Capitolo 12 - stanza 216

Il primo concerto della stagione sinfonica ha salutato la capitale tedesca con la melodia trionfale della nona sinfonia di Beethoven.
Come da tradizione.
Le settimane di prove sono state infinite, estenuanti. Mi hanno visto impegnato per giorni interi a cercare di dare il mio suono ad un'orchestra che ha una storia ingombrante.
A coordinare musicisti di un'esperienza quasi sconfinata, a farmi portare per mano dal loro modo di suonare insieme, cercando nello stesso tempo di imporre il mio.
Gli applausi della sala hanno rischiato seriamente di tirare giù il soffitto, quando con il pugno chiuso ho imposto il silenzio alla fine dell'ultima battuta.
Uno scrosciare di mani, di voci, una miriade di occhi, che non vedevano altro che me, nel mio smoking di alta sartoria, in piedi sul podio più prestigioso della storia.
Come al solito mi sono ritirato in fretta, scappando non appena l'educazione mi ha concesso di sciogliere le catene.
Mi sono infilato in albergo da una porta laterale, evitando la folla perenne che sembra campeggiare davanti all'atrio ormai da giorni, e ho inforcato il corridoio del secondo piano.
E, come ogni sera, ho camminato veloce fino alla sesta porta sulla destra, quella della stanza 216, dove ho rallentato il passo, lasciando scivolare le punte delle dita sul legno dipinto color crema.
Mi trovo imprigionato nell'incantesimo di una ragazza dal sorriso pulito, pieno di voglia di vivere e di speranza nel futuro.
Non credo che abbia avuto una vita semplice, sicuramente non semplice come la mia. Eppure nelle sue sfide, nelle sue vittorie, io mi ci sono ritrovato come se mi avessero affondato i piedi in un blocco di cemento, e adesso non riesco a scappare.
Il giorno successivo alla nostra cena mi sono trattenuto a stento dall'andare alla conferenza della Michelin.
Mi sarebbe bastato alzare il telefono, e farmi procurare un biglietto. Nessuno ha mai detto di no a Robert Wright.
Ero lì, con la cornetta in mano come un cretino, e con il dito quasi premuto sul pulsante per comunicare con la reception, e mi sono sentito uno schifo.
Mi sono figurato questo vecchio dai capelli grigi, con i suoi vestiti da settemila sterline, intento a pensare di poter comprare anche l'amicizia di una giovane donna.
Mi sono illuso che fosse stata semplicemente la piacevolezza della sera precedente a lanciarmi il richiamo della sua vicinanza. La necessità di avere un essere umano con cui parlare, la felicità di avere trovato qualcuno con cui ridere davanti ad un piatto di pasta improvvisato.
Lontano dai ristoranti lussuosi, dalle cene di gala, e lontano anche dalle mie tazze da tè profilate in oro zecchino, e dalla solitudine che rappresentano.
Pensavo che la direzione della Berliner mi avrebbe concesso di dimenticare la sensazione straordinaria di una donna normale, che mi guarda semplicemente come Robert, e non come il maestro Wright.
Pensavo che la mia musica mi avrebbe costruito una nuova armatura intorno al cuore, facendomi desiderare ancora una volta il distacco dal mondo nel quale vivo da anni.
Ed invece, ogni sera, mi ritrovo qui, ad accarezzare la porta che meno di quindici giorni fa ho trovato aperta. Quella che ha rappresentato il passaggio ad un nuovo desiderio di rapportarmi con me stesso, in un modo nemmeno troppo metaforico.
Raggiungo la suite osservandomi la punta delle scarpe. Sempre perfette, sempre lucide, sempre costose oltre ogni logica. E mi rendo conto di non avere praticamente nient'altro, a parte la musica, gioia e tormento della mia vita asettica.
Spalanco la porta, allargo il papillon dello smoking, e mi lascio cadere sul materasso morbido del mio baldacchino.
Sì, sono quasi un vecchio, sono solo da tutta la vita, a parte la sfilata di modelle idiote che saltuariamente ho infilato nel mio letto, ho una governante che mi fa da madre a quasi sessant'anni, una carriera stellare, una sequela di targhe sparse per il mondo come ringraziamento per la mia beneficienza... e poi?
Poi non ho nient'altro.
Se adesso dovessi avere un infarto e mi chiedessero se c'è qualcuno che voglio avvisare, per salutarlo un'ultima volta, io non saprei che numero di telefono comporre.
Non posso chiedere di chiamare Mozart, o Rachmaninof. Non posso lasciare scritto di mandare le mie ultime volontà a Deboussy o a Chopin, perché quelli che da tutta la vita considero amici, sono solo note imprigionate in spartiti impolverati. E non possono darmi altro che melodie magiche ed infinite, che ormai conosco a memoria.
Non c'è più il fascino della sorpresa, la maraviglia della scoperta.
Ma seduto a quel tavolino, su una sedia scomoda, con una giovane cuoca italiana dall'accento newyorchese davanti, beh, lì era diverso. Era tutto da conoscere, tutto da imparare, da cercare.
Mentre lei mi raccontava la sua storia, io venivo trasportato dalla stessa potenza di Verdi, venivo innalzato dalla stessa grazia di Ravel, anche se era tutto semplice, tutto terribilmente normale.
In quella stanza, per la prima volta dopo tanti anni, ho smesso di sentirmi solo.
E sì, sarò solo un vecchio patetico, con la testa imprigionata nei ricci di quella che è poco più che una ragazzina, ma sono anche un uomo che forse, a questo punto, può concedersi il lusso di desiderare qualcosa di più.
Faccio un respiro profondo, mentre lascio che la mia mano raggiunga il telefono. Faccio saltellare la cornetta tra le dita per qualche secondo, poi schiaccio il tasto arancione della reception.
Nemmeno due squilli, e la voce impettita di una donna dal fortissimo accento tedesco mi martella il timpano al di là del telefono.

-    «Mi dica tutto Maestro, come posso esserle utile?»

Un altro sospiro.
Sono un idiota! Un vecchio, stupido, patetico idiota!

-    «Mi prenoti il primo volo in partenza per Roma...»

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