Capitolo 16 - 5 maggio 1993
- «Sì?»
- «Maestro, perdoni il disturbo, ma qui alla reception c'è una donna che insiste per vederla subito. Ho provato a dirle che...»
- «La faccia salire!»
Riaggancio la cornetta del telefono posto sul comodino con la velocità di un battito di ciglia.
Apro l'armadio, inforco la prima cosa che trovo, nel tentativo di non farmi trovare a petto nudo e con un paio di pantaloni di flanella che sicuramente non mi rendono tutta la giustizia che merito.
Il dolcevita di cachemire mi accarezza la pelle con la delicatezza di una piuma, non ho tempo di pensare ad una camicia che senza dubbio mi farebbe perdere tempo prezioso con l'abbottonatura.
Mi sfilo i pantaloni, li butto con poca grazia in uno dei cassetti di mogano, sostituendoli qualche secondo dopo con un paio di fresco di lana, che sono incontrovertibilmente più appropriati ad una visita inaspettata.
Mi dirigo davanti al grande specchio posto in modo trionfale in mezzo al corridoio della mia suite, mi sistemo frettolosamente i capelli, mi aggiusto il colletto del dolcevita.
Sono un vecchio idiota! Emozionato per l'arrivo di una donna che potrebbe essere mia figlia.
Effettivamente in molte avrebbero potuto esserlo, ma lei è diversa.
Di una bellezza particolare, insolita. Con i suoi capelli perennemente in disordine, con i suoi vestiti sformati, in tutta quella sua imperfezione che ai miei occhi riesce a renderla impeccabile.
Due colpi sulla porta annunciano il suo arrivo.
Un ultimo sguardo allo specchio. Un sessantenne, innegabilmente, ma ancora con qualche carta da giocarsi.
Sorrido soddisfatto. Apro la porta con un clak metallico che riecheggia nella stanza.
La figura di Emma fa capolino in un corridoio coperto di boiserie bianca.
Ha gli occhi leggermente spalancati, i capelli più arruffati del solito e un paio di jeans che contano più buchi che stoffa. La voce eccitata e le mani che tremano leggermente.
Le indico di entrare con un gesto della mano.
Lei conquista il centro del salotto, si siede su una poltrona a ridosso della finestra, senza attendere il mio invito.
Poi si riscuote. Si alza di scatto.
- «Oh, scusa! Io... posso?»
Mi lascio scappare un sorriso divertito mentre mi accomodo sul divano, proprio di fronte a lei.
- «Cosa succed...»
- «Se ti chiedessi un favore, Robert, ti sembrerei troppo sfacciata?»
Si tortura le dita, guardandosi intorno come se cercasse di assicurarsi di essere sola con me, in questa stanza enorme.
- «Se posso volentieri, Emma! Dimmi pure...»
Lei chiude gli occhi per un momento, fa un respiro profondo, poi socchiude le labbra e comincia a parlare, con poco più di un filo di voce.
- «È tutta la notte che ci penso...»
Fa una pausa, mi guarda.
- «E se non risolvo questo mistero non riesco più a fare nient'altro. Mi bombarda la testa, capisci? Non mi lascia ragionare.
Magari è solo un pazzo visionario, magari è uno che non ha niente di meglio da fare, ma io devo scoprire le carte!»
Mi lascio scappare un rapido cenno di assenso del capo, poi poggio la schiena sui cuscini morbidi del divano e incrocio le mani sulle gambe.
- «Così, ho pensato, se vado là, in compagnia di qualcuno che ha un lasciapassare per entrare nelle retrovie e fare domande... ecco, magari posso scoprire chi è questo Renato. Se è uno che si è inventato tutto, o se invece poteva essere effettivamente lì, quella notte, ed aver visto qualcosa!»
Mi fissa speranzosa, con gli occhi immobili.
- «Mi sembra un ottimo piano, Emma. Ma lì dove? Quale notte?»
La vedo trangugiare la saliva. Cercare il coraggio che sembra esserle improvvisamente sfuggito di mano.
- «Forse è il caso che ti racconti una storia, Robert. Altrimenti non puoi capire.»
Mi sporgo in avanti, pronto a ricevere il suo segreto, a farmelo lanciare addosso in quella che, intuisco, deve essere la prima volta.
- «Vedi, mia mamma è morta ventiquattro anni fa.»
Fa una pausa. Chiude gli occhi un momento.
Poi mi guarda, ancora.
- «Mi hanno detto che è stato un incidente, che ha avuto un malore in bagno, che nessuno l'ha sentita, e così è morta senza che si potesse fare niente.
Io ero una bambina allora, mio padre mi ha raccontato questa storia, così come l'hanno raccontata a lui, e io gli ho sempre creduto.
Perché avremmo dovuto non farlo, in fondo?
Sembrava tutto plausibile.
Poi è arrivata la prima lettera di Renato.
Lì per lì non ci ho dato peso. Mio padre è un uomo famoso, in tanti hanno scritto della vicenda, facendo anche strane congetture. Probabilmente per accaparrarsi qualche vendita in più di uno squallido giornale.
Però quella lettera aveva qualcosa di strano, come una richiesta di aiuto, di qualcuno che ha bisogno di liberasi la coscienza.
E poi quella frase che mi ha scritto quando eravamo sul lungotevere, ieri.
Sei sulla strada giusta.
Quale strada?
Ho percorso quelle vie di Roma mille volte, non è quella la strada che intendeva.
E non ho fatto nessuna ricerca dal ricevimento della sua prima lettera.
Quindi quale strada?
Non riesco a togliermi quelle parole dal cervello, Robert!»
Annuisco ancora una volta. Poi cerco di intromettermi nella sua agitazione e di farmi spiegare meglio perché ha pensato di venire da me.
- «Mi dispiace, Emma. Io... dimmi, esattamente, cosa posso fare per aiutarti?»
Lei si lascia sfuggire una risata.
- «Hai ragione! Non ti ho raccontato uno dei punti salienti della storia!
Mia mamma è morta il 5 maggio 1993...»
Sento il cuore mancare un battito. Un sudore freddo si intrufola sotto la maglia di cachemire, mi sibila sulla spina dorsale.
Mi muovo sul divano come se fosse diventato improvvisamente incandescente.
Emma ha gli occhi bassi, fissa un qualche disegno del tappeto che non riesco ad identificare con sicurezza, mentre un'ansia sopita da molti anni mi agguanta le viscere come farebbe una tagliola.
Una consapevolezza melliflua mi serpeggia nella gola.
Per cosa potrebbe esserle utile un direttore d'orchestra famoso in tutto il mondo?
Dove potrei farla entrare senza problemi, ad esplorare delle retrovie inaccessibili a tutti?
Mi tornano in mente gli stralci della conversazione fatta davanti al caffè scadente di un albergo.
Prego in silenzio perché non lo dica, perché non pronunci la parola che temo come potrei temere un colpo di pistola.
La vedo distrattamente sollevare gli occhi, puntarli dritti nei miei.
Poi apre la bocca, e un sussurro quasi sommesso mi toglie gli ultimi residui di fiato dai polmoni.
- «Al teatro dell'Opera di Roma.»
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