Capitolo 28 - news

Ho dato le ultime indicazioni all'orchestra di fretta, mi sono soffermato brevemente sulle raccomandazioni finali per il concerto di domani, cercando di essere il solito direttore riservato, di poche parole, al limite dello scontroso e con pretese infinite.
Mi sono immerso per un attimo nel vecchio me stesso, per risultare credibile, per non destare sospetti.
Non so neppure spiegare il perché, ma mi sento così diverso da quando Emma ruota intorno alla mia esistenza.
Mi viene voglia di cambiare, di aprire il mio mondo a qualcosa di più di una musica che ha sempre occupato l'intero spazio della mia anima. Di guardare le persone negli occhi e provare a coglierne i segreti, i mondi nascosti, i sentimenti e le paure.
E questo, forse, fa di me un uomo migliore.
Mi sono diretto nel camerino con il fiato corto, con un'eccitazione palpabile e con la voglia di vederla tatuata negli occhi.
Ho spalancato la porta di fretta, e lei era lì, seduta sulla mia sedia, affogata nel mio rifugio di solitudine, pronta a far luccicare lo sguardo dentro al mio.  Si è infilata il travestimento di fretta, arrampicandosi su un paio di tacchi che non era capace di portare, intrappolata in un vestito che le strizzava il piccolo seno quasi sotto il mento, rendendola così drammaticamente simile al mio passato e così distante dalla donna meravigliosa che è, nascosta dai suoi vestiti sformati e dalla sua semplicità immacolata.
Ho chiamato un'auto dell'albergo, chiedendo espressamente che me ne venisse mandata una con i vetri oscurati.
Il ragazzo alla reception non ha battuto ciglio di fronte alla mia richiesta. Infondo non era la prima. E questo mi ha fatto sentire ancora più un imbecille.
Quando la berlina nera ci ha scaricati all'ingresso laterale dell'Adlon Kempinski, Emma ha indossato un paio di occhiali scuri che le coprivano mezza faccia.
In un lampo di genio, nel pomeriggio, aveva comprato anche un elastico con una resistenza prossima ai cinquanta chili, in grado di tenere intrappolati, almeno per il tempo di attraversare l'ingresso, i suoi ricci capaci di sfidare la forza di gravità.
Abbiamo superato la hall con passo spedito. Il portiere mi ha lanciato uno sguardo fugace, per poi distoglierlo immediatamente.
Siamo saliti in camera in fretta, quasi correndo. Quando la porta si è chiusa alle nostre spalle abbiamo ripreso a respirare.
Emma ha scalciato via le scarpe quasi con stizza, prima di sedersi sul divano e di massaggiarsi i piedi già doloranti.

-    «Posso sfilarmi anche questa armatura di acrilico da due soldi o mi preferisci in versione donna da urlo?»

-    «Emma io...»

-    «Lascia stare Robert! È solo una battuta venuta male... sono tesa fin nelle punte dei capelli...»

Sembra sincera, mentre io mi vergogno di me stesso e della mia stupida affettività compromessa dalla solitudine.
Fino a tre settimane fa, quando questo uragano dagli occhi grandi ha preso a sberle la mia vita.

-    «Faccio una doccia, poi studiamo un piano per evitare che tu debba restare prigioniera in questa stanza per il resto della vita!»

Lo dico ridendo, ma ho paura.
Come posso salvarla? Se davvero qualcuno la sta cercando, se davvero la storia di Renato è reale, lei è in pericolo. Così come forse lo sono anche io.
Ma per me è diverso. C'è il mio nome a difendermi, la fama che ho sempre sfuggito.
Ma lei? Che fine faranno i suoi sogni? Le sue conquiste nascoste tra i tavoli di un piccolo ristorante affogato nel cuore di Roma?
Mi avvicino. Le bacio la fronte.
Poi sparisco tra le spire di un bagno di marmo di Carrara dai confini immensi e saturo dell'odore di bagnoschiuma di lusso.

