Capitolo 17 - la Turandot
Il tempo sembra essersi fermato.
Tutto in questa camera ridondante di lusso sfrenato mi appare nella fremente attesa di un qualcosa di sconosciuto.
Robert è immobile sul divano. Mi guarda senza vedermi.
I suoi occhi grigi, di solito così attenti e pronti ad analizzare il mondo, si perdono sul mio volto, alla ricerca di qualcosa che forse non riescono a trovare.
Di colpo lo osservo stringere i pugni. Le sue nocche bianche luccicano per un attimo sulla stoffa color canna di fucile dei pantaloni.
Si alza di scatto. Si passa nervosamente una mano tra i capelli, mentre conquista il centro di una finestra affacciata sull'eternità della storia.
Lo vedo appoggiare i palmi sullo stipite, abbandonando il suo peso sugli avambracci, reclinando la testa in avanti per un momento.
Il silenzio diventa assordante. Violentato solamente dal ticchettio di un orologio d'argento abbandonato sul mobile barocco accostato alla parete.
Mi sembra tutto così strano, così assurdo, mentre un panico sottile comincia e sibilarmi tra le costole. Perché questa realtà nella quale mi sto lasciando affogare è diventata improvvisamente necessaria. L'idea di avere qualcuno a cui poter pensare la sera, a cui affidare i miei sogni.
L'idea di un paio di occhi da desiderare accanto, di un uomo da provare ad amare, sembrano dannatamente indispensabili.
Ed adesso, mentre lo osservo lì, nel tentativo di eludere una responsabilità che non vuole, mentre lo guardo fuggire da me e dalla mia assurda richiesta, mi sembra di soffocare.
- «Robert... non sei costretto! Io... scusami!
Non avrei dovuto chiederti nulla. Infondo ci conosciamo solo da poco tempo e...»
Faccio una pausa.
Intuisco la sua schiena alzarsi ed abbassarsi al ritmo sincopato del respiro.
- «Perdonami! Io... adesso è meglio che vada...»
Faccio per voltarmi, per raggiungere la porta, maledicendomi per la mia stupida arroganza.
Quella che nella mia vita è sempre stata in grado di rovinare quasi tutti i rapporti umani che ho provato a costruire. Quella che mi ha allontanata da mio padre, dagli amici, lasciandomi sola con un sogno realizzato tra le mani, con una socia con cui condividerlo, con un fidanzato di convenienza e con il deserto tutto intorno.
Quella che non mi ha mai permesso di amare nessuno... prima di adesso.
Sì, perché è inutile che io ci giri troppo intorno.
Quest'uomo mi affascina, mi fa mancare il fiato, mi fa desiderare di stargli stretta accanto.
E sarò anche solo una sciocca ragazzina troppo cresciuta che si è presa una cotta per il grande direttore d'orchestra, ma cazzo se fa male vederlo allontanarsi da me!
Robert si volta. Nei suoi occhi lampeggia una guerra silenziosa di paura e vergogna.
Sorrido timidamente, cercando di incastrare l'ennesimo ricciolo sfuggito al mio controllo nella bacchetta rubata al ristorante cinese sotto casa.
Prendo la giacca che ho appoggiato sul divano di velluto azzurro solcato di arabeschi, mentre provo in ogni modo a non farmi sovrastare dalla tristezza.
Ho rovinato tutto, ancora una volta. Per un passato che non può fare altro che allontanarsi, ogni giorno un po' di più.
Infilo una manica di quello che in un tempo lontano è stato un cappotto cammello dal taglio maschile. La morbidezza della lana lenisce per un istante la necessità di piangere.
- «Emma...»
La voce di Robert taglia il silenzio. È come se volesse parlare, ma non fosse più in grado di farlo.
Lascio i miei occhi ad indugiare nei suoi, cercando un perdono che probabilmente non sa di essere desiderato con ogni briciolo di forza. E non lo trovo.
Perché le sue iridi grigie continuano a vorticarmi sul volto, senza il coraggio di afferrare le mie.
- «Lascia stare Robert, hai ragione! Non avrei dovuto permettermi!»
Mi porto una mano alla bocca. Mordicchio nervosamente il poco che resta di un unghia che ha già dovuto affrontare tutte le mie domande notturne senza risposta.
Mi lascio scappare una risata nervosa.
- «Chi sono io per chiedere a Robert Wright di farmi un favore?»
- «Emma...»
Gli rivolgo un nuovo sorriso tirato, cercando di risultargli il più rilassata possibile.
Mentre dentro... dentro vorrei solo urlargli di lasciar perdere tutto e di tornare a guardarmi come faceva ieri sera, davanti a quel piatto di maltagliati alle patate, o sotto al portone di casa mia, mentre mi lasciava scivolare le dita sulla guancia.
Perché ho bisogno di lui.
E sono la più grande imbecille di cui si sia mai sentito parlare.
Io, la perfetta signorina nessuno, con le sue quattro ricette finite per sbaglio o per fortuna su una guida leggendaria, me ne sto qui, a sperare che la stella più grande del firmamento della musica, possa avere una qualsiasi ragione per desiderare di starmi accanto.
Per desiderare di non farmi andare via. Con tutti i miei problemi, il mio passato scomodo e le mie lettere misteriose.
Lo osservo fare un passo incerto verso il divano. Poi si arresta, ancora.
Si passa nuovamente una mano tra i capelli. Cerca il mio sguardo.
- «Emma...»
- «Buona giornata Robert. Buon rientro a Berlino...e, scusa ancora, io...»
- «Emma...»
Mi volto, cercando di raggiungere la porta prima che le lacrime comincino a rivendicare il loro spazio allo scoperto.
Intuisco i suoi passi farsi più vicini. Sento il calore del suo corpo raggiungermi la schiena, fino quasi a sfiorarla.
Afferro il pomello, mentre capisco dalla timida scia umida sulla mia guancia, di non essere riuscita a portare a termine il piano che poco fa mi ero prefissata.
Apro la porta. Solo uno spiraglio che mi lascia intuire la luce artificiale del corridoio.
Una sua mano mi supera la spalla, si appoggia pesantemente sul pannello di legno laccato, lo spinge, chiudendolo con un tonfo.
Mi volto.
I suoi occhi sono scossi da una tempesta silenziosa ed implacabile.
Faccio per aprire la bocca, per parlare. Per rifugiarmi ancora una volta dietro una richiesta di scuse sterile.
Lui abbassa lo sguardo. Poi lo rialza, lo punta nel mio, con una violenza a cui non sono preparata.
- «Emma...»
Un nuovo sospiro gli importuna le labbra.
Io smetto di respirare.
- «Emma, ero io a dirigere la Turandot quella notte, al teatro dell'Opera... Sono io la strada giusta!»
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