6. Agápi
Avevo sempre avuto paura degli ospedali.
Avevo perso mia sorella lì dentro, avevo perso mia madre, avevo perso un po' di me in ogni fessura di quelle mattonelle chiare. Non era stato semplice per me tornarci. Né da solo, né con Koko Hajime affianco.
Era un po' una specie di maledizione; ogni volta che avevo qualcuno accanto, quello si ritrovava inevitabilmente a finire male. Morto, sepolto, distrutto.
Forse, ero io il problema. Come d'altronde, si divertiva a ripetere Taiju, colui che mi aveva reso l'adolescenza un'altalena di tristezza.
Le pareti verde foglia mi osservavano con i loro occhi nascosti, gli spiragli delle porte parevano parlarmi ogni volta che si aprivano o che le maniglie cigolavano. Le fissavo, irrequieto, sulla sedia monoposto che mi avevano assegnato. Nella stanza d'attesa più fredda e piccola che avessi mai visto.
«Vuoi un po' d'acqua?» mi domandò Hajime. Mi teneva stretta la mano tra le sue, più calde, più tremanti. Un sorriso rassicurante si estendeva sulle sue labbra, come se così facendo avrebbe potuto rasserenarmi davvero.
Scossi la testa.
«No, grazie. Hai sentito il medico, è meglio che non beva né mangi nulla.» asserii. Lo guardai in silenzio, abbozzando una smorfia storta che sarebbe dovuto essere un sorriso, giusto per ricambiare il suo più che perché lo volevo.
«Va bene. Allora prendo una tazzina di caffè. Mi aspetti qui?»
«Si, certo.»
I crampi al ventre non si affievolivano affatto. Andavano e venivano ogni venti secondi e nonostante le fitte acute, non riuscivo a muovere un muscolo per farle smettere. Sarebbe anche parsa comica come situazione se solo non mi fossi spaventato così tanto. Perché, quando eravamo arrivati in ospedale, e mi ero guardato tra le gambe, mi ero reso conto di una cosa, che poi, mi aveva confermato il medico; io non stavo avendo un aborto. Stavo benissimo.
Precisamente, avevo avuto delle piccole perdite, ma il dottore mi aveva rassicurato per bene, dicendo che non era nulla di grave e che anzi, dovevo tranquillizzarmi.
Così avevo fatto.
O almeno ci avevo provato.
Mi ero seduto in sala d'attesa, con lo stomaco sottosopra e un agitato e meditabondo Koko al mio fianco. Aveva guidato spericolatamente per farci arrivare il prima possibile, non si era curato di semafori, né di precedenze o stop - e grazie a qualche santo del cielo - non avevamo fatto incidente. Quando il dottore ci aveva spiegato, - o meglio, mi aveva spiegato - che non stavo avendo un aborto, lui aveva tirato un sospiro di sollievo, ed era quasi scoppiato a piangere.
Era scappato in bagno per qualche minuto, ed io lo avevo lasciato fare. Non potevo impedirgli di sfogarsi, così come non avrei potuto impedirlo a me stesso. Eppure, io non avevo pianto. Troppo dolorante, emozionato, stordito.
Non avevo ancora pienamente realizzato il fatto che avessimo fatto sesso, che Koko era stato con me, che mi aveva baciato sulla bocca e sulle guance, che mi aveva accarezzato la punta del naso e delle ciglia degli occhi. No, avevamo fatto l'amore, anche se Hajime lo negava con tutto sé stesso e non provava neppure a capacitarsi di quello.
Del fatto che potessimo essere di più, di più di quello che eravamo stati.
Non avevo avuto il tempo di parlargliene, non avevo avuto il tempo di elaborare. Le immagini di quello che avevamo fatto mi continuavano a passare davanti come missili. Quando provavo a bloccarne una, il resto scorreva così veloce che mi riusciva impossibile guardare senza restarne accecato. Sbuffai, socchiudendo gli occhi e portando le dita a massaggiarmi il ponte del naso.
Non saremmo potuti tornare a casa finché non mi fosse finita la flebo che mi avevano attaccato al braccio.
