Capitolo 4 - Hanna

Il concerto è stato un trionfo. Mi ha consacrato ancora una volta sull'altare dell'eternità.
Quando è finito ho raggiunto l'aeroporto quasi correndo, nascondendomi in una berlina nera non appena anche l'ultimo applauso ha smesso di far vibrare la platea.
Sono salito sul mio aereo privato, decollando per Londra poco dopo.
Nel momento in cui le ruote si sono staccate da terra ho ricominciato a respirare.

Non sono bravo nel contatto con la gente, tanto quanto lo sono invece con le note.
I musicisti mi temono, la mia presenza è perennemente avvolta da un'aura di terrore misto a rispetto che non fa che allontanare il mondo, ad ogni prova un po' di più.
Sono incastrato in una relazione sbagliata con una modella di quasi trent'anni meno di me, con due gambe chilometriche, una chioma bionda che fa impallidire le giornate d'estate, un seno prorompente e l'intelligenza di un topo.
Continuo a vederla solo per incasellare il tempo in qualcosa che possa assomigliare ad una vita.
Divido con lei spazi e sudore.
Nulla di più.
Non parlo. Con lei, come d'altronde non faccio con gli altri.
Mi sono isolato dal mondo lentamente.
E adesso mi ritrovo a difendermi da un successo che mi ammicca come una puttana troppo cara per poter essere scopata.
Mi strizza l'occhio facendomi sentire unico, per poi ricacciarmi nel baratro non appena lo riconosco per ciò che è. Pura e semplice finzione.

Raggiungo una Londra inondata di pioggia nel cuore della notte.
Scendo dal piccolo aereo in un hangar ai confini di Heathrow, raggiungo la mia Jaguar fiammante, parcheggiata a poca distanza.
Chiudo la portiera, respirando finalmente un'agognata solitudine.
Accendo la radio.
Le note di Puccini conquistano l'abitacolo foderato di pelle e radica, distraendomi per qualche istante dalla follia della mia esistenza.
Il rombo del motore si moltiplica sulle pareti di latta.
Sfreccio al ritmo sonnolento di una magistrale aria del Gianni Schicchi, interpretata da una giovanissima soprano giapponese con cui presto dovrò avere a che fare.
Mi abbandono tra le sue note, mentre le luci tremolanti di una città che fa capolino dall'orizzonte mi importunano le pupille da lontano.

In pochi minuti raggiungo il centro, a quest'ora libero dal traffico che soffoca una capitale sovraccarica di eccessi.
Arrivo in Grosvenor Square. Il vento si insinua tra gli alberi del parco, facendo ondeggiare stancamente le fronde quasi spoglie.
Pigio con poca grazia sul telecomando del mio garage, ben nascosto tra le facciate vittoriane.
La porta si apre, ed io sparisco dal mondo.

Pochi minuti dopo mi ritrovo sulla mia poltrona di pelle, abbandonata nell'angolo di uno studio stracolmo di vinili.
Mi procuro una tazza di tè fumante, con tutta la grazia che dopo questa giornata massacrante ancora riesco a trovare.
La traballante figura di Hanna fa capolino dal corridoio con la mia ultima richiesta.
È sempre pronta a servirmi.
Mi aspetta sveglia, alle ore più improbabili della notte.
Mi accudisce come un bambino.
Effettivamente, è quanto di più simile ad una madre io abbia mai avuto.

-    «Lo lascio sul tavolino come al solito, Maestro?»

Un segno del capo svogliato sembra bastarle per appoggiare il vassoio a poca distanza dal mio anfratto seminascosto.
Le rivolgo un sorriso tirato.
E a lei non serve altro.
Infondo mi conosce.
È alle mie dipendenze da più di venti anni.
Sa che sono uno di poche parole. Più incline ad ascoltare che a parlare. Soprattutto musica. Perché con le chiacchiere, quelle no, le trovo comunque detestabili.
Sa che amo rinchiudermi per giornate intere nei miei silenzi assorti.
E sembra non dispiacerle.
O forse è l'assegno da capogiro che le firmo ad ogni fine del mese a renderle tutto più sopportabile. Non lo so.
Resta il fatto che, assurdamente, potrei considerarla la mia unica amica. Lei, e un vecchio poliziotto in pensione, con i baffi degni di una fotografia ottocentesca, che negli ultimi dieci anni avrò visto cinque volte malcontente. Tutto ciò che resta della mia giovinezza.
Ma Hanna è diversa. È l'unica capace di non vedere in me solo il grande maestro con la bacchetta in mano.
L'unica a cui permetto di scorgere l'uomo in pantofole, che si aggira per casa in preda a tutte le sue incertezze.

