Capitolo 19 - Carlo

La facciata dai tratti tipici del ventennio fascista mi appare in tutta la sua imponenza implacabile, sulla quinta sinistra di piazza Gigli. E come sempre, passando qui davanti, sento il fiato farsi più rarefatto nella gola.
Il taxi si ferma di fronte all'ingresso nascosto dalle grandi colonne.
Vedo distrattamente Robert allungare venti euro ad un tassista incredulo, mentre la mia mano si dirige meccanicamente verso la maniglia per aprire la portiera.
Ho bisogno di aria. Devo scendere da questa macchina che è improvvisamente diventata soffocante.
Robert mi raggiunge sul marciapiede.
Si aggiusta il cappotto, fissa meglio la sciarpa intorno alla gola già protetta dal collo del dolcevita di cachemire, poi mi prende la mano.
Forse ha capito quanto mi costa tutto questo, o forse sono semplicemente le sue buone maniere tipicamente inglesi, ma il calore della sua pelle riesce a farmi riacquistare la forza di camminare verso l'ingresso di un teatro nel quale non metto piede da ventiquattro anni.
Come al solito, a quest'ora, l'atrio è deserto.
Robert mi apre la grande porta a vetri, mi fa cenno di entrare rivolgendomi un sorriso carico di incoraggiamento.
Io mi avventuro con passo incerto sull'immenso pavimento di marmo bianco che fa da specchio inconsapevole alle luci artificiali poste in ogni angolo del soffitto.
Un custode sonnolento si nasconde dietro al bancone della biglietteria, circondato dai pieghevoli con la programmazione della stagione sinfonica e dalle teche su cui troneggiano i costi proibitivi degli abbonamenti ai palchi.
È un uomo che deve avere circa settant'anni. Un grosso paio di occhiali gli appesantisce un volto rugoso, dai tratti sottili.
Mi guarda, mi rivolge un sorriso di circostanza.

-    «Signorina, a quest'ora la biglietteria è ancora chiusa. Deve aspettare le dieci, a quell'ora le hostess saranno disponibili a fornirl...»

Lo vedo sgranare gli occhi.
Alzarsi di scatto dalla sedia con uno sguardo incredulo, mentre capisco che Robert deve aver rivelato la sua presenza alle mie spalle.

-    «Maestro...»

Balbetta.

-    «È un onore immenso!»

Accenna un piccolo inchino con il capo.

-    «Come posso esservi utile, signori? Sono solo il custode, ma di qualsiasi cosa abbiate biso...»

Gli occhi di Robert saettano sul cartellino che l'uomo porta fissato al risvolto della giacca.

-    «Ho bisogno di parlare con la direzione del teatro... Carlo.»

Lo sento dire in un Italiano leggermente stentato e dal fortissimo accento anglosassone.
Avverto gli angoli delle mie labbra incurvarsi in un sorriso.
Mi avvicino al suo orecchio, mentre osservo Carlo premere con concitazione sui tasti di un telefono che deve aver nascosto sotto al bancone.

-    «Non sapevo che sapessi parlare Italiano...»

-    «Infatti non so parlare Italiano! So solo dire: ho bisogno di parlare con la direzione, ottimo lavoro, allegro, allegro andante, piano, pianissimo...e tutta la sequela di indicazioni musicali del repertorio. Per quanto riguarda la vita di tutti i giorni mi limito a: spaghetti, ciao, buongiorno, ristorante e pizza, sempre che l'ultima possa essere annoverata come conoscenza della lingua, visto che è uguale in tutte le lingue del mondo...»

Mi sorride. Ha gli occhi carichi di dedizione, pronti a supportare uno sconforto che sa latente, appena sotto la spavalderia che fingo in malo modo.
E in mezzo a questo turbinio di emozioni, a questo lento affogare in un passato che non riesco a dimenticare e che sembra inseguirmi nell'ombra, io mi sto innamorando di lui.
Del suo modo di passarsi la mano tra i capelli, della sua eleganza innata ma mai ridondante, del suo umorismo sottile, delle sue mani perfette, della sua cultura che sembra quasi sconfinata, del suo sorriso e anche dell'aria di magnificenza che si porta appiccicata addosso.
Tutto di Robert Wright parla alla mia anima con parole che non ero mai stata in grado di sentire.

