migliorare, giusto?» 

... Continua ...

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