Allungo una mano, cercando di afferrare una teiera rovente, adornata di fiori e di oro zecchino.
Un'altra delle follie che deve essermi costata una fortuna, nel vano tentativo di colmare la mia vita solitaria con futilità materiali di ogni genere.
Verso il tè nella tazza del medesimo servizio. Una nuvola di vapore si sprigiona nella stanza, disegnando per un istante l'aria immobile della notte.
Avvicino le labbra alla porcellana finissima, lascio che la temperatura quasi dolorosa del liquido ambrato mi invada la bocca e i pensieri.

È strana la sensazione che si prova ad essere chi sono.
Mi ritrovo ad aver ormai vissuto la parte maggiore della mia vita, raggomitolato in una casa da tre milioni di sterline, con i capelli grigi e una stanchezza da cui, a questo punto, potrei lasciarmi possedere.
Non ho più bisogno di dimostrare nulla.
Ma ho bisogno della musica.
Del suo potere perverso di possedermi l'anima.
E l'idea di essere io a plasmarla, a renderla possibile, mi riempie di un'adrenalina imprescindibile ogni anfratto del respiro.

Finisco il tè di fretta. Probabilmente non avrò la facoltà di avvertire i sapori per qualche giorno, il calore deve avermi intorpidito anche lo stomaco.
Allungo la mano verso il portatile che riposa stancamente sulla piccola scrivania di mogano, proprio sotto alla finestra. Lo apro svogliatamente, mentre la luce fredda dello schermo fa a pugni con l'arredamento ricercato del mio studio.
La casella delle mail saltella strafottente dalla barra degli strumenti appoggiata sul fondo del deckstop.
Per un attimo penso di mandare tutto a farsi fottere e di abbandonarmi al sonno, come farebbe una qualsiasi persona normale dopo una giornata devastante.
Ma sono sempre stato un uomo curioso. Anche nelle piccole cose e non posso permettere a quell'icona irriverente di importunarmi il poco sonno a cui riesco ad abbandonarmi ogni notte.
Clicco sul piccolo disegno della busta.
La finestra delle e-mail si apre con una rapidità che non ha mai smesso di stupirmi.
La tecnologia è qualcosa che fatico a comprendere.
Frugo velocemente tra i curricula dei musicisti, tra le proposte di incisione delle case discografiche.
Scorro distrattamente sul cursore, cercando qualcosa di interessante che possa fornirmi una scusa per rinunciare al sonno, anche questa notte.
Di colpo il mio cuore si ferma.
Nascosta tra le pubblicità e la burocrazia, fa capolino in un modo apparentemente innocuo, quello che forse, inconsciamente, sogno di leggere da tutta la vita.
Clicco velocemente sulla barra dell'oggetto.

Proposta di collaborazione

Che non sarebbe nulla di diverso dalle migliaia di mail che cestino ogni giorno, se non fosse per il mittente.

Gentile Maestro,
È con orgoglio che le chiediamo di voler considerare la nostra proposta.
Se vorrà farci l'onore della Sua presenza, la aspettiamo a Berlino, il 20 novembre p.v. per l'annuale riunione del consiglio di amministrazione che ha già votato all'unanimità la decisione di averLa come nuovo direttore.
La Sua presenza confermerebbe il lustro di un'istituzione che si è sempre distinta per la sua eccellenza.
Confidando sinceramente in una Sua risposta, le porgo i miei più distinti saluti.
Andreas Weber
-Berliner Philharmoniker-

Per un attimo smetto di respirare.
La più grande e prestigiosa orchestra sinfonica del mondo mi chiede di essere diretta. Mi chiede di sottomettersi al potere della mia bacchetta. Del mio modo di sentire la musica.
Solo i grandi hanno solcato quello scranno.
Rattle, per ultimo. Abbado, subito prima.
E anche lui, il santino a cui affido i miei sogni da tutta la vita.
Istintivamente prendo il portafoglio dalla tasca dei pantaloni. Sfilo la vecchia foto di Karajan che mi porto dietro da quando ero solo un ragazzo.
Le sorrido beffardo per un istante.

-    «Alla fine ci sono arrivato, vecchio amico mio!»

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