-    «Maestro, il direttore arriverà tra qualche minuto. Non era in sede ma ha detto che può essere qui in meno di mezz'ora. Se posso offrirvi un caffè...»

La voce di Carlo si intrufola come un ladro tra i miei pensieri sconnessi.
Robert lo guarda, socchiude gli occhi, cercando di capire cosa ci e appena stato comunicato dal custode.
Gli traduco le poche frasi velocemente.
Lui si passa la mano tra i capelli, ancora una volta.

-    «Emma, saresti così gentile da chiedere a questo signore se può farci fare un giro turistico del teatro?»

Cinque minuti più tardi il foyer del Teatro dell'Opera ci da il benvenuto sotto il suo soffitto a cassettoni barocchi.
Gli stucchi dorati e il pavimento a rombi bicolore fanno da scenografia al mio sgomento.
Ricordi di tempi lontani si rincorrono nella mia mente, sbiadendo i contorni di immagini che ho cercato di seppellire da anni.
Robert mi osserva, studia i movimenti impercettibili delle mie palpebre che cercano di trattenere lacrime mai asciugate del tutto.
È teso, si muove con circospezione in un ambiente che sembra innervosirlo, che sembra procurargli un fastidio quasi palpabile.
Un suo braccio mi cinge le spalle.
E, come sempre, sembra che tutti i miei mostri scompaiano per un istante. Che si nascondano davanti alla semplicità di un suo gesto, del calore del suo corpo a contatto con il mio.

-    «Questo è l'ingresso per le gallerie, ma sicuramente non vi interessa...di qui invece si accede alla platea, su cui possiamo vedere il grande affresco del Brugnoli...»

-    «Ci porti verso le gallerie, Carlo!»

Sento Robert rispondere in inglese.
Carlo lo guarda con gli occhi pieni di scuse, cercando di capire e soddisfare la richiesta del suo illustrissimo ospite.
Traduco frettolosamente la frase di Robert ad un custode che sembra rilassare le spalle.
Le scale che portano verso i palchi d'onore si inerpicano silenziose sui lati della sala.
Le percorriamo senza parlare.
Sembra che anche la conoscenza impeccabile di Carlo vacilli sui luoghi meno famosi del teatro.
Raggiungiamo il primo loggiato. Una moquette di velluto rosso scuro ovatta i nostri passi, donando loro una sonorità spettrale nel silenzio dell'Opera deserta.
Percorriamo parte della galleria, poi una nuova scalinata immensa ci ammicca sulla sinistra, rivelandoci la via per il secondo piano. Quello dei palchi d'onore.
Trangugio una saliva che quasi mi brucia la gola.
Robert mi lascia passare davanti, e ci ritroviamo in men che non si dica al secondo piano, quello che da più di venti anni fa da contorno alle mie paure.
È tutto com'era allora. Le porte si susseguono silenziose ed immobili, una dopo l'altra, disposte a ferro di cavallo. Quelle centrali sono più preziose, più grandi, poi diminuiscono di importanza man mano che ci si avvicina al palco.
La porta più imponente, quella del palco reale, è ornata di basso rilievi in oro zecchino, e quella subito accanto riprende con toni più smorzasti il fasto opulente della sua grande sorella maggiore.
È la mia porta. Quella del palco che ha visto snocciolarsi la mia infanzia tra le sue mura di velluto.
Trattengo il respiro.
Robert capisce immediatamente che siamo arrivati al cospetto dei miei incubi. Mi passa ancora una volta il braccio intorno alle spalle.
Il suo profumo satura lo spazio nei miei polmoni. E con un suo sorriso appena accennato riesce a tenere a bada i più pericolosi tra i miei demoni.
Si gira verso Carlo. Dedica un sorriso anche a lui.

-    «Può lasciarci soli un istante? Vorrei godermi il silenzio del teatro.»

Traduco frettolosamente la sua richiesta al custode che accenna un piccolo inchino del capo e si ritrae di qualche passo, per poi sparire nelle spire delle scale che poco fa ci hanno condotto al secondo piano.
Robert mi guarda, con un'inconfondibile espressione degli occhi mi chiede il permesso per abbassare la maniglia ed accedere al palco.
Mi stringo nel suo abbraccio silenzioso per un istante, poi faccio un cenno di assenso.
La porta si apre, ed io mi ritrovo affondata fino alle ginocchia in un passato che pensavo di aver metabolizzato molto, molto meglio di così.

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