Capitolo 37 - pasta e patate

Ci sono storie difficili da raccontare.
Ci sono vite affascinanti di cui scrivere.
Ci sono storie semplici.
Ci sono vite al limite.
E poi ci sono le cronache di un'esistenza.
Nel mio caso, le cronache di un sogno dalle ali piccole.
Perché è un sogno cominciato per caso, per sfuggire a qualcosa che credevo di conoscere e che invece non conoscevo per niente.
Un sogno che mi ha portato ad inseguirne un altro, tanto assurdo quanto reale.
Che mi ha portata nel paradosso di una menzogna immensa, durata per anni.
E tra le spire di un amore che non credevo potesse esistere.
Che mi ha portata a non fidarmi più di nessuno e, contemporaneamente, a fidarmi ciecamente di una sola persona al mondo.
E che infine mi ha rilanciata sulla vetta, svicolando tra i titoli dei giornali e le guide patinate della gastronomia mondiale.
Sono passati cinque anni da quel mattino di novembre. Quando la mia esistenza, e con lei tutte le mie certezze, sono state messe in discussione dalla confessione di un uomo che avevo sempre chiamato papà.
La polizia è arrivata con le sirene spiegate, quella notte.
Il colpo di pistola aveva rimbombato sulle scale di marmo di un palazzo sempre tremendamente impegnato a farsi gli affari propri, e aveva acceso una curiosità quasi maniacale per quell'appartamento invidiato da tutti, solo immaginato da molti, dentro cui viveva il grande avvocato leggendario.
Avevano chiamato aiuto. Un aiuto che era arrivato poco dopo, rivelandomi i volti di cinque poliziotti increduli davanti alla scena che finiva di consumarsi loro davanti.
Il più grande direttore d'orchestra del mondo, a terra in una pozza di sangue. Il più grande avvocato penalista di Roma, con una pistola ancora fumante tra le mani.
Morelli aveva fatto il suo ingresso sulla scena meno di mezz'ora più tardi. Un lampo di vittoria a nasconderglisi nelle lacrime.
Tutte le prove che stava cercando erano lì, sulla scrivania di ciliegio imponente che gli sonnecchiava davanti.
E il famigerato capo dei Nuovi Santi aveva ancora la polvere da sparo incastrata tra le dita.
Un semplice guanto di paraffina e una pila di fogli avrebbe posto fine all'inseguimento infruttuoso di una vita.
Mio padre, per la prima volta nella sua lunga carriera, aveva fatto male i conti.  Era stato preso alla sprovvista. E aveva perso.
Mi ricordo ancora il lampo di odio nei suoi occhi, mentre veniva portato via in manette e consegnato ad una giustizia nella quale non aveva mai creduto, ma con cui aveva costruito il suo travestimento perfetto.
Sono passati cinque anni da quella mattina, e adesso sono qui, con Cecilia che mi corre intorno in preda ad un'agitazione quasi ingestibile, desiderosa di dimostrare il nostro valore, sul palco più grande che potessimo sperare di trovare.
In mezzo alla paura mi ero trovata a dubitare persino di lei, la mia migliore amica, la mia compagna di avventure, quella che con la sua sola presenza era riuscita a darmi la forza di inseguire il mio sogno.
Uno dei camerieri in livrea che ho assunto per l'occasione ci sfreccia accanto facendo tintinnare sonoramente il vassoio di bicchieri che tiene su una sola mano, con i modi e le movenze di un grande prestigiatore intento ad incantare il suo pubblico.
I tavoli, imbanditi con tovaglie bianche di puro lino che mi sono costate una fortuna, attendono pazientemente in bella mostra nel grande salone addobbato a festa.
Il vischio penzola dalle porte, interrompendo con la sua natura morta immobile i festoni traboccanti di lustrini.
È il catering più importante a cui un cuoco possa ambire. Il più blasonato. Il più analizzato.
E io ho il cuore in gola.
Tra qualche minuto le porte si apriranno e un fiume di persone si riverserà sulle mie tartine di baccalà in oliocottura e sui miei canapè di tartare di fassone, colatura di nocciola e alici tostate.
Il silenzio si fa di colpo assordante. Un concetto che un uomo meraviglioso mi ha insegnato a riconoscere anni fa.
Cecilia mia stringe la mano.

-    «Ci siamo! Stanno per uscire...»

Le sorrido, aggiustandomi i capelli nell'elastico impietoso che li tiene intrappolati, impedendomi quasi di respirare.

-    «Stordiscili con il tuo sovoir faire, nessuno può restare indenne davanti al tuo sorriso, Cecilia!»

Il portone che da sulla sala si apre lentamente.
I primi abiti da sera accarezzano il marmo bianco del pavimento, mentre un parlottare concitato aggredisce il cristallo dei bicchieri.
Qualche espressione soddisfatta, qualche tartina in meno sui vassoi, qualche complimento lasciato uscire con noncuranza, e di colpo uno scrosciare di applausi.
Sento il cuore salirmi nella gola. So cosa significa. Mi volto e vengo inghiottita nelle pieghe del tempo.
Lo osservo lì, appoggiato alla porta.
Il suo dolcevita nero a cingergli il collo nel suo abbraccio delicato, le braccia incrociate, proprio come in quel giorno lontano, nascosti in una camera di un albergo immenso.
Lo vedo passare una mano tra i capelli, in quel gesto che ho imparato a riconoscere.

-    «Splendida esecuzione, Maestro! Un concerto di capodanno come non se ne vedevano da anni alla Philarmonia!»

