Capitolo 18 - il terzo atto

Mi sono sentito solo tante volte nella mia vita.
A dirla tutta, sono così abituato a sentirmi solo, da ritenerla ormai una condizione necessaria.
O per lo meno la ritenevo necessaria fino a due settimane fa, quando una folla di curiosi mi ha intrappolato come un topo nella stanza di un albergo.
Sì, perché da quel giorno, per la prima volta dopo tanti anni, ho cominciato a desiderare di non essere più un eremita asettico, di avere qualcuno accanto. Di avere accanto lei.
E se la amassi? Sarebbe così assurdo? Così sbagliato?
Se con la mia vita ingombrante, il mio nome inflazionato, la mia sconsiderata ricchezza inutile, i miei sessant'anni e il mio corpo che non può più vantare la perfezione di una giovinezza lontana, io mi fossi innamorato di una donna con la metà dei miei anni?
È così impossibile, dopo averla vista solo due volte in tutta la mia vita?
Sì, lo è. Eppure mi ritrovo qui come un cretino, bloccato sulla porta della mia stanza, con i suoi occhi sgranati che mi prendono a sberle l'anima, mentre cerco la forza di raccontarle un segreto che provo a dimenticare da ventiquattro anni, inconsapevole di condividerlo proprio con lei, che adesso mi guarda come se avessi nascosta nelle tasche la soluzione al mistero della sua vita.
La spio osservarsi le mani. Mentre non trova la forza di alzare gli occhi, e di puntarli nei miei.
La osservo importunare i suoi ricci intrappolati in una bacchetta piena di schegge di un infimo ristorante cinese, cercando di scappare dalla storia che devo raccontarle.
Di colpo si riscuote, raggiunge il centro di una camera stracolma di oggetti inutili. Cerca qualcosa per un momento. Poi si blocca.
I suoi occhi lampeggiano.
Si china davanti allo sportello del mini bar. Lo apre quasi con rabbia. Le sue mani si muovono frettolosamente tra le bottigliette di Campari e di gin.
Ne estrae una con poco garbo. Con i denti fa saltare la capsula che la divide dal suo inutile conforto alcolico momentaneo. Trangugia due lunghe sorsare di un liquido che quasi sicuramente le sta anestetizzando la gola, provando a farsi anestetizzare anche i pensieri. Poi mi guarda.
I suoi occhi sono così pieni di domande mute. E la mia bocca è così gonfia di risposte scomode.
Come vorrei tornare ad essere l'uomo che guardava senza riserve, solo ieri sera, ad un tavolo scheggiato, affogato in un locale leggendario in cui una musica perfettamente imperfetta invadeva l'aria satura di fumo.
Come vorrei rivedere i suoi occhi spensierati cercare i miei, senza la ricerca di una storia che ha paura di farsi raccontare.
Improvvisamente si alza in piedi. Raddrizza le spalle.
Con un'ultima sorsata da il colpo di grazia ad una bottiglietta di gin che poi getta con stizza nel cestino. E mi guarda.
Le sue iridi mi bruciano la pelle della faccia.

- «Quindi tu sai cosa è successo quella notte, Robert...»

Il passato mi inghiotte per un attimo.
Cerco di riaffiorare dalle immagini vecchie di vent'anni che si susseguono nella mia mente, senza trovare dei contorni definiti. Perlomeno non definiti come lei vorrebbe.
La raggiungo nel centro della stanza. Mi avvicino al mini bar. Afferro la bottiglietta di Campari scampata alla sua foga.
Come lei, provo ad espugnarla in fretta. Svito il tappo con un gesto meccanico.
Il sapore amaro del liquore mi lecca la lingua, prima di scendermi nella gola e di blandirla con tutto il potere della sua infima gradazione alcolica.
Poi la guardo ancora. E capisco che il mio tempo è finito. Quello in cui potermi rifugiare nel silenzio, quello in cui ostinarmi a scappare dai ricordi.
Dischiudo le labbra. Sembra che la sua attenzione si sia tesa fino allo spasmo.

- «Prima del concerto un uomo è venuto a parlarmi...»