Gettai un'occhiata al sacchetto appeso sopra la struttura e notai che i liquidi erano solo a metà. Una smorfia mi storse i tratti del viso e ricaddi a peso morto sulla sedia.
Mi stavo accarezzando il ventre, dove mio figlio scalciava come un ossesso, quando la porta si aprì. Fino ad allora, c'era stato un silenzio tombale dentro quella sala, non si udiva nulla se il russare lieve della mia vicina di posto che doveva essersi addormentata dopo il tranquillante che le avevano somministrato, e il ticchettio del caffè che cadeva nella tazzina vuota. Non appena le porticine di vetro si schiusero, avvenne il finimondo.
Lo vidi entrare come un missile, i ciuffi che sventolavano qua e là, la felpa sporca di sugo e le maniche già tirate su fino ai gomiti. Si precipitò, infuriato come non mai, contro un sorridente Koko che teneva ancora il bicchierino di caffè in mano e stava provando a raggiungermi.
Fu una catastrofe.
Il caffè si rovesciò tutto per terra, sulle sedie, sulle mie Converse. Gli saltò addosso, atterrandolo con il suo peso, i pugni già in movimento. Koko non poté fare poi molto se non schermarsi da quella furia, parando i colpi con i palmi e gli avambracci, per evitare che gli colpisse la faccia.
«Chifuyu! Amore, no...»
Baji entrò dalla porta di corsa, i capelli legati in un piccolo codino sulla testa, alcuni ciuffi dinanzi al viso, con alle calcagna un ancora più sconvolto Haruchiyo, e Takemichi che bianco come un lenzuolo si teneva alla felpa di un accigliato Mikey.
«Oh, Cristo...» mormorai.
Non avevo le forze necessarie ad affrontare tutto quello, perciò ringraziai il buonsenso di Baji di avvicinarsi a suo marito e provare a calmarlo con le parole. Perché quando Chifuyu partiva in quel modo, certamente, non si sarebbe fatto fermare dai modi violenti di qualcun altro. Non si degnò di ascoltare il moro, lo scansò con una gomitata e Baji arretrò, scrollando la testa.
«Schifoso pezzo di... bastardo, stronzo, egoista del cazzo, brutto stronzo bastardo, figlio di una...»
Non riusciva neppure a concludere i suoi creativi insulti tanto era infuriato, e Koko, al contrario delle mie aspettative - e quelle degli altri - si stava lasciando colpire, senza alzare neppure un muscolo per impedirglielo. Non che potesse poi molto contro Chifuyu Matsuno, che nonostante fosse piccolo e tenero d'aspetto, nei combattimenti corpo a corpo era una vera e propria furia. Ma Koko non ci provava neanche, come se infondo, sapesse di meritarlo.
«Bastardo! Brutto bastardo! Che gli hai fatto? Che cazzo... gli... hai... fatto?!» strillò, continuando a tempestare le sue braccia, il torace e lo sterno di pugni duri e rigidi che facevano contorcere il volto di Koko.
«Chifuyu... Chifuyu, amore mio, lascia stare, lo picchio io...» provò a dire Baji, ma il marito lo ignorò bellamente, continuando a colpire Hajime il più forte possibile.
«Chifuyu... Oh Gesù, Mikey fa' qualcosa!» asserì Takemichi, cacciando una voce terribilmente acuta, quella che assumeva quando iniziava ad agitarsi. Il biondo, scrollò le spalle, mormorando qualcosa che non riuscii ad udire.
«Cristo. Cristo Santo!» farfugliai. Mi staccai con impeto l'ago cannula dal braccio, cercando di non fare caso al sangue che si propagava sulla mia pelle come una ragnatela e barcollai in prossimità dei due.
Nessuno fece nulla per fermarmi.
Mikey teneva a sé un pallidissimo Takemichi, Baji fissava allibito il marito, Sanzu... Sanzu mi guardò, non disse nient'altro. Bastò il suo sguardo, nel momento in cui intercettai i suoi occhi, a farmi capire cosa pensava di quello che era successo. Era arrabbiato, ma non con me.
Strattonai il braccio di Chifuyu all'indietro, preso alla sprovvista, lui cercò di dimenarsi, ma glielo premetti prontamente contro la schiena impedendogli di muoversi.
