Capitolo 1 - Emma

Non sempre sappiamo dove la vita ci porta.
Guardate me, ne sono l'esempio lampante.
Nata ricca, ricchissima.
Chiusa in una gabbia di cristallo luccicante.
Con un futuro già scritto, un lavoro già scritto, una vita doppiata male, incatenata ad una scrivania del più grande studio di giurisprudenza di Roma.
Con un cognome altisonante, una carriera lanciata su un tappeto rosso ed il mondo ai miei piedi.

Ma la vita è beffarda.
L'ho già detto vero?
Quanto meno lo è stata per mio padre.
Quando si è trovato davanti una ragazzina ben piantata sui piedi, con le braccia incrociate e lo sguardo di chi ha capito che non ci sta.
Di chi ha capito che vuole prendere in mano il libro della sua vita, e riscriverlo da capo.
E quindi eccomi qui.
Con il mio cognome glorioso a pesarmi come un macinino sulle spalle, con le mani devastate dal detersivo per piatti, e con una passione ben incollata negli occhi.
Sì, perché io ho sempre saputo dove volevo arrivare.
Da quando ero una ragazzina che scappava dal castello delle bambole, per rifugiarsi nell'appartamento di periferia della nonna, dove per un attimo potevo dimenticare i tomi impolverati di diritto penale, e concedermi il lusso di affondare fino ai gomiti nell'impasto per le tagliatelle.
Dove dimenticavo per l'effimero specchio di due ore rubate al mio destino, di dover seguire la rotta disegnata per me da qualcun altro.

Mia nonna non sapeva cucinare.
A dirla tutta era quanto di più distante da uno chef si potesse immaginare.
Ma per me si trasformava.
Tirava fuori dallo scaffale un libricino mal concio di suor Germana, scartabellava velocemente tra le pagine e trovava una nuova sfida da farmi affrontare. Ogni nuovo fine settimana.
Quello che ne usciva era spesso un disastro.
Se la suorina sulla copertina avesse potuto vedere i nostri risultati detestabili, probabilmente si sarebbe vergognata.
Ma a noi non importava.
A noi interessava creare quella meraviglia fatta di chimica e passione, che prendeva una forma discutibile sotto le nostre mani.
A noi interessava sentire il profumo del ragù che si spargeva per la stanza come una nube tossica, produrre un cimitero di piatti sporchi e mangiare fino a sentire lo stomaco tirare.
No, forse non era sempre buono. Forse non era sempre perfetto. Ma era la nostra scultura.
Ci sentivamo due novelli Michelangelo, che plasmavano dalla materia inerte un piatto di saltimbocca alla romana, o un'infilata di gnocchi che non sarebbero stati insieme nemmeno se ci avessimo impastato dentro della colla vinilica.
Eravamo felici così. E quello ci bastava.

Poi è arrivato quel giorno di novembre, e insieme a lui quella telefonata.
Un medico mi diceva gentilmente che non ci sarebbe stata cura, che la malattia avrebbe rubato giorno dopo giorno i pezzi di una mente brillante, di una donna brillante, trasformandola in un involucro di carne che non avrebbe contenuto altro che ricordi sconnessi, che non avrebbe lasciato uscire altro che frasi prive di senso. Che l'avrebbe uccisa, fortunatamente in modo non troppo lento.

E dopo novembre è arrivato gennaio, la cucina di mia nonna continuava ad essere invasa dalle pentole, ma non dalle sue risate.
Mi guardava con occhi assenti, come un bambino che si trova davanti ad un'equazione matematica che non riesce a risolvere.
Aveva cominciato a detestare il mondo. Proprio lei che aveva sempre sorriso a tutti. E chi più detestava al mondo, improvvisamente, era diventato mio padre. Il suo stesso figlio, quello che per anni era stato il suo orgoglio.
-Tuo padre è un uomo cattivo, Emma- ripeteva come un mantra.
Forse era il fatto che andava a trovarla poco, vittima anche lui, come me, del dolore che uno schifo di malattia gli scaricava addosso senza pietà, mentre osservava inerme un mostro senza forma portarsi via la donna che gli aveva dato tutto. Forse era solo qualche assurda visione che le aveva invaso la mente. Non l'ho mai saputo.
So solo che il rapporto difficile che ho sempre avuto con mio padre non ha mai contribuito a farle cambiare idea, mentre la osservavo prendere i tappi di sughero nel cassetto delle posate, ed infilarli nel ragù. Guardavo impotente la malattia mangiarsi la parte migliore di lei, senza il coraggio di parlare.

- «Ottima idea, nonna!»