Sento la mia stessa voce attraversata da un tremore palpabile.
Lei continua a guardarmi. Non stacca gli occhi dai miei. Solleva un sopracciglio.

- «Mi ha chiesto di ridurre la pausa tra il secondo e il terzo atto, di cominciare la prima scena con cinque minuti di anticipo...»

La osservo studiarmi immobile. So che sta aspettando, che dentro di lei infervora una battaglia atona.

- «Ho fatto partire l'orchestra su "Cosi comanda Turandot" prima che le luci del teatro si spegnessero.»

Emma è come intrappolata in uno stato di trance. Pende dalle mie labbra. Aspetta un epilogo che non sono in grado di concederle.

- «Ho sentito la platea accalcarsi sulle poltrone in fretta. Ho intuito un mormorio di disapprovazione serpeggiare tra il pubblico incredulo...»

Faccio una pausa, cercando un conforto momentaneo nella moquette color pastello della mia suite immensa.
Poi riprendo tra le dita la forza di continuare a parlare.

- «Quando ho chiuso l'ultima scena dell'opera ho capito che qualcosa non andava. Da uno dei palchi d'onore intravedevo la luce della galleria filtrare dalla porta aperta. Voci concitate si muovevano tutto intorno al palco, nelle retrovie del teatro.
Mezz'ora più tardi ho saputo cos'era successo.
Una donna di nome Sara Lisanti era stata trovata morta in un bagno del primo piano.»

Faccio una pausa. Spalanco gli occhi.
Come ho fatto a non collegare prima i pezzi!

- «Era la moglie del più famoso avvocato di Roma... l'avvocato Nervi...»

Emma trema. I suoi occhi si riempiono di lacrime.

- «Era tua mamma...?»

Lei annuisce impercettibilmente.
Vuole altre risposte. Sembrano servirle per continuare a respirare.

- «Mi sono diretto velocemente negli uffici della direzione. Ero infuriato!
Perché mi avevano chiesto di partire prima, di anticipare il terzo atto?
Era una cosa assurda, e una donna morta nel teatro lo era ancora di più.
Mi sembrava tutto così folle, così senza senso.
Quando sono giunto sulla porta del direttore ho visto due uomini vestiti di nero. Si sono voltati, mi hanno guardato.
Uno di loro ha sorriso.
"Ottima direzione, Maestro", mi ha detto ghignando.
Poi è sparito nel corridoio, seguito dal suo compagno.
Ho provato a fare domande al direttore del teatro, ma continuava ad eluderle.
Le ho fatte per i tre mesi successivi, senza mai ricevere una risposta.
Alla fine, in una lettera, il teatro dell'Opera mi scriveva che non avrebbe più avuto bisogno del mio lavoro.
All'epoca non ero ancora chi sono diventato con gli anni.
E loro mi hanno chiuso le porte in faccia.»

Faccio una pausa frettolosa, cercando di riprendere fiato.
Mentre quel senso di colpa che ho sempre solo intuito distrattamente tra le costole, si fa dirompente come una valanga.
Perché è colpa mia.
Sono stato al gioco assurdo di qualcuno che aveva architettato un omicidio. E il sospetto che mi ha attanagliato per anni si è trasformato in certezza con le lettere di questo fumoso Renato.
È successo qualcosa quella notte. Adesso ne sono sicuro. Qualcosa di cui io sono stato complice involontario.
E adesso è tempo di chiarire le cose.
Finisco la bottiglietta di Campari con una lunga sorsata.
Poi mi dirigo verso l'appendiabiti che sonnecchia stancamente all'ingresso della mia stanza. Inforco il cappotto.
Emma mi guarda con gli occhi spalancati.
Le sue labbra si dischiudono.

- «Robert...?»

Mi volto.
Le tendo la mano.

- «Andiamo?»

Sussurro.
Mi osserva le dita per un momento, poi punta le sue iridi marroni dritte nelle mie.

- «Dove?»

Me lo domanda con un filo di voce.
Le sorrido timidamente, cercando di cacciare a forza il senso di colpa in fondo allo stomaco.

- «Al teatro dell'Opera!»

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