Dieci minuti più tardi riemergo dal vapore, aprendo la porta che si affaccia sulla mia stanza.
Emma è ancora in salotto, sicuramente seduta a gambe incrociate sul divano, pronta a travolgermi con la sua voglia di vivere e con il suo ottimismo inguaribile.
La televisione gracchia qualcosa in italiano, probabilmente accesa sull'unico canale del bel paese disponibile in un albergo della capitale tedesca.
Supero la porta con l'asciugamano ancora arrotolato sulla vita.
Emma è immobile. Uno sguardo terrorizzato le importuna il viso, facendole sbarrare gli occhi in direzione dello schermo.
Mi avvicino di fretta, rivolgendo le mie attenzioni verso il grande televisore che fa bella mostra di se sul piccolo mobile di legno intarsiato.
Un cronista inquadrato dal busto in su parla di qualcosa che non riesco a capire.
Cerco lo sguardo di Emma. Lo vedo immobile, paralizzato in qualche punto imprecisato ripreso dalla telecamera.
Quando mi volto la paura mi colpisce come uno schiaffo. Le immagini rosse che si susseguono sullo schermo mi impediscono di fare entrare aria nei polmoni.
I corridoi del teatro dell'Opera vengono inquadrati uno dopo l'altro, in una sequenza di repertorio che riesce a farmi rabbrividire.
La voce di un giornalista racconta una storia che mi resta sconosciuta ma che, malgrado la lingua incomprensibile, riesce a farmi tremare di paura.
È successo qualcosa. Qualcosa di brutto!
Poi le immagini cambiano. Ne appare una del palco, con le quinte ancora spostate sul centro, e lì, in mezzo alla luce artificiale dello schermo, sul fondo del palcoscenico, luccica il simbolo che giace stancamente sulla partitura di Puccini, lo stesso che secondo Emma brilla anche sulle dita di Luca.
Il servizio finisce, lo stesso cronista di poco fa conquista nuovamente il centro dello schermo, circondato dalle luci blu dei monitor di scena.
Emma prende il telecomando. Spegne la televisione con uno scatto pieno di rabbia e disperazione.
Poi si gira. Mi punta negli occhi uno sguardo sgomento.

-    «Robert... hanno ucciso Renato!»

Il cuore mi si incastra tra le costole, prima di riprendere a battere con un ritmo impossibile.

-    «Come...»

-    «Lo hanno detto adesso al telegiornale. Un anziano tecnico del teatro dell'Opera di Roma, di nome Renato Salietti, è stato trovato morto sul palco.
Dicono che è caduto dalle impalcature di scena, mentre metteva a posto le luci per lo spettacolo di questa sera.
Ma non è vero Robert... non può essere una coincidenza!
Lo hanno ucciso!»

Emma interrompe il suo discorso. Un singhiozzo disperato le sfugge dalle labbra.

-    «Lui ha solo cercato di aiutarmi, e loro...
Ho paura, Robert!»

La stringo nell'abbraccio più stretto che riesco a trovare.

-    «Anche io, Emma... anche io!»

Lei si rannicchia tra le mie braccia.  Il piccolo singhiozzo si trasforma in un pianto che mi bagna il petto di lacrime terrorizzate, ed io resto impotente a guardarla implodere nello sgomento.
Lascio passare qualche minuto, poi mi scosto dal suo corpo. La guardo negli occhi.

-    «Devi andartene! Il tuo check-out dall'albergo e la tua prenotazione su un treno per Roma di questa mattina li terranno occupati per un po', ma non ci metteranno molto a capire che non hai mai lasciato Berlino.
Devi andare subito via da qui!»

I suoi occhi sono quasi assenti.

-    «...e dove, Robert?»

-    «A Londra!»

Lei scuote la testa. Si passa una mano tra i ricci, cercando di togliersi l'elastico che ancora prova a tenerle imprigionati i capelli.

-    «Come ci arrivo a Londra? Se prenoto un volo, loro seguiranno le tracce, mi troveranno subito...»

Le rivolgo un piccolo sorriso.

-    «Se prenoti un volo sì, se viaggi sul mio aereo privato parcheggiato in un hangar secondario dell'aeroporto di Schönefeld nessuno se ne accorgerà...»

Lei mi guarda interdetta.

-    «Robert... io non voglio andare via da sola... ti prego! Tienimi con te!»

Ha gli occhi gonfi, il respiro corto.
Mi alzo dal divano. Sferro un pugno sullo stipite della porta, con tutta la forza che il mio braccio mi concede.
Emma si lascia scappare un urlo terrorizzato.
Poi mi guarda. È posseduta dall'ansia, pietrificata dal terrore.
Il dito medio mi procura un dolore lancinante che mi si ripercuote in tutto il corpo.

-    «Non andrai da sola... il maestro Wright questa sera si è accidentalmente rotto un dito. Non potrà dirigere il Parsifal domani perché deve rientrare immediatamente a Londra per gli accertamenti presso il suo medico di fiducia.»

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