Sussurravo sorridendo.
Poi di nascosto toglievo il tappo dalla pentola del sugo e lo buttavo nel cesto dell'immondizia nascosto sotto al lavandino.
L'Alzheimer è una malattia di merda!
È subdola, strisciante.
E implacabile.
Si avvinghia nelle spire di una vita e ne succhia il sangue come un pipistrello impietoso, fino ad asportare completamente ogni cosa.
E tu te ne resti lì inerme, a cercare di tamponare con un sorriso bonario le assurdità che osservi compiere dalle mani di chi ti ha cresciuto, a far finta di vedere i personaggi immaginari che escono dalla bocca di chi ti ha baciato tante volte la fronte.
Perché sai che, nascosta sotto tutto quanto, tua nonna è ancora lì, da qualche parte.
E non vuoi ferirla.
Non hai la forza di ammettere che non la rivedrai mai più. Che quella che hai davanti è solo la maschera di cera di lei, in una riproduzione così reale da saperti togliere il respiro.

Io non so se sono diventata una cuoca per passione. So solo che sono diventata una cuoca per sentire ancora l'odore di ragù che invadeva quelle quattro mura, nascoste nella periferia di una capitale immensa.
So solo che il giorno in cui è morta ho promesso a me stessa di non lasciarmi avvolgere dalle spire del desiderio di mio padre, di dedicare la vita a fare quello che amavo.
E così mi sono ritrovata chiusa in cucine sudice di due metri per due, a lavare pile di piatti che sembravano non voler finire mai.
Perché non si diventa cuochi sbandierando un sorriso smagliante e una laurea in giurisprudenza.
Si diventa cuochi guardando di soppiatto altri cuochi, cercando di carpire i segreti meravigliosi nascosti nelle loro mani.
Si diventa cuochi fondendosi le dita con i detersivi, schivando le urla, i maltrattamenti, sopravvivendo a stipendi da fame e a tante di quelle ore di lavoro da smettere di sentire le braccia.
Si diventa cuochi giorno dopo giorno.
Cucinando di nascosto con gli avanzi dei ristoranti, leggendo libri di cucina fino a farsi bruciare gli occhi, assimilando i termini francesi più disparati e provando a replicarli su un tagliere logoro con un coltello in mano.

Poi un giorno, se sei fortunato, qualcuno si accorge di te. Capisce che forse può affidarti l'esecuzione di un'insalata.
E se tu, quell'insalata, sai farla bene, allora forse potrai cuocere una pasta.
E se tu, quella pasta, la cuoci bene, allora forse potrai mettere in pentola un arrosto.
E se tu, quell'arrosto, lo rosoli bene, allora forse potrai provare una tua ricetta.
E se tu, quella ricetta, la fai bene e se alla gente seduta in sala piace, allora potrai farne un'altra. E poi un'altra. E ancora un'altra.
E quando sul menù vedrai luccicare più ricette tue di quelle dello chef spocchioso che hai servito e riverito per anni, allora, e solo allora, potrai sentirti un cuoco.
Ed è una sensazione bellissima.

Poi magari hai la fortuna di incontrare un'amica.
Una che odia sporcarsi le mani con la farina ma che beve di nascosto i fondi dei bicchieri di vino per carpirne i misteri.
Una che ama servire le persone con il sorriso sulle labbra e con l'orgoglio dipinto negli occhi.
Una che gestisce una sala di duecento coperti con la facilità con cui tu monteresti una macchinina di lego.
E se quella persona la incontri, se anche lei condivide il tuo sogno, allora forse potrai pensare di lavorare diciotto ore al giorno, di dormire tre ore per notte, di mettere da parte tutti i soldi che puoi, concedendoti un affitto di una casa pulciosa per anni, sperduta in qualche strada di cui persino gli urbanisti hanno dimenticato il nome, e di comprati infine un locale tutto tuo.
Con lei, la pazza visionaria che hai incontrato per strada e che adesso fa parte della tua vita.
Potrai sognare di acquistare quattro mura in una viuzza del centro, così strette da stentare a contenere i tavoli tutti diversi che hai trovato al mercatino dell'usato, con le sedie che un po' dondolano e un po' implorano pietà, con i fiori freschi che all'inizio rubi dai parchi pubblici perché non puoi permetterti di comprarli.
E con le tue ricette ben stampate sul menù di fianco alla porta.
Con il tuo piccolo regno fatto di acciaio e pentole.
Con la tua passione che si infrange come una valanga sulla porcellana dei piatti.
E con il sorriso sulle labbra.

Così è cominciato tutto.
E così voglio che finisca.
Ah, dimenticavo... io mi chiamo Emma, e questa è la mia storia.

Nota dell'autrice: in questo momento mi trovo in bilico tra l'emozione e il terrore.
Cominciare a pubblicare qualcosa di totalmente tuo sa concedere un brivido strano, è un po' come mettere a nudo per strada una parte di te.
Vi ringrazio infinitamente per aver dedicato il vostro tempo a questa piccola parte di me che ha deciso di mostrarsi e, vi prego, fatemi sapere cosa ne pensate. Ci tengo tantissimo.

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