Capitolo 35 - l'avvocato Nervi

Ho passato una notte tormentata, affondata fino al collo sotto le lenzuola del mio vecchio letto, circondata da una vita che ho sempre sfuggito e che adesso sembra essere l'unico nascondiglio da un passato che si è messo a darmi la caccia.
Robert dorme con la testa appoggiata sul cuscino, curiosamente circondato da due peluche rosa a forma di unicorno luccicante e dalle mie fotografie che, su una parete azzurro carta da zucchero, da bambina mi vedono trasformata in donna.
Sono le cinque del mattino, e i rumori di una Roma ancora assonnata mi raggiungono da dietro agli scuri delle finestre.
Sono ore che mi rigiro tra le coperte, trasformando un letto perfettamente rifatto ormai da anni in un cumulo di macerie intrise delle mie paure.
Mi alzo, abbandonando definitivamente l'idea di riuscire a prendere sonno. Il pavimento di legno flottante scricchiola sotto i miei piedi nudi, subito invasi da un brivido di freddo, a contatto con un novembre romano che sembra più impietoso del solito.
Il corridoio deserto mi avvolge stancamente, accentuando la prospettiva verso la tenue luce dei lampioni che filtra dalla finestra della cucina.
Mi avvicino alla macchina del caffè che mi strizza l'occhio benevola dal ripiano del grande mobile accanto ai fornelli. Cerco frettolosamente una capsula nel cesto di rattan.
Il rumore del liquido denso che fuoriesce dal beccuccio sembra squarciare il silenzio dell'alba.
Prendo la tazza tra le mani, il calore mi fa dimenticare per un momento il freddo sotto alle piante dei piedi, ormai poggiate su un marmo gelato. Mi siedo al tavolo, poi mi rialzo.
L'idea di incontrare mio padre di qui a qualche ora sa spaventarmi più di un assassino pronto ad uccidermi.
Perché è passato troppo tempo, ci sono state troppe incomprensioni.
Persino quando è morta mia nonna, quando il dolore mi aveva devastata per la seconda volta nella mia giovane vita, non ero riuscita ad avere una normale conversazione con lui.
Come, infondo, penso lui non l'abbia mai avuta con nessuno.
È sempre stato un uomo difficile, mio padre.
Persino con la sua stessa madre che, sul finire della sua vita e obnubilata dalla devastazione del alzheimer, lo definiva un uomo cattivo.
Lui non è mai stato un uomo cattivo.
È stato un uomo solo.
Abituato a lottare in prima linea per ottenere il successo che tanto bramava. E quando lo ha ottenuto, quel successo, era così abituato a non avere nessuno intorno da essere diventato incapace di relazionarsi con il mondo.
E adesso sono qui, sepolta dalla sua ricchezza conquistata a spallate e, ancora una volta, non so come parlargli. Come dirgli che l'unica persona che abbia mai amato davvero, gli è stata portata via da un complotto più grande di lui e del suo potere ostentato a forza davanti al banco dei testimoni.
Senza rendermene conto mi ritrovo in piedi in mezzo all'ingresso, la tazza di caffè intonsa ancora stretta tra le dita.
La porta del suo studio si lascia intravedere socchiusa nella penombra. Quel posto magico che da bambina mi sembrava il centro dell'universo.  La scrivania da cui venivano tirati i fili del mondo.
Me lo ricordo seduto sulla sua poltrona di pelle, mentre io giocavo sul grande tappeto abbandonato nel centro della stanza.
Ogni tanto sollevavo lo sguardo, come per assicurarmi che lui fosse ancora lì, avvolto dal suo lavoro importante, a vegliare su di me dall'alto e a farmi sentire al sicuro.
Forse è questa una delle immagini più belle che ho di mio padre. Circondato dal ciliegio della sua libreria grondante di volumi di diritto penale, mentre mi sorride benevolo, cercando di intavolare una surreale discussione anche con i miei unicorni colorati.
Spingo la porta con i polpastrelli. Tremo impercettibilmente, perché è come se varcassi la porta del suo mondo, del suo regno di leggi e arringhe taglienti.
È tutto come era allora. Anche il grande fermacarte in ottone, a forma di mela matura, con bloccata sotto la pila di documenti onnipresenti sulla sua scrivania.
Però è tutto più immobile. Come se la sua assenza rendesse più triste la staticità delle carte inermi.
Do un piccolo sorso al caffè ancora bollente, mentre l'immagine dell'avvocato distrutto, con la testa tra le mani, a sfogliare freneticamente alcuni fogli impilati, mi riporta per un istante in una notte di orrore, sepolta da ventiquattro anni, e tornata da tre giorni a stringermi la gola con tutta la sua crudeltà insensata.
Mi avvicino alla sedia. Affondo le dita nella pelle impalpabile dello schienale, la scosto dal tavolo di ciliegio.
È un gesto meccanico, dettato dai miei giochi di bambina, quando mi fingevo un grande avocato immerso nel lavoro. Nel ruolo in cui ero abituata a vedere mio padre.
Do un altro sorso al caffè.
Le mie mani scivolano sul sottomano di velluto, si avventurano tra le penne stilografiche, tra i timbri, sull'orologio d'argento, fino a raggiungere i documenti che hanno sempre fatto da contorno alla figura di Ettore Nervi.
Sollevo il primo foglio, dove frasi tipiche di un foro per me immaginario si susseguono sulla pagina bianca, una dopo l'altra, in tutta la loro consuetudine meschina.
Sposto un altro foglio. Altri documenti scivolano sotto al mio sguardo strattonato tra la noia di una notte insonne e i ricordi di tempi lontani.
Un nuovo sorso al caffè che ormai langue nella tazzina di porcellana.
L'alba fa capolino dietro gli scuri, tagliando l'oscurità e importunando la luce artificiale dei lampioni del lungotevere.
Un nuovo foglio si srotola sotto i miei occhi, un foglio che porta la grafia di mio padre, in una scrittura a mano così insolita da vedere tra le sue carte.
Istintivamente lo prendo tra le mani. Lo sfilo dalla pila di carte che lo tengono imprigionato.
Scorro le prime righe distrattamente, riconoscendo una sorta di lettera più informale dei documenti a cui sono abituata.
Scivolo sulle parole distrattamente, senza cercarne né coglierne il significato.
Poi arrivò sul fondo.
Sento il cuore arrestarsi improvvisamente. Il fiato fatica ad uscirmi dalla bocca.
Istintivamente mi alzo di scatto dalla poltrona, stropiccio il pezzo di carta stringendo le dita in un pugno serrato, mentre un rumore secco si insinua nel silenzio delle prime luci del giorno.
La porta si apre con un tonfo.
Una giacca di lana grigia dal taglio impeccabile e un foulard dai colori sgargianti riempiono il mio campo visivo immobilizzato sull'ingresso.