Un uomo accanto a me lo raggiunge, si muove a stento nel suo smoking nero tutto luccicante, gli stringe la mano con un calore quasi aggressivo.
Vedo i suoi occhi indugiare il quelli dello sconosciuto per un istante, poi li sposta nei miei. Mi sorride.
Una marea di lustrini e di acconciature complesse ci sfila davanti in un vociare che non riesco più nemmeno a sentire.
Lo vedo fare un passo nella mia direzione, poi un altro. Prova a raggiungermi facendosi largo in mezzo alla folla.
E io mi ritrovo senza più nemmeno la forza di respirare.
Perché lui è così, è sempre stato così, dalla prima volta che l'ho visto. Riesce ad annientare tutto il resto intorno.
E in quella notte, in cui si è lasciato colpire da una pallottola in pieno petto, nel tentativo di salvarmi da chi avrebbe dovuto amarmi, ho capito che non avrei più potuto vivere senza di lui.
Una rabbia cieca mi aveva portato ad afferrare il grande vaso di ceramica, mi aveva portato a fracassarlo sulla testa del mio stesso padre, che in quel momento si era tolto la maschera e aveva rivelato il mostro che teneva celato sotto.
Quando è caduto a terra, tramortito da una violenza che non poteva aspettarsi, ho visto Robert in una pozza di sangue.
Mi sembra ancora di sentire il suono della mia stessa voce che violentava l'alba timida di Roma, che disintegrava il silenzio, rivelando la mia angoscia.
Quando ha aperto gli occhi, dopo giorni, e mi ha guardata, mi è sembrato che l'aria entrasse per la prima volta nei miei polmoni.
Ho rintronato di domande chiunque volesse ascoltarmi, ho esasperato qualsiasi medico, infermiere o volontario che lo avesse in cura, fino al giorno in cui mi hanno detto che era fuori pericolo e che avrebbe potuto tornare a dirigere la sua orchestra che attendeva pazientemente al di là delle Alpi, in tutto il suo splendore sancito dagli anni.
I giornali hanno visto i nostri volti sulle loro copertine per quasi sei mesi. Io, la cuoca rivelazione dell'anno, figlia del più grande avvocato di Roma e di uno dei più grandi criminali del mondo, accanto a lui, il direttore d'orchestra immenso, eroe di questa nostra strana storia.
I Nuovi Santi sono stati smantellati pezzo a pezzo, le carte nello studio di mio padre e nelle sue infinite cassette di sicurezza hanno permesso a Morelli e alla sua squadra di stanare fino all'ultimo uomo coinvolto. O per lo meno così ci hanno detto.
E noi, beh, noi abbiamo cominciato a vivere la nostra storia assurda, divisa dai chilometri e dagli anni. La nostra storia perfetta. Senza più il peso di assassini pronti ad ucciderci e di amici pronti a spiarci.
Fa ancora un passo.
Lo osservo stringere con noncuranza la mano di una donna strizzata in un tubino nero dallo strascico assurdo. Si libera con quella capacità di fuga acquisita nei suoi lunghi tentativi di evasione dal successo.
Mi raggiunge. Mi sfiora la bocca con un bacio.

-    «Appena finiscono di mangiare questo sontuoso catering della nuova tre stelle Michelin, ce la filiamo via da qui...»

Gli sorrido sulle labbra.

-    «Ho già prenotato la stanza 216 dell'Adlon Kempinski, Maestro Wright, come da sua richiesta...»

Mi bacia ancora.

-    «Allora cerco di non farmi tentare da tutte queste prelibatezze e di tenermi lo stomaco libero... ho una voglia terribile di pasta e patate!»

F I N E

Nota dell'autrice: eh si, siamo giunti alla fine.
E provo una sensazione stranissima. Un po' sono sollevata, perché questa mia piccola sfida mi vede uscire in qualche modo vincitrice (quando ho scritto le prime parole del primo capitolo ho pensato di non potercela fare, di non riuscire ad inventare un mondo e dei personaggi per intero, rendendoli reali), un po' mi viene da piangere, perché io a Robert e ad Emma mi ci sono affezionata, e salutarli mi riesce molto difficile.
Ma la cosa più importante, quella che tengo a fare in particolar modo, è ringraziare tutti voi.
Sì, perché scrivere una storia può anche essere una cosa semplice, ma farla leggere a qualcuno non lo è affatto, sopratutto quando si parla di una storia originale.
Il calore che ho ricevuto da ognuno di voi è qualcosa di indescrivibile.
Vedere il numerino rosso sulla Campanella e sapere che qualcuno, chissà dove, aveva letto le mie parole e aveva accompagnato per mano i miei personaggi per il tempo di un capitolo, mi ha sempre riempito di gioia.
Quindi questa storia è dedicata a tutti gli scrittori che buttano giù la paura insieme alla saliva, che fanno un respiro profondo, e che decidono di regalare la loro immaginazione al mondo.
Alcuni sono bravi, altri bravissimi, altri non lo so sono affatto. Ma questo non è importante.
Quando ci si trova a leggere una storia, a mio parere, bisogna fermarsi per un attimo a pensare che quelle parole, messe una dietro l'altra, sono il riflesso dell'anima di qualcuno che ha trovato la forza di mettersi in gioco, e di lasciar vedere un pezzo del suo mondo.
E con questo vi saluto, vi ringrazio, e spero di rincontrarvi nella prossima favola.
Un abbraccio.
Damarwen

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top