Cacciò qualche insulto, cercò ancora di liberarsi, ma quando infine perse l'equilibrio, finendo all'indietro e scorgendo il mio volto, si arrese. Solo nel guardarlo, mi resi conto che aveva gli occhi lucidi, rossi e gonfi. Nel vederlo in quello stato, il mio cuore sussultò.
«Seishu...» biascicò, lo osservai sbattere le palpebre su e giù, per poi, finire in lacrime contro la mia spalla.
Lo abbracciai forte, affondando il volto nei suoi capelli profumati di vaniglia e cioccolata, quel maledetto shampoo che si ostinava a comprare dicendo che Baji lo adorava. Sorrisi, felice che almeno il mio migliore amico potesse esprimere i suoi sentimenti.
«M-mi dispiace, pensavo... ti avesse fatto... del m-male...» singhiozzò, stretto a me, il cottone della mia maglietta accartocciato nei suoi pugni. Aveva le nocche spaccate e quando mi chiesi in che condizioni potesse essere Hajime, il mio stomaco fece una giravolta. Sentii il bisogno di rimettere la colazione che avevo fatto ore prima, ma chiusi la bocca e tirai Chifuyu più forte contro di me.
«Sto bene.» sussurrai. Lui annuì, prendendo a redarguire piccole carezze sul mio ventre.
Quando sollevò il viso, intravidi comunque i suoi occhi rossi come due papaveri e le sue labbra gonfie per i singhiozzi.
«'Fuyu... mi dispiace, avrei dovuto chiamarti io...» biascicai, pentendomi di aver lasciato a Koko il compito di farlo. Chifuyu però, tirò su col naso e si pulì il volto dalle lacrime col dorso della mano, poi, mi sorrise. Un sorrisetto gentile di quelli che rivolgeva solo a quelli a cui teneva.
«È tutto ok... se lo meritava qualche pugno quello stronzo.»
Non potei fare a meno di scoppiare a ridere anch'io. Una risata rapida e genuina, che si concluse non appena sollevai lo sguardo in alto e incontrai quello della security dell'ospedale, con le braccia incrociate e le divise perfettamente stirate addosso. Guardavano con un leggero cipiglio in prossimità di Chifuyu. E di Koko.
🥀
«Seishu, aspetta un secondo, per favore.»
Mi raggiunse a lunghe falciate. Non mi ero mai reso conto di quanto fosse alto, ma ora, mentre lo guardavo avvicinarsi a me, con la sigaretta tra le labbra e il completo sgualcito dalle ore di stress, le occhiaie sotto gli occhi chiari, i capelli tirati biondo neve, tirati indietro in una coda alta. A sfidare la lieve brezza notturna.
«Si?»
Mi fermai, il cappotto sulle spalle mi stava troppo grande, considerate le spalle di Koko, sulle mie calzava come un mantello medievale.
Hajime aveva insistito affinché mi mettessi il suo soprabito, visto che, eravamo usciti senza che io portassi il mio. Ero arrossito un po', mentre mi aggiustava i capelli sulle guance e mi sollevava per bene il colletto.
Il suo profumo era dappertutto su di me, un po' come un marchio non richiesto ma voluto. Sapevo di cannella, di fiori, di pregiato. Di Koko.
E anche Sanzu dovette rendersene conto, perché quando mi raggiunse e annusò istintivamente l'aria, il suo naso si storse.
«Haru, io-»
«No, aspetta per favore. Fammi parlare, Seishu.»
Annuii, guardandolo con le labbra cucite. Mi sentivo uno schifo nei suoi confronti. Non solo avevo i sensi di colpa per il modo in cui avevo scartato la sua presenza, ma anche perché non volevo perdere la sua amicizia, e ne avevo paura. Non ero scemo, avevo capito che Haru cercava di più da me, così come avevo capito che il suo cercare la mia mano quando eravamo in giro per strada, il suo accarezzarmi mentre fingevo di dormire sul divano, il suo guardarmi per ore finché non lo beccavo e doveva forzatamente distogliere lo sguardo, era sintomo di qualcosa che non potevo controllare. Ma non potevo. Anzi, non volevo. Non volevo perderlo, non volevo che la sua amicizia svanisse dalla mia vita.