- «Buonasera, Emma... che sorpresa trovarti qui!»

Mio padre è immobile sulla porta, mi osserva con una mano appoggiata al suo immancabile bastone da passeggio dal pomello d'argento.
Mi sorride dietro agli occhiali dalla montatura sottile.

- «Papà... io...»

Sono così terrorizzata da non riuscire neppure a parlare.

- «Cosa ti porta a casa, Emma?»

La sua voce è sottile, rilassata in modo quasi forzato.

- «Io, era tanto tempo che non...»

Nell'arco di una frazione di secondo mi tornano in mente immagini vecchie di anni.
Me lo ritrovo più giovane, seduto alla scrivania da cui adesso sto cercando di scappare, con le mani nei capelli e alcune carte che gli scorrevano velocemente tra le dita.
Mi torna in mente mia nonna, con i suoi occhi resi liquidi da una malattia subdola, gonfi e increduli mentre qualcosa nel suo profondo cercava di dirmi quello che non era mai stata in grado di confessarmi.
Tuo padre è un uomo cattivo, Emma.
Il mio cervello collega i pezzi alla velocità della luce, ricompone un puzzle vecchio di ventiquattro anni, che finalmente sta vedendo incastrarsi gli ultimi tasselli ai quali stento a credere.

- «Tu cosa... Emma?»

Sorride. Di un sorriso che mi gela il sangue.

- «Io, ero venuta a trovarti... adesso devo andare...»

Faccio un passo verso la porta.
Lui si muove di lato, con una mano spinge il pannello di ciliegio che si richiude alle sue spalle con un rumore che sembra annientare tutto il resto intorno.

- «Non avresti dovuto entrare qui dentro... non avresti dovuto sapere... non più ormai!»

Mi sembra di sentire un tono che ho già sentito da bambina, seppellito nella memoria per tanto tempo.
Il tono con cui lo avevo sentito parlare con mia madre, in una sera di tanti anni fa.
Tuo padre è un uomo cattivo, Emma.

- «Io non so di cosa stai parlando, papà!»

Cerco una spavalderia che non riesco a trovare, sentendo la mia stessa voce pervasa da un accento stridulo.
Lui si abbassa gli occhiali sul naso, mi rivolge una risata che mi gela il respiro.

- «Emma... hai riconosciuto il marchio, sul foglio che tieni stretto in mano... È lo stesso che hai trovato sulla partitura della Turandot...»

Fa un passo verso di me.

- «E pensare che ho fatto di tutto per spaventarti a morte, per farti seppellire questa storia e farti stare il più lontana possibile...»

