Capitolo 2 - Robert

Io volevo vivere di musica.
Da quando ero un bambino, nascosto nel sottoscala di un collegio di preti, con la foto di Herbert Von Karajan ben sepolta nel portafoglio.
Da quando ascoltavo controvoglia i trentatré giri di gruppi che urlavano sguaiatamente dal grammofono, cercando in tutti i modi di farmeli piacere.
Canticchiando con i miei compagni per essere accettato nel loro mondo di giubbotti di pelle e borchie sugli stivali.

Poi tornavo a casa, sgattaiolavo nella sala della musica di mio padre, sfilavo con un rispetto quasi religioso la custodia di un disco patinato, lo liberavo piano, lo poggiavo sul giradischi, posizionavo con attenzione la puntina e lasciavo che l'anima trionfale di Verdi conquistasse la stanza, o che le dita di David Hellgot corressero come possedute sulle note di Rachmaninov, o che il clavicembalo di Mozart risuonasse sulle pareti tappezzate di corda del mio nascondiglio.
E lì, in quel momento in bilico tra il passato e il presente, tra il sogno e la vita, trovavo me stesso.

Poi la scuola è finita, io sono cresciuto, e ho smesso di fingere.
Ho mangiato esami del conservatorio come se fossero state caramelle. Mi sono diplomato in pianoforte prima, in direzione d'orchestra poco dopo.
Ho cominciato ad impugnare la bacchetta sugli scranni di qualche teatro di periferia. E mi sentivo felice.
Ero solo un ragazzo con lunghi capelli castani, con i sussurri dei grandi compositori nel sangue e con una passione che si stava trasformando in lavoro.

Dopo è arrivato il primo manager. Mi ha procacciato direzioni sempre più importanti, sempre più emozionanti.
I teatri degli oratori si sono trasformati in piccoli teatri di provincia.
Le sei persone del pubblico si sono trasformate in venti, in cinquanta, in cento.
Al primo manager ne è susseguito un secondo, poi un terzo, un quarto, un quinto, fino ad arrivare qui.
Con il mio smoking impeccabile, con i capelli ormai grigi, con il mio nome stampato a lettere cubitali sulla porta di uno dei teatri più importanti del mondo.

Impugno la bacchetta, abbandonata davanti allo specchio del più bel camerino del Teatro alla Scala di Milano dove, prima di me, hanno diretto tutti i grandi maestri.
Dove ha diretto anche lui, Herbert Von Karajan, ancora ben nascosto in un portafoglio che, dal pezzo di plastica malconcio che era, si è trasformato in un impalpabile scrigno di pelle da settecento sterline.
Adesso ci sono io sulla cima del mondo.
E lui non può fare altro che guardarmi con i suoi occhi in bianco e nero, sorridendomi beffardo dalla sua staticità eterna.

Sono diventato il più famoso direttore d'orchestra esistente, il più grande mai esistito, e armonizzo più di cento elementi che pendono dalle mie labbra, facendo librare nell'aria la mia musica.
Il ragazzino nascosto nel sottoscala si è trasformato in una celebrità indiscussa, portando la musica classica alla ribalta, dopo aver passato anni ad essere confinata nelle librerie degli appassionati.
Oggi non c'è persona che non abbia visto la mia faccia, che non possegga un cd di un'opera diretta da me, che non fischietti la melodia di una mia orchestra.

Ho assistito impotente al fenomeno Robert Wright che cresceva giorno dopo giorno, mese dopo mese, fino a trasformarsi nella stella del firmamento musicale che sono diventato.
Il direttore della Royal Philarmonic Orchestra di Londra, cavaliere della regina, ospite di programmi televisivi, testimonial dell'apertura di nuovi teatri.
Proprio io, che volevo solo ascoltare la musica nascosto nello studio di mio padre, senza dover fingere di essere qualcosa che non sono.
Proprio io, quello emarginato dai coetanei, deriso dagli amici, snobbato dalle ragazze.
Adesso mi ritrovo con una bacchetta di fibra di carbonio in mano, a dirigere gran parte del mondo, insieme ad una semplice orchestra.
Ad essere conteso, desiderato, idolatrato dalle masse.
Proprio io, che fatico a parlare con le persone. Che tollero malamente il contatto umano. Che passo la vita con le cuffie sulle orecchie, lasciandomi trasportare dallo strazio di una Mimì, nascosta in una soffitta di Parigi, o dal trionfo di sonorità di Wagner.
Proprio io, quello a cui basterebbe la sua orchestra che suona, la sua musica che lo avvolge.
Che invece mi giro, trovando un teatro gremito di gente che non brama altro che di poter vedere le mie mani far danzare le note.
Proprio io che, nonostante tutto, continuo a sentirmi solo al mondo.

Due colpi sulla porta mi annunciano l'arrivo della mia nuova performance, che si aprirà come sempre tra un'apoteosi di applausi, per chiudersi con altri ancora più scroscianti. Più magnifici.

-    «Maestro, siamo pronti...»

La voce di una delle maschere del teatro mi raggiunge ovattata tra i costumi di scena.
È uguale a mille altre, sempre diversa, eppure sempre la stessa.
Appartiene a ragazzi che domani mattina non ricorderò di avere incontrato, che si inchinano sommessi nel tentativo di dimostrarmi una riverenza non richiesta.
Rivolgo al giovane sconosciuto un sorriso tirato. Lui si bea per un attimo del mio sguardo immobile. Poi mi alzo. Esco dal camerino.
Chiudo la porta alle mie spalle.
Percorro con passo sicuro le retrovie di un teatro gremito di gente.
Sistemo il papillon, lo assicuro fermamente al coletto della camicia.
Raddrizzo le spalle. Canticchiando per l'ennesima volta l'ouverture di Rossini che tra poco invaderà la volta di una platea color porpora, traboccante di lustrini e lunghi abiti da sera.
Picchietto con il palmo della mano sulla banda lucida dei pantaloni dal taglio impeccabile. Come faccio sempre.

Di colpo il silenzio dell'orchestra mi riempie lo stomaco.
Quel silenzio carico di rumori indistinti, di stridii di corde, di pagine che si rincorrono, di leggi portati alla giusta altezza.
Faccio un respiro profondo. Supero la grande quinta laterale.
Un fragore di applausi mi colpisce la faccia come farebbe uno schiaffo.
Eccola, la stella! Il direttore del mondo.

Salgo sul podio.
Assesto due rapidi colpi di bacchetta sul leggio da cui mi ammiccano le prime note del barbiere di Siviglia.

Di colpo il silenzio intorno è quasi assordante.
Alzo le mani.
Gli sguardi attenti di alcuni tra i migliori musicisti del mondo mi avvolgono come una coperta di seta. Aspettano un mio cenno. Un mio unico, impercettibile cenno.
Abbasso la bacchetta.
Le note degli archi si mischiano ai primi accenni del mio sudore.
E lo spettacolo comincia. E la gente trattiene il fiato. E io mi mostro al mondo per l'uomo inarrivabile che non sono, per l'uomo invincibile che non sono, per l'uomo perfetto che non sono... ancora una volta.

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