Haru mi aveva aiutato in un periodo dove perfino continuare a vivere sembrava impossibile. Non avevo superato del tutto quelle brutte cose, ma lui c'era. Continuava a correre da me ogni volta che ne avevo bisogno e lo avrei scelto. Lo avrei scelto così tanto, perché sapevo che era la cosa giusta, non solo per me, ma anche per la bambina, perché avrebbe avuto un padre responsabile e amorevole, e dolce. Perché, sapevo bene che Koko non avrebbe potuto darle tutto questo. Lui amava, certo, ma non era un uomo con la testa sulle spalle in un modo tale che quando sua figlia avrebbe pianto la notte, si sarebbe alzato a prenderla. Quello, quello che avrebbe alzato il culo dal letto, nonostante le ore passate a sgobbare dietro i miei capricci e dietro al lavoro, era Haruchiyo. Koko era troppo viziato, troppo ben cresciuto, per portarci tutto quello di cui avevamo bisogno.
Ed io, per mia figlia, volevo solo il meglio.
Volevo vederla sorridere mentre suo padre tornava da lavoro e corrergli incontro, impaziente di essere presa tra le sue braccia sicure. Volevo che potesse essere così tranquilla, da rivelare a suo padre chi era il ragazzo o la ragazza per cui avrebbe avuto una cotta. Volevo che mia figlia guardasse suo padre e dicesse: "mio marito deve essere così. Come papà."
Non era egoistico da parte mia rinunciare ad Hajime, all'amore della mia vita, per dare un futuro degno alla mia piccola bambina.
Per questo sorrisi. Interruppi Haruchiyo, ignorai il richiamo di Koko mentre apriva la portiera dell'auto e mi sporsi in punta di piedi.
Gli deposi un dolce bacio sulle labbra. Un contatto così breve da sembrare un battito d'ali di una farfalla.
Lo vidi sbarrare gli occhi, le sue lunghe ciglia bianche che si spalancavano osservandomi compiere quel gesto. Percepii appena il tocco delle sue mani contro la vita, la sua presa leggera che mi aiutava a stare su, sulle punte per arrivare meglio alla sua bocca.
Non prestai attenzione alla lacrima che mi inzuppò la guancia. La cosa giusta spesso, non era amare, ma essere amati.
Quando tornai sulle mie gambe, schiudendo gli occhi, mi resi conto del male che dovevo aver procurato a Koko con quel gesto. Non solo mi guardava da lontano, ma teneva lo sguardo basso, come chi è sul punto di piangere. Mi morsi il labbro inferiore, scaricando sulla mia pelle il dolore che il mio cuore stava provando. Ero diviso in mille pezzi dentro e ognuno aveva il nome di Hajime sopra, come unica cura.
Poi Haru mi sorrise. Tornai ad osservarlo, con gli occhi lucidi e le labbra stirate su per evitare di scoppiare in singhiozzi davanti a lui.
«Andiamo a casa.»
Mi porse la mano e accettai. Strinsi le dita alle sue, notando la differenza di grandezza e impendendo al mio cuore di fare i capricci. Stavamo raggiungendo la sua auto, quando percepii la sua voce.
«Seishu.»
Mi arrestai. Pietrificato dall'udire ancora il suo tono. Mi tremarono le gambe e dovetti rafforzare la presa sulle dita intrecciate a quelle di Haru, mentre mi voltavo. Hajime era lì, con gli occhi rossi, le labbra sussultanti.
«Seishu, che cazzo stai facendo?» mi chiese. Non c'era rabbia nell'inclinazione del suo tono, solo dolore. Così tanto che avrei voluto strapparmi il cuore e correre via, lontano da quello spettacolo osceno.
«Lascialo stare. È stanco, vuole solo tornare a casa. Vattene via e lasciaci in pace, Koko.»
Fu Haruchiyo ad intervenire, con un timbro così severo che poche volte gli avevo sentito sfoderare. Era serio, con un cipiglio imperscrutabile in volto, qualcosa che non sapevo riconoscere. Si sovrappose tra me e Hajime, facendomi da scudo con il suo corpo.
«Vattene.» ripeté. Ma Hajime non mosse un passo.