Mi muovo piano verso la finestra, mentre sento ogni mia certezza sgretolarsi sotto il suono dei passi di mio padre che si avvicinano lentamente.

- «So che hai seguito Wright a Berlino... hai addirittura affittato una stanza nel suo stesso albergo... cosa cercavi Emma?»

Deglutisco a fatica.
Tuo padre è un uomo cattivo, Emma.

- «Io... non capisco... volevo solo tornare a vedere Berlino. Wright chi?»

Tento di eludere le sue domande, mentre una consapevolezza timida mi si fa strada nel petto.

- «Avanti Emma, sono tuo padre. Pensi che non ti conosca?
Ma lui non ha voluto aiutarti, vero?
Infondo non ha mai cercato nulla per ventiquattro anni, se non qualche domanda fatta velocemente subito dopo "l'incidente".
Poi sei riuscita a contattarlo, ad essere sincero non ho capito bene come...
Lo hai convinto a venire con te al teatro dell'Opera.
Hai parlato con quel vecchio.
Erano anni che lo facevo controllare.
Non mi hanno riferito che si fosse messo in contatto con te prima della tua visita in teatro.
Ma stai serena, punirò questa falla nel sistema come merita.»

Continua a camminare verso di me. Con le dita accarezza stancamente il pomello del bastone.

- «Non so come sei riuscita a farti portare da Wright fino a Berlino.
Ma poi?
Pensavi davvero che avesse voglia di immischiarsi in questa storia?
E così sei tornata a Roma, dove ho perso le tue tracce fino ad adesso.
Sapevo che prima o poi saresti tornata a casa, anche se non pensavo così presto...»

Sento un sudore freddo sibilarmi sulla schiena.
Ma qualcosa, sul fondo dello stomaco, mi porta a pensare che lui conosca solo una parte della storia.
Lui non sa di Robert. Non sa del nostro viaggio a Londra e, sicuramente, non può immaginare che lui stia dormendo in casa sua, solo a qualche metro di distanza da questa follia.

- «Sai, per un momento, quando avevi vent'anni, ho pensato che tu potessi diventare l'erede del mio impero.
Avevi la stoffa, l'intelligenza e la determinazione per poter continuare il mio lavoro.
Ma poi tua nonna è morta e tu hai deciso di inseguire, com'è che lo chiami sempre? ...Il tuo sogno...»

Faccio fatica a respirare.
Tuo padre è un uomo cattivo, Emma.

- «E così te ne sei andata, facendo svanire il mio, di sogno... quello di vedere i Nervi a capo dei Nuovi Santi, ancora per molto, molto tempo.»

Sento le lacrime premere agli angoli degli occhi, mentre cerco di capire come poter scappare dal mio stesso padre, che adesso assume i connotati del mostro che ho imparato a conoscere solo pochi giorni fa, ma che mi perseguita da anni.
Faccio un respiro profondo. Provo a mettere in ordine i pensieri.

- «La mia è una nobile causa, Emma.
Ma sono ostentato da ogni parte!
Il mondo è marcio! Non lo vedi?
Nel mio lavoro di facciata faccio processare assassini, li faccio arrestare... e poi?
Poi, dopo alcuni anni, tornano liberi, a circolare per il mondo, senza pagare abbastanza per le loro colpe.
Noi siamo la giustizia!
Noi ripuliamo le città dalla feccia...»

Una strana luce gli brilla negli occhi.
Una luce che sembra attraversata dalla follia.
Sento il pianto salirmi nella gola. Mentre ogni mia certezza si sgretola, mentre ogni mia convinzione va in frantumi, mentre tutta la mia vita si trasforma in una bugia.
Tuo padre è un uomo cattivo, Emma.
Mia nonna aveva cercato di avvertirmi, nella libertà e nella presunta pazzia della sua malattia.
Un singhiozzo mi sfugge dalle labbra.

- «Ma mamma?
Papà, cosa c'entrava mamma in tutto questo?»

Nota dell'autrice: vi chiedo immensamente scusa per il ritardo nell'aggiornamento della storia.
Questo capitolo è pronto già da un po', ma avevo bisogno di revisionarlo e di renderlo più "giusto", anche se il mio lavoro mi ha messo non poco i bastoni tra le ruote.
È stato piuttosto difficile da scrivere e spero di aver reso appieno lo stupore e la devastazione che possono cogliere un essere umano che vede il suo mondo disintegrarglisi tra le dita.
Come sempre vi ringrazio per la vostra fedeltà, per le vostre letture, per le vostre stelline e per i vostri commenti.
Mi spingono ad andare avanti con una storia che per me è stata una piccola sfida.
Grazie a tutti, di cuore.
Un abbraccio

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