1. Crush

30 aprile, 2034.

Quando corro perdo il contatto con la realtà, con l'esterno. Non sento più il rumore del pubblico, i loro piedi battere sugli spalti, o la pioggia picchiettare sul mio casco. La mia mente è un tutt'uno con la monoposto, che guido come un prolungamento stesso del mio corpo.

Ogni curva sull'asfalto umido e scivoloso è una lotta per mantenere la vettura in posizione. Ogni accelerata un urlo lanciato a piena potenza.
Una sensazione di pura libertà, di energia. Ciò che mi tiene in vita.
Il brivido di camminare su un filo sottile tra il successo e il disastro.

Per qualcuno la pioggia o l'asfalto viscido, pronti a reclamare la loro prossima vittima, rappresentano una maledizione.
Per me sono un motivo per correre più forte.
L'adrenalina che pompa il sangue più veloce nelle mie vene. Euforia e paura in un cocktail inebriante.
Il rumore delle gocce sulla visiera, l'aria umida che filtra nel casco, la concentrazione assoluta... Sono un sussurro dolce all'orecchio, amorevole, materno.
"Vai, amore mio, vola", mi dicono.
E io volo.

Mancano quattro giri alla fine. Quattro giri e la vittoria sarà finalmente mia. Lo so. Riesco già a sentirne il sapore sulla lingua, ed è delizioso.
L'auto romba e vibra sotto al mio corpo come un gatto che fa le fusa. Il pedale è il mio miglior alleato, così morbido e cedevole sotto al mio piede.

«Navarro è dietro di sei secondi e il distacco sta aumentando. Quattro giri alla fine. Continua così e mantieni il ritmo» gracchia la voce nel mio orecchio.
«Copy» rispondo, con il fiato spezzato dalla fatica e il sudore che mi cola dalla fronte.
La forza della vettura mi spinge con insistenza contro il sedile, rendendomi quasi difficile respirare. Ma non demordo. Anzi, stringo con più determinazione il volante mentre entro nella Rivazza, tra le curve più insidiose del circuito. L'asfalto bagnato riflette la luce della mia monoposto e osservo, con sguardo attento, la pozza d'acqua che mi aspetta. Ma non mi spaventa. Sono abituata a guidare sotto la pioggia.
Eppure qualcosa, a questo giro, non va.

È un tremolio sottile, appena percettibile, ma che avverto con la stessa intensità di una gamba che cede all'improvviso.
«Houston, abbiamo un problema» comunico in radio, nervosa.
Il sudore che scende a bagnarmi gli occhi m'intralcia la vista e batto le palpebre, nel tentativo di scacciarlo.
«Il volante non risponde come dovrebbe, è troppo morbido» aggiungo, cercando di mantenere la calma.

«Ricevuto Monarca. Rallenta nella prossima curva. Noi monitoriamo la situazione» la voce rassicurante del mio ingegnere tradisce una certa urgenza.
Fingo di poter ignorare come il mio respiro fatichi sempre più a uscire, o come il cuore abbia iniziato a pompare più veloce, mentre i ricordi dell'anno prima mi offuscano la mente, avvelenandola.
Il rumore metallico della mia monoposto che si accartoccia, l'impatto che mi ha lasciata, per miracolo, quasi illesa.

Scuoto la testa e i pensieri invasivi si disperdono.
Il grande Seneca si sarebbe fatto dominare dalla paura? No.
Seneca non avrebbe mai rallentato. Dava sempre il tutto per tutto. Era un vincitore e non contemplava la possibilità di perdere.
E se Seneca non lo avrebbe mai fatto, perché dovrei farlo io?
La prossima curva si sta avvicinando, perciò accelero.

Spingo sull'acceleratore come una folle, sfidando la curva da Rocha a pieno gas. Perché il rischio di morire è nulla a confronto all'umiliazione della sconfitta.
Poi, all'ultimo, freno.
Il retrotreno oscilla un'altra volta e un brivido mi attraversa la spina dorsale. La vista mi si appanna. Le orecchie vengono ovattate dal suono del cuore che sembra a un passo dall'esplodermi nel petto.
Lotto tra il desiderio di mantenere il controllo della macchina e il timore crescente di perderlo del tutto.

La sensazione del retrotreno che ondeggia, ribelle sotto di me, acuisce il mio terrore. È quasi come cavalcare un animale impazzito, che non risponde più ai miei comandi. Ed è una sfida che voglio vincere. Devo riprendere il controllo.
Ma il volante mi tradisce.

La pioggia non sussurra più. Ora, sta urlando di fermarmi, di frenare, ma è troppo tardi per darle ascolto.
La vettura slitta fuori controllo sulla pista bagnata. Tento una controsterzata per bilanciare l'improvviso cambio di traiettoria. Ma è un errore. Forse il peggiore della mia carriera.

Tutto accade in una frazione di secondo. La monoposto perde aderenza e l'asfalto sembra dissolversi sotto di me, mentre la macchina ruota su se stessa.
Il muro si avvicina. Il mondo gira.
Il rumore stridente dei pneumatici, l'odore acre di gomma bruciata, il sapore metallico e acido della paura che mi invade la bocca.
Poi lo schianto. La voce dei tecnici che si mischia al rombo dell'auto imbestialita.
Chiudo gli occhi per un unico, brevissimo, istante e il mondo si ferma.
Resta solo il buio. Profondo, proibito, avvolto nel silenzio tombale della morte.

Quando riapro gli occhi, la prima cosa che sento è il freddo. Non il tipo di freddo che viene dall'esterno, ma una sensazione interna.
Un formicolio mi percorre da capo a piedi. Sono tutta intorpidita, quasi come se mi fossi risvegliata da un lungo sonno.
Mi guardo intorno. È buio. Le luci sono spente, l'unica fonte luminosa proviene, flebile, dall'esterno, ma riconosco i contorni di ciò che mi circonda. Sono di nuovo nel mio box, rannicchiata all'interno della mia monoposto. Sono nel mio rifugio, al sicuro.

«Che accidenti...?» cerco di muovermi, ma ogni muscolo del mio corpo protesta, rigido e dolorante.
Devo essermi addormentata mentre simulavo nella mia testa il percorso del giorno dopo.
Non mi capitava da un po' di sognare l'incidente, ma é stato solo un sogno, un brutto sogno.

«Lo psicologo ha detto che è normale. Può succedere, dopo un simile trauma. Anche Zio Frost me l'ha ripetuto più volte» borbotto tra me e me, nel silenzio assoluto. «Non è reale. Non accadrà di nuovo».
Eppure, sembrava così vivido: il rombo del motore, la sensazione di perdere il controllo, lo schianto. Rabbrividisco e scuoto la testa, cercando di scacciare quelle immagini agghiaccianti.

Accarezzo con dolcezza la mia amata monoposto ma, nel farlo, mi rendo conto che qualcosa non quadra.
Il materiale del volante è più ruvido del solito e... Perché è tondo? Anche la seduta è scomoda. Troppo dura, i bordi rigidi della scocca mi comprimono il fianco dolente. Pare un modello più vecchio, più rudimentale rispetto a quello a cui sono abituata.
Un auto d'epoca.
E poi l'odore: quello non mi lascia alcun dubbio. È deciso e inebriante, come una traccia invisibile, dal sentore legnoso e mascolino.
No, questa non è la mia monoposto.

Mi muovo per cercare di uscire, ma una voce nel buio mi fa sussultare: è profonda, graffiante, e la cadenza portoghese non ne attenua l'ostilità.
«E tu chi diavolo sei? E che cazzo ci fai nella mia macchina?»

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