Sgranai gli occhi, capendo ciò che stava per fare Koko, ma non riuscii a sollevare un solo muscolo per impedirglielo.
Il pugno di Hajime spezzò l'aria, il muscolo del suo braccio si mosse velocemente, le nocche ben serrate si scontrarono contro lo zigomo di Haruchiyo, che arretrò. Incassò il colpo, forse sorpreso da quella forza e sputò a terra un po' di sangue mischiato alla saliva. Fermo a pochi centimetri da loro, non riuscii a fare nulla se non pregarli di non continuare.
Di non picchiarsi e spargere ancora sangue, per me. Per sua figlia.
«Che cazzo vuoi, Koko? Seishu ha fatto la sua scelta.» ribadì Sanzu, le nocche sbiancate dalla forza con la quale stava stringendo i pugni.
«Che tu vada a fanculo, ecco cosa voglio. Che tu sparisca e lo lasci stare. Inupi sa cosa vuole e non sei certamente tu!»
Lo squadrò con una smorfia di disgustoso stampata in volto. I suoi bei ciuffi scuri si era appiccicati alle sue guance, la sua pelle era pallida, come se il freddo lo stesse consumando. Come se lo stesse rendendo di porcellana.
«Oh, ma guarda! Proprio tu, brutto stronzo, vieni a farmi la morale? Non sei tu che tratti Seishu come un maledetto rimpiazzo del cazzo? Come se fosse sua sor-»
L'altro pugno arrivò contro il suo naso. Koko e la sua maledetta effimera precisione. Lo avevo visto stendere avversari e nemici con i suoi pugni, ma il fatto che ora fosse Sanzu a doverli incassare mi causò una strana reazione. Mi accovvacciai contro l'asfalto. Eravamo ancora al parcheggio dell'ospedale, con le macchine in moto e loro due stavano facendo a pugni.
Per me. Per i sentimenti che provavo per ognuno di loro.
Mi sali la nausea. La testa prese a girarmi. Mi sorressi all'asfalto con le mani schiuse posti sul terreno. Un paio di sassolini scavò i miei palmi fini. Li sentii graffiare, mentre incapace di parlare o muovermi, sentivo la nausea trasformarsi in conati.
Chiusi gli occhi e rimisi liquidi e bile contro l'asfalto. A pochi centimetri dalle mie mani, le stesse che non riuscivo a muovere. I capelli mi finirono sul viso, alcuni si sporcarono di quei liquami. Il cappotto di Koko mi scivolò dalle spalle e il freddo mi ammorbidì le ossa come un biscotto nel latte caldo.
Singhiozzai.
Koko era sopra di Sanzu che lo tempestava con i suoi pugni rapidi, l'altro, sotto di lui, con la sua cascata di capelli biondi cercava di strappargli il viso con le unghie piantate nella sua carne. Mi sembrava una sit-com di cattivo gusto. Deglutii, il sapore amaragnolo dei miei succhi gastrici mi fece girare più forte la testa. Mi portai istintivamente una mano sul ventre.
«Koko...» mormorai nel disperato tentativo di farlo voltare verso di me. Non funzionò.
«Haru...» soffiai allora, ma ancora nulla.
Si tenevano per i capelli ora, uno che cercava di soffocare l'altro e i loro pugni, contro qualunque parte del corpo che avrebbe potuto essere ferita. I loro volti erano una maschera di dolore, ognuno di loro due, lottava per un motivo diverso e al contempo uguale. Due scemi, due maledetti idioti che io avevo reso violenti.
Con le mie menzogne, con le mie scuse, con la mia debolezza.
Mi sollevai a carponi, aiutandomi con le mani. I calcetti di mia figlia nella pancia, mi diedero la forza necessaria a parlare.
«Hajime!» strillai.
Stavolta, con mia grande sorpresa, Koko voltò lo sguardo. I suoi occhi si fecero grandi come due lune piene nel vedermi accasciato contro la strada, anche Haruchiyo aveva smesso di picchiarlo. I loro pugni erano ancora addosso all'altro, ma erano in attesa. Scattarono in avanti, districandosi dal groviglio di braccia e gambe che avevano combinato. Li vidi accorrere da me, una silenziosa gara a chi mi raggiungeva prima, per guadagnarsi ancora una volta, la mia approvazione.
«Fermi lì! Non un passo in più.» strillai ancora, lo sguardo duro. Mi rimisi in piedi sotto i loro sguardi preoccupati.
Avevano entrambi la faccia livida, uno con l'occhio blu socchiuso per quanto era gonfio, l'altro con lo zigomo diviso in due. Sbuffai, scuotendo la testa in segno di dissenso. Mi portai la mano libera sul grembo, sperando di raccimolare ancora più coraggio.
«Adesso basta. È ora di finirla con questa falsa.» asserii, li guardai entrambi, immobili davanti a me. «Haru, io ti voglio bene e stavo per sceglierti. Stavo per scegliere te fino a cinque minuti fa, poi... poi ho guardato Koko. Credimi quando ti dico che sei la persona più importante della mia vita dopo la mia bambina. Ti prego di non dubitare. Io ti amo in un modo maledettamente filosofico, Haru. Tutto quello che hai fatto per me, è così... così speciale! Te ne sono grato, con tutto il cuore, con tutta l'anima anzi, ma devo parlare. Devo levarmi questo peso dallo stomaco ed essere onesto per una volta nella mia vita.»
«Non capisco...» mormorò Hajime, ma nessuno di noi due gli diede ascolto.
«Hajime. Per favore, io capisco che tu non sia mai stato un prodigio a scuola, ma alcune mie frasi sono così... cazzo! Sono così esplicite, non puoi fraintendere! Eppure, tu ci sei riuscito. Continui a sbagliare nome, poi mi cerchi, poi scappi, non rispondi, torni. Credevo che fosse sbagliato affidarmi a te, darti addirittura un'altra vita, ma... come posso non amarti? L'amore non scompare se uno schiocca le dita e lo desidera ardentemente. L'amore resta, fa male, distrugge, ma resta. Ed io... io ti amo.» Mi avvicinai a lui, lentamente, con gli occhi lucidi. Percepivo entrambi i loro sguardi addosso. Quello di Haruchiyo come fuoco su di me, quello di Koko come ghiaccio che mi proteggeva. Gli presi il volto tra le mani, accarezzandolo. «Ti amo, Hajime. Capito?»
Lui annuii, preso in contropiede. Mi guardò ancora, le labbra spalancate e fece per dire qualcosa ma non glielo permisi. Gli posi l'indice sulle labbra e sorrisi. Con le lacrime che scendevano sulle mie guance ruvide, senza freni.
«Questa bambina, è tua figlia, Hajime.»
Lo vidi sbarrare gli occhi, le sue palpebre fecero su e giù, poi scoppiò a piangere. Singhiozzò sulla mia spalla, senza freni. Si aggrappò a me e mi strinse così forte che mi mancò il respiro. Sorrisi, contro il suo collo, perso nel suo profumo.
«Ti amo, anch'io. T-ti amo, Seishu. Scusami, scusami... non sbaglierò più, io amo te, te lo giuro.» mi soffiò contro l'orecchio.
Annuii. Avevo gli occhi chiusi, ma percepii lo stesso i passi distanti di Haru. Non avrei voluto farlo, non avrei affatto dovuto mandarlo via, ma amavo Hajime. E prima di tutto, volevo insegnare alla mia bambina che l'amore vero a volte, fa male.
🥀
Spazio autrice:
Dai che finalmente Koko non può più fraintendere! Che ne dite di questa giostra di sentimenti? Che avreste fatto al posto di Inui? Sono molto curiosa, di saperlo ;)
Prima di salutarvi, voglio ringraziare due delle mie amiche mi hanno aiutato tanto per questo capitolo, con le loro idee e opinioni. Una è Kyulia03 che mi ascolta sempre pazientemente e mi supporta ogni volta che non ho idee o ne ho troppe. Spero di averti fatta felice con questa "rissa mini mini" finale, come la volevi tu🧡
L'altra è IosonoChicca che seppur non conoscendo la ship e il fandom, mi ha aiutata tanto e mi ha ascoltata parlare per minuti interi. Grazie amiche mie🧡
Alla prossima,
-Lilla
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